Donato Greco

Sapevamo che Donato Greco amava raccontare storie ma di lui ci sembrava di non sapere altro.

Era un tipo che si vedeva poco. Era vecchio ma aveva i capelli folti e neri. Indossava pantaloni neri, giacca nera e gilet nero anche d’estate. Cravatta nera, scarpe nere, calzini neri e grande cappello nero; di bianco aveva soltanto la camicia. Era un tipo funereo dal quale stare alla larga? No, anzi, ci attraeva. Appariva alto, massiccio e altero, un gigante austero e burbero che non rideva mai. Ci metteva paura? No, incuteva soggezione e rispetto, incuteva riverenza e qualche timore ma non paura.

Avevamo scoperto che Donato amava raccontare storie e quindi ci attraeva e vincevamo ogni timore. I bambini che per primi avevano scoperto questa sua cosa l’avevano rivelata ai più piccoli e la cosa si era tramandata così man mano che nuovi bambini si erano aggiunti alla brigata.

Ma davvero non sapevamo nulla di Donato Greco? Come era impossibile se per noi bambini non esistevano steccati o porte chiuse capaci di custodire segreti?

Eravamo liberi di circolare ovunque, ficcavamo il naso dappertutto e conoscevamo ogni casa, ogni comò, ogni giardino, ogni anfratto ed ogni famiglia. Alberi, cisterne, focolari, cortili, magazzini, cantine, lamie, tettoie, pollai, fiori, stalle, animali, rimesse, attrezzi, mamme, nonni, nipoti, amicizie e parentele. La bottega del ciabattino, quella del falegname, il mulino, il frantoio, il palmento e gli addetti ai lavori. Nessun segreto. L’intero ambiente era un grande vicinato, un’immensa famiglia nella quale tutti noi sapevamo tutto di tutti. Ci sentivamo figli di tutti e se uscivamo per strada e non trovavamo amici con cui giocare entravamo nelle case per trovarli e così conoscevamo anche il lettone alto e bianco dove dormiva Donato Greco.

Di Donato sapevamo che era stato un bravo cacciatore e che nella stagione della caccia ci furono ricchi signori che arrivarono da Genova e da Bologna per andare a caccia con lui. Si diceva che qualche signore venne a trovarlo persino da Londra. Nella sua casa si diceva che per qualche confuso motivo vi fosse stata nascosta la statua della Madonna Immacolata prima di essere trasferita in chiesa. Di Donato conoscevamo pure i figli ed i nipoti e tante cose le sapevamo anche perché tra noi bambini circolavano Donatuccio e sua sorella Assuntina che erano appunto suoi nipoti.

Donatuccio diceva che suo nonno leggeva romanzi ma la cosa ci suonava strana; non s’era mai visto ed avevamo persino dubbi che in quella via potessero esistere vecchi capaci di leggere.

Ne sapevamo poco su Donato Greco? Col senno di poi si direbbe di no ma all’epoca era così: nel nostro sogno ne sapevamo poco. Di Donato Greco conoscevamo persino il letto nel quale dormiva e il tavolo dove mangiava ma di lui ne sapevamo poco perché lui ci affascinava, ci interessava e ci incuriosiva, quello che su di lui sapevamo non ci saziava mai e ci sembrava quindi che su di lui aleggiasse un’aura di mistero e di magia. E come per magia, in una tranquilla serata di luglio accadde una cosa che non capitava spesso: Donato Greco si materializzò sui gradini di casa in via Supersano.

Gli altri adulti si stavano godendo la frescura della sera chiacchierando sugli usci di casa e intanto controllavano noi bambini che giocavamo per strada.

Tendenzialmente tra di noi c’erano i gruppetti dei maschi che giocavano a nascondino e quelli delle femmine che giocavano a campana ma diversi elementi cambiavano gruppo dopo ogni battibecco, le baruffe erano continue e volavano i richiami, i rimproveri e le minacce degli adulti.

Ehi! La volete smettere di nascondervi sotto i talaretti del tabacco? Lo sbriciolate tutto!”

Salvatore, vedi di smetterla! Vieni qua, siediti e statti fermo sennò ce ne torniamo a casa!”

Mario, chi ti ha creato!? Alzati da terra e vieni qua a recitare il rosario!”

Rosalba! Guarda come ti sei conciata! Vai subito a prendere lo spirito e vieni qua che ti disinfetto quelle ginocchia”

Donatuccio! Guarda che se vengo lì ti acchiappo per i capelli!”

Aurora! Assuntina! Smettetela!”

Uccio! Domani niente mare, così impari!”

La baldoria cresceva dopo cena, durava un paio d’ore e poi scemava pian piano nel giro di un’altra ora prima di andare a dormire.

Quella sera Donato Greco apparve però sul portoncino di casa, i gruppi di gioco si scombinarono nel giro di cinque minuti, sulla via calò la calma e noi bambini cominciammo a gironzolargli intorno.

