Friedrich rigirava tra le mani una mela, rossa, lucida, perfetta.
«Pensare che la leggenda vuole che grazie a un pomo come questo Isaac Newton abbia avuto l’intuizione della legge di gravità!» esclamò.
Posò il frutto sul tavolo. La stanza era quieta, avvolta nella penombra, tiepida. La sedia su cui era cigolava lievemente ad ogni suo spostamento.
«In realtà ben altre implicazioni si possono trarre da te» disse ad alta voce, «chissà per quale misterioso motivo tu sei l’emblema della conoscenza.»
Prese ancora la mela in mano. «E chissà per quale altra mostruosa intuizione fosti proprio tu ad essere il frutto avvelenato delle fiabe. O forse non fu una semplice intuizione?»

Un intenso odore di cavoli si diffondeva dalla cucina, Gertrud, la governante, fece capolino.
«Il pranzo è pronto, Herr Professor, io vado.»

Nietzsche fece un cenno alla donna, che prese la borsa ed uscì nella luce intensa del primo pomeriggio. Pochi minuti dopo si aprì la porta della camera da letto e ne venne fuori un ragazza che indossava una lunga camicia da notte bianca, con gli orli ricamati.
«É andata?» chiese.
«Sì, è andata.»
Lou von Salomè girò intorno al tavolo, scalza, leggera come una nuvola. I suoi capelli sembravano piume nel vento, il suo riso campanelle d’argento. Ma i suoi occhi bruciavano l’anima come braci d’inferno.

«Vedi, Lou» disse il filosofo, mostrandole la mela, «questo frutto è il simbolo della conoscenza, un archetipo che era già manifesto nella Genesi. Adamo commise il peccato che condannò l’umanità perché volle accedere alla conoscenza, non perché disobbedì a Dio. É la conoscenza, la consapevolezza, a fare l’uomo mortale: gli animali sono immortali perché non conoscono la morte.»
La ragazza lo guardò attenta: era di questo che si era innamorata, non già dell’uomo insignificante che aveva davanti ma del suo intelletto prodigioso, capace di portarla in un attimo sulla più alte vette, la sensazione per lei più eccitante.

«Ma adesso cosa dovremmo fare, Lou, adesso che il frutto maledetto ha avvelenato il nostro sangue e la nostra anima, adesso che sappiamo di essere sospesi sopra l’abisso aggrappandoci a speranze da fanciulli, e nello stesso tempo non sappiamo né possiamo rinunciarvi, cosa possiamo fare, adesso?»
La donna gli si avvicinò, guardandolo fisso in volto, gli prese il frutto dalla mano e lo morsicò, poi glielo restituì. Nietzsche guardò la mela, poi lei negli occhi, e rise.
«Hai ragione, mia cara, adesso non ci resta che mangiarla fino in fondo, affrontare il nostro destino di uomini e sperare che la fine giunga rapidamente, o di sprofondare nell’inconsapevolezza, nella pazzia.»

Nietzsche restò un attimo in silenzio, considerando quello che aveva appena detto. Lei gli si avvicinò e si sedette sulle sue ginocchia, scostandogli il ciuffo di capelli dalla fronte.
«Vedi la differenza tra uomini e donne? » le disse lui, «Noi ragioniamo usando la logica, sgombrando pazientemente la strada dai mille ostacoli che ci separano dalla meta, il punto d’arrivo del nostro pensiero, voi ci arrivate dritte come una freccia scoccata dall’arco, che in un solo istante si conficca profondamente nel bersaglio. E a noi resta soltanto il rumore della corda che ancora vibra.»

Poi prese le mani della ragazza e se le portò alle labbra.
«Vero è che pochissime ci riescono, ed è questo che amo in te, piccola Lou: tu sei la sintesi perfetta, l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine di tutto. Tu sei al di là del bene e del male, il complemento assoluto per la mia disperazione, l’abisso nel quale precipiterei se ne avessi il coraggio, nel quale morirò quando la tua giovinezza ti porterà lontano.»

Gli occhi dell’uomo si riempirono di lacrime. Lou von Salomè lo attirò dolcemente a piangere sulla spalla nuda, mentre i suoi occhi guardavano lontano, alla sua Russia, al secolo morente e alla psicoanalisi che stava nascendo, alla poesia, mentre carezzava la testa di quell’uomo, quasi incredula di avere tra le sue mani la gigantesca mente il cui pensiero aveva raggiunto il vertice di ogni umana speculazione.