Fatima

di Giulia Argentieri Federzoni

 

La stazione di polizia era calda e affollata. Tutti parlavano con tutti e Fatima sentì le orecchie riempirsi di quel caos incomprensibile. Le poche parole che riusciva ad afferrare non le bastavano a capire. Era in piedi vicino alla porta, in attesa che l’agente seduta alla scrivania chiamasse il suo nome, le lunghe dita strette alla cartellina bianca piena di fogli. Un uomo di mezza età seduto all’angolo della stanza la stava fissando. Fatima non guardò mai nella sua direzione, ma riusciva a sentire i suoi occhi su di lei. Nelle due settimane che aveva trascorso in quel paese, aveva perso il conto delle volte in cui un uomo l’aveva guardata insistentemente in pubblico. La sfrontatezza di quegli sguardi ere nuova e irritante. La gente in Marocco non osava fissare le donne con tanta impertinenza nei luoghi pubblici. Ma a Fatima non spaventavano più di tanto le occhiate di quegli uomini occidentali. Erano uno scherzo in confronto a ciò che avrebbe dovuto sopportare a casa. La sola cosa che la separava dal suo incubo era l’autenticità dei documenti. Quando l’agente chiamò il suo nome, Fatima si avvicinò alla scrivania e per cinque volte chiese se i documenti erano validi, se era proprio sicura. Per cinque volte la poliziotta rispose di sì annuendo vistosamente e articolando ogni sillaba a voce alta nel modo in cui molti fanno con gli stranieri, quasi fossero sordi. Era una regolare residente con validi documenti.

Uscì dal commissariato e cercò un posto dove sedersi. La panchina di un piccolo parco giochi dall’altro lato della strada era tutto quello che la zona aveva da offrire. Fatima non voleva andare a casa. Ora che aveva i documenti e tutto era sistemato, l’ineluttabilità del suo futuro prossimo la colpì come un pugno allo stomaco. Provò a concentrarsi sui bambini che giocavano davanti a lei. Sembravano molto felici. Di quella felicità che solo i bambini possono provare. Lei aveva solo dieci anni più di loro e non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui si era sentita felice. Un uomo anziano stava spingendo la nipote sull’altalena e le sorrise quando si accorse che li stava osservando. Fatima ricambiò il sorriso, poi si voltò di scatto verso un cespuglio dietro la panchina e diede di stomaco. Sperando di non essere stata vista, si asciugò la bocca con la manica della camicetta e poi andò a sciacquarsi il viso ad una fontanella. Doveva chiamare sua madre. Forse poteva esserci un modo per cambiare i termini dell’accordo. Raccolse tutte le monete che aveva nella borsa e le poche nelle tasche e si affrettò verso la cabina telefonica più vicina, a due isolati dalla stazione di polizia. Aveva abbastanza credito per una conversazione di due minuti con il Marocco.

Sua madre pianse di gioia quando le disse dei documenti e ringraziò Allah e la sua grazia infinita per la fortuna che aveva avuto.

“Mamma, non ce la faccio. Non voglio farlo. Ti prego. Non mi costringere. Salvami, ti prego.”

Il silenzio dall’altra parte della cornetta fu brutale ed eloquente. Doveva farlo, per lei e per i suoi fratelli. Era lei a dover salvare loro dalla miseria. La loro unica speranza.

“Dio ti perdonerà perché sa che lo stai facendo per noi.”

Fatima non ebbe il tempo di rispondere. Il suono metallico dell’ultima moneta digerita dall’apparecchio mise fine alla telefonata. Si appoggiò al vetro della cabina. Non pianse. Era arrabbiata. Arrabbiata con i bambini che giocavano nel parco e non avevano idea di quello che lei stesse passando, con l’anziano signore che le aveva sorriso facendola dare di stomaco, con sua madre che non aveva voluto salvarla. Era arrabbiata con Dio che non stava ascoltando le sue preghiere. Ma soprattutto, era arrabbiata con sé stessa per essere così giovane, bella e sola in quel paese che odiava.

Camminare fino a casa le fece guadagnare un po’ di tempo. Avrebbe potuto prendere l’autobus, ma non aveva alcuna intenzione di arrivare in anticipo. Trovò il portone del palazzo aperto, salì a piedi i tre piani e suonò il campanello. Fatima pregò con tutte le sue forze che la porta rimanesse chiusa, che una miracolosa disgrazia fosse accaduta e l’avesse liberata. Ma Dio non le prestò attenzione e la porta si aprì. Il vecchio le sorrise, e il suo viso si riempì di rughe. Indossava una vestaglia di seta blu notte e pantofole dello stesso colore. Si spostò dall’ingresso e la invitò ad entrare con un ampio gesto della mano. Fatima rimase immobile e fissò quella mano, la pelle sottile e macchiata, le vene sporgenti del colore della vestaglia. Il vecchio disse qualche parola che lei non capì e che odorava di alito cattivo e dentifricio. Continuava a sorriderle mentre i suoi occhi ispezionavano il suo corpo con impazienza. Esitante e nauseata, Fatima entrò.