«Sedetevi», fu la prima parola di Donato quella sera.

Una quindicina di bambini e ragazzini dai quattro ai nove anni si sedettero sui tre gradini dell’uscio sistemandosi accanto e ai piedi di Donato e quelli che non ci entrarono si sedettero in semicerchio sull’ampio marciapiede di fronte ai gradini.

«Cosa volete da me?» Chiese Donato col suo vocione.

Nessuno rispose.

«Allora? Cosa volete da me?»

Michelino inclinò la testa a sinistra e chiese: «ma è vero che conosci delle fiabe?»

«Ma chi!? Io fiabe? Per mille sanguisughe! Ma siamo matti? Nossignore! Non sia mai, non sia!» Sbottò Donato cupo, accigliato e burbero «Non scherziamo! Io non conosco fiabe! Io conosco storie di draghi, di streghe e di maghi! Di guerrieri, di fattucchiere, di fantasmi, di diavoli, folletti, caremme e macare! No, non scherziamo! Io non conosco fiabe! Le fiabe sono per i bambini e io mai e poi mai conobbi fiabe! Io conosco storie serie per i grandi e coraggiosi che non hanno paura! Non scherziamo davvero, non scherziamo!» Tuonò Donato ciondolando la testa.

I bambini e le bambine si addossarono un po’ gli uni agli altri. Assuntina era abbarbicata alla gamba sinistra del nonno, Rosalba sedeva accanto ad Assuntina ed Aurora accanto a Rosalba. Assuntina, Aurora e Rosalba erano le tre coetanee del nugolo.

«Io sono mooolto serio, sapete? E tutt’al più posso raccontarvi una storia di macare. Altro non posso fare. Ce l’ho qui, proprio qui, sulla punta della lingua. Eh! Ma se voi avete paura non se ne fa di niente, lasciamo stare e chi s’è visto, s’è visto. Voi avete paura?»

«Nooo!» Risposero in coro sette o otto bambini tra i più grandi.

«Bene! Siete grandi e coraggiosi e vi cunterò quindi un cunto di macare. Allora voi lì aggiustatevi meglio! Mettetevi più in qua e più comodi, stringetevi un po’» intimò risistemandosi il cappello.

Noi che eravamo seduti sul marciapiede ci addossammo ancora di più gli uni agli altri avvicinandoci di almeno un metro. Donato era in mezzo ai bambini di fronte a noi, assiso al centro del gradino più alto come un Re sul suo trono.

Finimmo di sistemarci e cominciammo a pendere dalle sue labbra.

Donato stava per aprire bocca quando Domenico, uno tra i più grandicelli, intervenne: «Io non ho paura, e però qui ci sono delle bambine piccoline che sicuramente hanno paura» disse con grande coraggio. «Voi non avete paura?» Chiese Domenico alle tre coetanee.

«Io non ho mai paura!» Rispose risentita Assuntina stringendosi alla gamba del nonno.

«Io… non lo so… forse poco poco» tentennò Aurora.

«Io sì ma… tanto stiamo qui tutti insieme» disse Rosalba gongolandosi con una breve risatina.

«Per mille polpette! Non ci avevo pensato!» Disse perplesso Donato «E chi se lo sarebbe mai aspettato? Ma allora come facciamo?»

Nessuno rispose.

«Bene, allora lasciamo stare le macare e vi cunto invece un cunto meno spaventoso di serpenti e serpentesse. Oh, ce l’ho qui, proprio qui, sulla punta della lingua. O avete paura pure di questo?»

«Nooo», rispose qualcuno.

«Bene! Allora vi cunto una bella storia di serpenti… ehm volevo dire un bel cunto di bei serpenti… ehm… per mille diavoli! Una storia di belle serpentesse …mille polpette… uh, mi sono imbrogliato!» disse Donato togliendosi il cappello e grattandosi il capo pensieroso.

Si sentirono un paio di risolini provenienti dai ragazzini seduti alla sua sinistra.

«Per mille diavoli! Chi osa ridere? Non c’è più rispetto a questo mondo?» chiese Donato guardando teso e torvo alla sua destra.

Si udirono diversi gemiti e risolini smorzati.

«Siiilenzio!» Tuonò sobbalzando, togliendosi il cappello e guardando con gli occhi sbarrati al di là del marciapiede.

Nei suoi occhi si riflesse la luce della luna e si udì un remoto latrato di cani.

