Questa mattina, dopo aver fatto colazione insieme agli altri ospiti della casa di cura per anziani dove alloggio da qualche tempo, ho voglia di stare un po’ solo. Così mi dirigo verso il giardino e mi siedo su una panchina, all’ombra di un grande pino. Mi guardo intorno e ammiro le belle piante e i fiori che ci sono. E’ un bel posto, ma io non ci sto bene. Difatti non sopporto gli infermieri scorbutici e anche con gli altri ospiti non ho un buon rapporto. Così, per via di quello che sto passando qui dentro, mi viene spontaneo abbandonarmi al ricordo del mio passato che era di certo migliore.

Fino a qualche tempo fa abitavo le case popolari del quartiere della Garbatella. Stavo precisamente in via Roberto Nobili, al quarto piano del lotto 27. Avevo 70 anni e da cinque ero vedovo, perché mia moglie morì d’infarto. Avevo lavorato alle Poste e naturalmente ero in pensione. Avevo due figli sposati. Uno era Mario che faceva l’architetto e l’altro era Giuseppe che dirigeva una Galleria D’arte. Venivano a trovarmi di rado, così trascorrevo il tempo occupandomi di me. Curavo la mia casa che mi piaceva tenere in ordine, poi facevo la spesa perché mi piaceva mangiare bene. La sera andavo al centro anziani del mio quartiere dove giocavo a bocce e scambiavo qualche parola con qualche amico. Quando ero solo in casa mi veniva spontaneo spiare la vita dei miei vicini. Quasi tutti i giorni vedevo Ivana che portava a spasso i suoi due cani. Nel condominio tutti si lamentavano di lei, perché i cani non facevano altro che abbaiare. Vedevo spesso anche Gina che girava da un appartamento all’altro perché era pedicurista. Era una gran bella donna, con tutte le curve al punto giusto e da gran farfallone come ero ancora a quei tempi, non facevo altro che ammirarla. Poi c’era Roberto, un ragazzo poco più che quindicenne che si faceva le canne con gli amici nel cortile del nostro palazzo. Ma io mi facevo gli affari miei e non ne parlai mai ai suoi genitori, una coppia che lavorava alla Asl della nostra zona e che abitavano al primo piano. L’unico amico del palazzo era Alvaro. Aveva quasi ottanta anni, ci vedeva poco, tanto che camminava con un bastone. Ma era molto buono. Veniva a trovarmi tutte le sere. Insieme ci facevamo qualche bicchiere di vino e parlavamo della nostra giovinezza. I suoi genitori lavoravano ai mercati generali della Garbatella e lui aveva fatto lo spazzino. Quando ci vedeva gli piacevano tanto le donne, così ogni sera mi raccontava le sue avventure. Anche io gli raccontavo le mie storie con le donne perché anche se ero stato sposato avevo tradito spesso mia moglie. Così in quelle sere ci facevamo grasse risate. Un giorno accadde una novità nel condominio. Al nostro lotto, proprio sul mio stesso pianerottolo, venne ad abitare una giovane. Era molto bella. Aveva lunghi capelli biondi, gli occhi verdi e un fisico asciutto. Non facevo altro che guardarla, avrei voluto avvicinarla ma lei oltre a un freddo saluto non andava. Presto non mancò l’occasione per fare la nostra reciproca conoscenza. Una mattina questa signora era carica di buste di spesa. A un certo punto inciampò e cadde tutta la frutta e lo scatolame per le scale. Io la aiutai a raccogliere tutta la roba da mangiare che sistemai nelle buste.

“Si è fatta male?”.

“Mi fa un po’ male la caviglia” rispose “Ma non so come ringraziarla”.

“Venga a prendere un caffè da me”, le dissi.

Accettò e ci accomodammo nella mia piccola cucina.

Mentre preparavo la macchinette del caffè, le domandai: “Come si chiama?

“Silvana, e lei?”

“Spartaco” e aggiunsi, “E’ di Roma?”

“Sì, sono di Roma. Fino a qualche tempo fa abitavo a Trastevere. Poi quando mi sono separata e ho divorziato sono venuta qui anche perché da tempo avevo fatto al Comune la domanda per avere una casa popolare”.

“Mi dispiace molto per quello che le è capitato con suo marito”.

“Non si dispiaccia. Era un mostro. Beveva e mi picchiava. Una volta avevo un’ematoma all’occhio, un’altra il braccio rotto e un’altra ancora lo zigomo dolorante. Non ne ho potuto più e sono andata via di casa”.

“E lo credo! Perché non l’ha denunciato?”.

“Perché avevo paura di lui”.

“Non è che viene a cercarla?”.

“Non credo. Per altri guai con la giustizia è in galera e ne avrà per molto tempo”.

“Ma lei lavora?” incalzo.

“Sì, lavoro in un supermercato  di questa zona. Per questo ho deciso di vivere qui. Ma adesso la lascio perché devo sistemare tutta la mia spesa”.

“Quando vuole passi a trovarmi. Io sono solo e mi farebbe piacere la sua compagnia”.

“Ne terrò conto”.

 

Dopo qualche sera passò a trovarmi e presto divenne un ospite fisso della mia casa. La conobbe anche Alvaro e tutti e tre ci facevamo compagnia nelle fredde sere dell’inverno. Presto nei suoi confronti iniziai a provare un sentimento d’amore e una sera con le lacrime agli occhi mi dichiarai, ma lei mi disse che non voleva storie con altri uomini e che mi vedeva come il padre che non aveva mai avuto. Rimasi molto male per il suo rifiuto. Quando ero solo piangevo come un vitello però continuammo a vederci fin quando ai miei figli questa assidua frequentazione con Silvana diede fastidio perché la ritenevano molto morbosa.

Così quando ebbi l’infarto e durante la convalescenza mostrai che non ce la facevo a fare le mie cose da solo, pensarono bene di rinchiudermi in questa casa di cura, anche per impedire la mia assidua frequentazione con questa donna..

“Spartaco, che ci fai tutto solo?” urla un infermiere che mi riporta alla realtà, “Qui c’è una signora che chiede di te”.

Mi avvicino all’ingresso e davanti ai miei occhi si materializza la figura di Silvana. Mi tremano le gambe, mi fa male lo stomaco e sudo freddo.

Lei sorridendo mi dice: “Hai visto? Sono venuta. Te l’ho sempre detto che per me tu sei come un buon padre che non ho avuto”.

“Vieni” le dico.

Lei mi segue, e ci accomodiamo nel salottino riservato alle visite dei parenti.

“Ho tante cose da dirti anche se sono rinchiuso in questo lager”, dico.

“Anche io ti voglio dire una cosa molto importante. I tuoi figli vedendoti soffrire qui dentro hanno deciso di dimetterti e hanno parlato con me. Hanno cambiato idea sul mio conto e hanno ammesso che in mia compagnia stavi meglio. Sarò io a prendermi cura di te. Sei contento?”.

“E me lo domandi?”.

E così dicendo l’abbraccio e piango di gioia.