Quella notte Fatima non perse solo la verginità, ma pagò il prezzo dei suoi documenti di residenza, un prezzo che sua madre aveva negoziato con il compratore quando gli aveva venduto sua figlia mesi prima. Per un anno, lei sarebbe stata la sua concubina. Per un anno avrebbe dovuto tollerare la pelle molle che si strofinava su di lei, la puzza del respiro nelle orecchie, le dita ossute che tastavano e strizzavano ogni parte del suo corpo. La prima notte non aprì mai gli occhi, e, una volta finito, corse in bagno e pianse. Poi, come sua madre le aveva spiegato, prese i pantaloni di lino bianchi dal suo bagaglio e li indossò finché non furono macchiati di sangue. La prova della sua verginità era il sigillo del contratto con il vecchio e la dimostrazione tangibile della sua fedeltà ad Allah. Quando il sangue fu rappreso piegò i pantaloni e li ripose in una sacca di seta che aveva comprato al mercato il giorno della partenza. La prima volta che sua madre le aveva spiegato il rito dei pantaloni bianchi, Fatima aveva immaginato che quando quel giorno sarebbe arrivato per lei, avrebbe pianto di gioia tra le braccia di suo marito ringraziando Allah. Niente di più lontano dalla disperazione e dalla vergogna che provava seduta sul pavimento di quel bagno sporco, in quella casa orrenda, abbandonata da tutti, Dio incluso.

Fatima non pianse più dopo quella notte. Non per un uomo almeno. Ben presto si costrinse ad accettare quelle condizioni e decise di sfruttare la situazione a suo vantaggio. Se il suo corpo doveva pagare un prezzo così alto, il minimo che potesse fare era ottenere tutto ciò che desiderava in cambio. Si iscrisse ad un corso di lingua che prometteva di dare risultati in sei mesi e che non deluse le sue aspettative. Una volta superato l’ostacolo della lingua, decise di dedicarsi all’estetica e scelse di frequentare la scuola più costosa della città. Il vecchio pagava le sue spese senza discutere. Le giovani immigrate vergini erano il solo lusso che aveva deciso di concedersi in pensione, e assecondare le richieste di Fatima non gli creava alcun problema, purché lei continuasse ad assecondare le sue.

Dopo soli quattro mesi dall’inizio delle lezioni una delle insegnanti della scuola di estetica offrì a Fatima un lavoro come apprendista in un grande salone del centro che lei accettò con entusiasmo. L’indipendenza economica sarebbe stata la chiave per la libertà. Non appena seppe del nuovo lavoro, la madre di Fatima le ricordò il motivo per cui si trovasse lontana, a cercare fortuna in un altro paese, e che in Marocco lei e i suoi due fratelli minori avevano fame e bisogno di soldi.

A poco servì dirle che il lavoro era part- time e che stava cercando di risparmiare qualcosa per andare via dalla casa del vecchio. Dopo quella telefonata Fatima iniziò a mandare la metà del suo guadagno mensile in Marocco, ma continuò ad accumulare il resto in una scatola di latta che teneva sempre con sé. Durante la settimana non pranzava mai per risparmiare, e la sera era talmente affamata che qualsiasi cosa il vecchio avesse in frigo le sembrava squisita. Le altre ragazze del corso e le sue colleghe del salone uscivano la sera, e durante la giornata si raccontavano storie sui ragazzi che frequentavano e i locali in cui andavano a bere alcol e ballare fino a tarda notte. Qualcuna di loro aveva provato a chiedere a Fatima cosa facesse nel suo tempo libero, ma lei aveva sempre risposto, schiva ed educata, di averne ben poco, e che quindi si riposava. Raccontare a quelle ragazze che passava le sue serate a scaldare il letto di un voglioso uomo anziano che l’aveva comprata in cambio dei documenti per vivere legalmente nel loro paese, ecco… le sembrava inappropriato. Provava un’invidia sincera per la spensieratezza con cui le sue coetanee sembravano vivere. Per lei contava solo imparare velocemente e guadagnare il più possibile, in poco tempo.