«Oh! Beh, insomma! Vi racconterò la storia della Torre della Serpe che cento e cento anni fa accadde a Otranto, così quando da grandi la vedrete, saprete perché quella torre è lì, fuori dal paese, solitaria, isolata, sconsolata, diroccata e abbandonata da Dio sulla costa arida e deserta che, Madonna mia beddhra, intorno pare non gli ci voglia crescere manco una scrascia. Una storia vera,» disse riassestandosi per bene il cappello «oh, dunque, avevo nove o dieci anni quando fu che sentii proprio con queste mie orecchie il cunto della Torre della Serpe; per mille fulmini! Me la ricordo manco manco l’avessi sentita ieri e invece… eh, e invece sapete quando fu? Eh, signore e signori, per la precisione fu il trenta di giugno del 1886 a Calimera, già, proprio così! Ero ancora un ragazzo ma non me la posso scordare. Quella sera ci fu lì una festa e una beddhra ragazza cuntò questo cunto e tanti altri, eh, ma questo cunto, signore e signori, eh, questo cunto io me lo scrissi, già, proprio così, me lo scrissi sul mio quaderno dei cunti per non dimenticarlo. Qella carusa era ianca e russa cu li capiddhri rizzi e niuri, comu sia ca la visciu moi, comu sia ca la visciu. Ma era povererella, sapete? Uuuh, era beddhra, aveva dei vestiti con dei bei colori ma era proprio con le scarpe rotte, impolverata e strazzata ca parìa… ca parìa, sapete comu sia ca viditi quelle zingare che chiedono a limosina? Ecco, era proprio così. Io ora non so se era proprio una zingara ma era beddhra e ogni tanto mi rilessi questo suo cunto. Eh, perché quando poi me ne andai alla guerra mi portai dietro il quaderno dei cunti e ogni tanto me lo rileggevo. Poi… eh, poi mi presero prigioniero, sissignore, mi presero prigioniero e persi ogni cosa, persi. Eh, ma quel cunto qui mi rimase, proprio qui». Donato alzò la testa verso il cielo, si tolse il cappello, indicò con l’indice la sua testa, si riassettò i capelli e si rimise il cappello.

«Oh, dunque, cominciamo, siete pronti?»

«Siii!»

«E allora, in nomine Patris. Signore e signori, principi e principesse, cavalieri e fanti, cominciamo. C’era una fiata, cento e cento anni fa, Colangelino. Fu prima che arrivassero i turchi e quella fiata Colangelino passava strillando per le vie di Otranto: “Presto, sbrigatevi, uscite tutti, masculi e fimmine! La lanterna in cima alla torre s’è spenta di nuovo, che una grossa serpe ci salì, si succhiò e si bevve tutto l’olio! Presto, alzatevi, che non è tempo di dormire!”

Colino strillava tanto per le stradine di Otranto che le sue gridate si spandevano per piazze e cortili rimbalzando di casa in casa.

Vatti a coricare, scimunito! Vorresti forse che ti credessimo? Facesti tu spegnere la lanterna e ora stai cercando di scusarti, busciardu ca no sinti autru, vane e curcate ca è meju!”

Così rispondevano alcuni a Colangelino gridando dalle soglie di casa, dalle finestre e dai sottotetti con gli occhi chini di sonno.

Il sindaco, ca canuscìa invece Colino come ommo di senno, scese per strada, si fece cuntare l’accaduto, convocò i consiglieri e decise di tendere un’imboscata alla serpe ladrona.

La notte seguente un gran numero di giovani otrantini armati di picche, forconi e lunghi curteddhri si appostarono nei pressi della torre nuovamente illuminata, guidati dal vecchio Colino.

Fu poco prima dell’alba che il mare ribollì e lungo le pietre e li cuti della costa che portava alla torre si udì sibilare, ansimare e strisciare la serpe niura, traslucida, odorosa di mare profondo e di alghe putrescenti. E quannu u serpente ‘rrivau alla turre si avvinghiò avvolgendola tra le sue spire. Gli otrantini gli balzarono addosso come un sol uomo, gli mozzarono la coda e quando il mostro mollò la presa e rovinò a terra, Colino, ritrovato il vigore dei suoi anni migliori, ne ‘ncuddhrau nu corpu de ‘ncetta cu tutta la forza ca tinìa, gli tagliò la testa e trionfante la issò sopra una picca.

I giovani ‘ddumarono le fiaccole e urlando si diedero a scuoiare la preda, poi, battendo i tamburi e cantando, ridiscesero a Otranto, issarono la pelle della serpe sui bastioni che guardano il mare e lì la srotolarono e la lasciarono stesa e appesa come un trofeo.

Per giorni e notti si fece festa. Sulla spianata sotto a porta a mare suonarono violini e tamburelli e le fimmine ballarono una pizzica ‘ndiaulata. Il frastuono fu tanto forte che nessuno sentì correre potente sul mare il lamento della serpentessa dalle lunghe branchie frangiate. La serpentessa aveva aspettato a lungo che il suo maschio tornasse negli abissi dopo la caccia, poi emerse e lo cercò costa costa; quando però arrivò sotto le mura di Otranto, la luna nuova levava bagliori iridescenti dalla pelle della serpe appesa sulla gente festante. La serpentessa urlò alla luna, al vento e al mare, sì, urlò disperata ma nessuno udì la sua disperazione rompersi in un lamento acuto, sibilante e triste per giorni e notti…»

«Poverella» interruppe Aurora con la sua vocina.

«Siii, poverellaaa» sussurrarono quasi all’unisono Assuntina e Rosalba.

«La serpentessa… la serpentessa chiese il perché…» riprese Donato con le parole che però gli annegarono in gola.

Si fermò, provò a schiarirsi la voce, sospirò quasi ansimante e si riassestò il cappello.

«Siiilenzio! Altrimenti vi mando subito a nanna, colpo di mille sirene!» Tuonò girando il capo verso le bambine mentre i suoi occhi sbarrati luccicavano riflettendo la luce argentea della luna.

Il silenzio fu tale che si udì il frinire dei grilli.

«Oh, dunque,» riprese «la serpentessa… la serpentessa chiese il perché di quella morte a pesci, gabbiani e rondini che marcavano il mare ma nessuno le rispose. Solo una sarica ca se scarfava al sole su di uno scoglio in riva al mare rispose: “Siamo parenti e perciò ti dico che il tuo maschio fu ucciso perché rubò l’olio della lanterna. Gli otrantini gli tesero un’imboscata, gli mozzarono la testa e la coda e poi gli strapparono la pelle. Una morte bruttissima”. La serpentessa pianse disperata, poi inghiottì il dolore e decise di vendicarsi. Aspettò che la notte scendesse e strisciando, ansimando e soffiando cu le carze ‘nchiate, risalì gli scogli e i massi del tratto che dal mare portava alla torre, le girò intorno e l’avvolse stringendola tra le sue spire potenti, forte, sempre più forte, urlando e muggendo più alto del mare e del vento. Un sudore vischioso le scendeva lungo le squame iridescenti gocciolando dalle lunghe branchie frangiate, poi, con un ultimo possente grido, sotto le sue spire si udì potente lo schianto e menza turre se scarrau ‘n terra de susu a sutta. Strisciando, soffiando e sibilando la serpentessa, oramai sazia di vendetta, guadagnò le onde e si inabissò per sempre. E lì rimase quella torre, mezza in piedi e mezza crollata così come la potete vedere ancora oggi, signore e signori. E quistu è lu cuntu de a Turre de a Serpe».

Rimanemmo a bocca aperta, appesi alle labbra di Donato.

«Oh, Dormite? Vi è piaciuto questo cunto?» Chiese.

«Bello!» Risposero alcuni con gli occhi spalancati mentre altri erano acora a bocca aperta.

«Beh, va bene, mo tornate a casa che è ora di andare a dormire. Io mo pure vado a dormire. Andate che poi la prossima fiata vi racconterò un cunto di Fate e di cavalieri. Ora si va a nanna, su!»

Nessuno si mosse.

«Non è tanto tardi» affermò Damo.

«Ma se a serpentessa scarrau a turre e la turre scarrata staje ‘ncora a ‘ddhrai, comu ficera l’otrantini senza lantirna?» Chiese Domenico.

«Beh, rimassero senza lanterna ma fu una fortuna. Ora però è tardi, andate a nanna, vi racconterò quest’altra storia un’altra fiata».

«Nonno, raccontaci qualche cosa ora per favore» chiese Assuntina.

«Eh, dunque, a lantirna rimase stutata ma fose na furtuna, fu un vero miracolo per gli otrantini almeno per quella fiata, tanto che la torre avvolta nelle spire della serpe diventò poi il simbolo e lo stemma di Otranto; fu perché tempo dopo, non essendoci più la lanterna accesa, i turchi non videro Otranto dal mare e, per compiere le loro scorribande, proseguirono a navigare verso Brindisi. Ora però si va a dormire, buonanotte» disse Donato alzandosi in piedi.

Cosa ci rimane col tempo che passa ?

Ci rimane ciò che sconfigge il tempo, ci rimane ciò che conta, ci rimane la magia.

Questa è la suggestione che dopo sessant’anni Donato Greco ancora mi manda dal suo paradiso e lo ringrazio per tanto splendore.

Molti anni dopo ero a casa di Donatuccio in Sardegna; ero lì per fargli da testimone di nozze. Una sera notai sul tavolo del soggiorno un libro ingiallito con la copertina consunta e sbiadita. Si trattava di “A Christmas Carol” di Charles Dickens.

In bellissima calligrafia a inchiostro nero sulla prima pagina bianca c’era scritto:

Donatuccio, abbine cura. Dagli umiltà e ti restituirà saggezza e nobiltà. Con affetto, tuo nonno Donato”.

RP 23/05/2020 revisionato per WM il 16/10/2020.