Una mattina la proprietaria del salone le chiese di aprire, perché lei aveva un impegno che l’avrebbe tenuta occupata fino all’ora di pranzo. Fatima si sentì onorata per la fiducia e, prima di aprire il negozio, lo pulì da cima a fondo come fosse il suo, voleva essere certa di accogliere i clienti nel miglior modo possibile. Per più di un’ora dopo l’apertura non si presentò nessuno, poi, verso le dieci, entrò un uomo. Fatima lo guardò avvicinarsi mentre era intento a leggere il volantino con la lista dei trattamenti che aveva preso dall’espositore all’ingresso. Non era molto alto, avrà avuto una trentina d’anni, indossava un completo elegante dall’aria costosa e aveva pochi capelli per la sua età. Fatima si soffermò sulle sue mani. Erano grandi e belle, con dita affusolate e unghie curate, e la pelle leggermente abbronzata di chi trascorre i weekend estivi in qualche bel posto a prendere il sole. L’uomo alzò lo sguardo e, nel vedere Fatima che lo osservava, sorrise e si scusò per non aver nemmeno salutato, ma doveva fare un regalo, aveva poco tempo e non sapeva cosa scegliere. Aveva un sorriso gentile che la fece arrossire. Lui si accorse del suo imbarazzo e cercò di metterla a suo agio chiedendole di consigliargli un regalo per una cara amica. Fatima iniziò ad elencare le varie possibilità e si rese conto che per la prima volta da quando era in quel paese, stava parlando con qualcuno senza paura di sbagliare un verbo o una frase. L’uomo dal sorriso gentile la ascoltava con attenzione, e di tanto in tanto si complimentava con lei per la bravura nel parlare la sua lingua. Dopo aver ascoltato i consigli di Fatima scelse il regalo che lei aveva suggerito, un massaggio rilassante con oli essenziali, pagò con la sua carta di credito dorata, la salutò con un gran sorriso e uscì.

Nei giorni seguenti Fatima si trovò, con sua grande sorpresa, a sperare che l’uomo gentile tornasse al salone e le sorridesse di nuovo. Quella sensazione la disturbava perché la faceva sentire strana, nervosa ma inspiegabilmente felice e, cosa ben peggiore, le rendeva ancora più insopportabile concedersi al vecchio ogni sera. Riusciva a pensare solo a quell’uomo, alle sue belle mani abbronzate e lisce, e al suo sorriso. L’ultima volta che aveva provato qualcosa di simile aveva 11 o 12 anni e una cotta per il figlio della sua professoressa di francese, un ragazzo di 15 anni che ogni giorno incontrava alla fermata del bus. Non gli aveva mai rivolto la parola, ma si scambiavano timidi sorrisi ogni mattina, e questo bastava a riempire le sue giornate di fremente attesa per il giorno seguente. Da quando si trovava in quel paese Fatima non aveva mai considerato l’idea di poter provare sentimenti per un uomo. Il suo rapporto forzato con il vecchio l’aveva indurita al punto di non riuscire a provare più nulla, o almeno così credeva, e quel nuovo interesse così vivo la metteva in agitazione come fosse ancora, di nuovo, una ragazzina.

Qualche settimana dopo, mentre camminava verso la metro per tornare a casa, una macchina scura ed elegante si fermò accanto al marciapiede. Dal finestrino Fatima distinse chiaramente il sorriso dell’uomo gentile che la fece arrossire come la prima volta. Lui scese dalla macchina e le chiese se poteva darle un passaggio fino a casa. Lei sorrise, e rispose che le faceva piacere andare a piedi. Il pensiero che il vecchio potesse vederla con un altro uomo, o peggio, che qualcuno scoprisse dove e con chi abitava, le fece seccare la gola e mancare il respiro. Ma l’uomo gentile insistette, così Fatima lasciò che lui le aprisse la portiera e l’accompagnasse dove lei aveva chiesto. Il solo indirizzo che ricordasse era quello della stazione di polizia che, per sua fortuna, si trovava in un bel quartiere residenziale lontano dalla squallida periferia in cui abitava con il vecchio. Durante il tragitto, Tom, così disse di chiamarsi, le chiese se poteva invitarla a mangiare fuori una sera, naturalmente solo se non aveva già qualcuno con cui andare a cena fuori, se sapeva cosa intendesse. Fatima non era certa di comprendere, non era mai andata a cena con nessuno, fatta eccezione per una sola volta, in Marocco, quando suo padre era tornato da un lungo viaggio e aveva portato tutta la famiglia a mangiare in un ristorante di Marrakech per festeggiare una promozione di lavoro che, si scoprì poco dopo, non aveva mai avuto. Quella sera si era ubriacato fino al punto di non reggersi più in piedi, e quando aveva biascicato al cameriere che non aveva i soldi per pagare il conto, sua madre si era scusata con il proprietario dicendo che suo marito era molto malato, e promettendo che avrebbe ripagato il conto mandando per un mese sua figlia a pulire gratis la loro cucina. Oltre a spazzare, lavare, sgrassare e lucidare, Fatima dovette anche lasciare che cuochi e camerieri facessero il possibile per strusciarsi su di lei ogni volta che dovevano prendere qualcosa da una mensola o una credenza. I più audaci le bisbigliavano anche oscenità, costringendola a sentire sulla schiena l’effetto che il solo passarle accanto gli faceva. Aveva 13 anni, e una volta pagato il debito di suo padre, non aveva mai più messo piede in un ristorante.

Eppure il sorriso disarmante di Tom la convinse ad accettare; mentre scendeva dalla macchina le diede appuntamento lì, dove l’aveva appena lasciata, alle 8 della sera successiva.

Passarono tre ore prima che Fatima si decidesse a tornare a casa, non solo perché il posto in cui si era fatta lasciare da Tom era dall’altra parte della città rispetto al suo vero indirizzo, ma anche perché aveva bisogno di riflettere. Era passato quasi un anno ormai, e mancava poco alla fine del suo contratto con il vecchio. La sua vita in quel paese iniziava ad essere come lei la desiderava. Aveva un lavoro che le dava molte soddisfazioni, ormai parlava fluentemente la lingua, poteva guardare un intero film capendone il significato. Ed era riuscita a mettere da parte dei soldi che le avrebbero permesso una certa indipendenza. Ma tutto questo non bastava. Le richieste di sua madre erano sempre più esose, i vizi di suo padre costavano cari e i suoi fratelli dovevano avere vestiti dignitosi per andare a scuola. Lei la scuola non l’aveva mai finita. A 16 anni aveva dovuto interrompere gli studi per occuparsi della casa, e di suo padre, che doveva tenere sotto controllo mentre sua madre lavorava per pagarne i debiti. Ma i soldi non bastavano comunque, e così Fatima fu spedita in Europa come clandestina da una lontana parente che faceva la domestica nelle case dei ricchi. La sola cosa che sapesse fare era parlare il francese. Governare la baracca nella quale viveva con la sua famiglia in Marocco era un conto, ma tenere pulite case lussuose, stirare camicie e rifare letti era un’impresa complicata per una ragazzina senza esperienza. Dopo sei mesi in cui con fatica aveva imparato a fare quasi tutto, tranne stirare le camicie, quello proprio non le riusciva, fu fermata per strada da un poliziotto che le chiese di mostrargli i suoi documenti. Fatima non capì mai per quale motivo avesse fermato proprio lei, ma nei mesi trascorsi in quel paese freddissimo si era resa conto di quanto ogni strada, ogni persona in quel posto fosse pulita, ordinata e impeccabile, e di quanto lei, con i suoi vaporosi capelli nerissimi e la pelle ambrata fosse, invece, diversa da tutti. La sera stessa in cui il poliziotto la fermò Fatima fu portata all’aeroporto e imbarcata su un volo pieno di suoi compatrioti che, come lei, avevano avuto la sfortuna di essere fermati per strada da un agente. Ancora stordita, per la rapidità e l’efficienza con cui tutto era avvenuto, si chiese dove mai avessero vissuto in quei mesi tutti quei marocchini che non aveva mai incontrato da nessuna parte, e fu molto felice di tornare a casa, lontano da quel freddo insopportabile che le era entrato nelle ossa.

La mattina del giorno del suo primo appuntamento si era svegliata molto presto e aveva preparato una sacca con il solo vestito adatto che possedeva, un tubino nero che le aveva regalato la proprietaria del salone e che non aveva mai messo, un paio di sandali di cuoio portati dal Marocco, degli orecchini turchesi, una spazzola e un deodorante. Non avrebbe avuto il tempo di tornare a casa per fare una doccia e poi farsi trovare al suo finto indirizzo pronta e vestita per le 8. Aveva detto al vecchio che avrebbe cenato con le ragazze del lavoro, e lui non aveva avuto nulla da obiettare purché fosse tornata a dormire a casa. Chiese alla proprietaria del salone se poteva andare via dieci minuti prima, e sia lei che le colleghe la guardarono prepararsi incredule e felici che finalmente uscisse con qualcuno. Fatima arrivò al luogo dell’appuntamento con venti minuti di anticipo e si rese conto di non essersi mai seduta durante tutta la giornata, aveva le gambe stanche e i piedi doloranti. Attraversò la strada e andò a sedersi sulla panchina del piccolo parco giochi, dove si era seduta il giorno in cui aveva preso i documenti quasi un anno prima. Non c’erano bambini a quell’ora, ma solo due adolescenti accaldati che fumavano una sigaretta ciondolandosi sulle altalene. Quella sera, a mezzanotte, avrebbe compiuto 19 anni e dopo l’anno appena trascorso non avrebbe potuto immaginare modo migliore di festeggiare che andare a cena con un uomo gentile, ben vestito e affascinante. Si lisciò la gonna con le mani e guardò l’orologio distratta senza vedere l’ora. Una macchina scura ed elegante accostò di fronte a lei dall’altro lato della strada e il sorriso che Fatima stava aspettando le ricordò che le otto erano finalmente arrivate.