Per il commissario Federici era un’indagine di routine. Non aveva la priorità sui casi più importanti che stava seguendo ma lui era fatto così: non amava lasciare nulla in sospeso o al caso.
La donna trovata annegata qualche settimana prima tra gli arbusti che costeggiavano la riva del fiume non aveva creato molto scalpore.
I quotidiani avevano pubblicato la notizia ma, con il passare dei giorni, non ne avevano più fatto cenno.
«Forse perché era una delle tante donne giovani e bellocce che lavorano per sbarcare il lunario in un dubbio locale notturno» pensò mentre cercava un parcheggio dietro ad un edificio abbandonato nel pressi del Lady Moon.
Considerò che il fatto che fosse morta una delle tante spogliarelliste di quel locale era stato dato quasi come una conseguenza scontata, legata a un lavoro a contatto con persone di ogni tipo, spesso balordi e ubriachi violenti.
Il locale non risultava avere attività losche che potessero far pensare a qualche giro legato alla prostituzione o di donne immigrate irregolarmente o che si facesse uso di stupefacenti.
Aveva controllato accuratamente e incaricato Girolami, il suo braccio destro di fare le dovute verifiche. Tutte gli indizi e le prove scientifiche portavano a un suicidio.
Tutti erano stati interrogati accuratamente, avevano seguito alcune piste che non avevano portato a nulla.
Quella sera, lui era lì soltanto per un ultimo controllo, poi avrebbe chiuso il caso e lo avrebbe archiviato, appunto, come tale, un suicidio.
Però, ecco, c’era un “però” che gli ronzava nella testa.
Non sapeva dove collocare il marito nel contesto di quella tragedia.
Il suo intuito gli suggeriva che in qualche modo dovesse avere un ruolo chiave ma non riusciva a capire quale.
L’aveva interrogato, sembrava disperato, attonito, incredulo e molto innamorato.
«Voglio solo capire il perché di questo insano gesto, che cosa l’ha spinta a farlo» continuò a pensare caparbio, mentre attraversava la strada e mostrava la tessera al buttafuori di turno all’ingresso del Night Club.

La coppia non aveva figli, nessun parente prossimo in città e pochi amici dai quali aveva saputo poco o niente.
Qualche notizia in più era arrivata dalle colleghe della vittima che la descrivevano come una ragazza normale ma, la sua migliore amica accennò ad un marito alquanto geloso.
«Non so perché abbia continuato a lavorare qui. Noi ragazze non aspettiamo altro che arrivi l’occasione di incontrare qualcuno che ci porti via da questo posto, speriamo di poterci fare una famiglia e di avere figli come tutte le persone normali» disse.
«Secondo te, perché ha continuato a lavorare dopo il matrimonio?» aveva insistito il commissario.
La ragazza, una certa Louise (nome d’arte), Luisa Corbelli all’anagrafe, aveva fatto spallucce:
«Forse perché aveva subito due aborti e avevano escluso che potesse avere figli».
«Ma non sono sicura, negli ultimi tempi era poco loquace e poi alla fine del lavoro c’era sempre lui che la aspettava» proseguì.
«E i rapporti con il marito?».
«Una volta era ubriaco e la insultò davanti a tutti, per il resto, non so nulla. Sembravano innamorati», concluse Louise mentre gli faceva cenno che doveva andare.

Era la terza sera consecutiva che Federici entrava in quel locale che era già pieno di gente che beveva e rideva rumorosamente in attesa dell’inizio dello spettacolo.
Le luci psichedeliche rendevano l’atmosfera irreale.
Si avvicinò al banco, si mise accanto al marito della donna che stava bevendo ed era già ubriaco.
Lo dedusse dallo sguardo offuscato che gli rivolse:
«Commissario, sta diventando un cliente fisso o sbaglio?» gli biascicò con la voce impastata.
«Buona sera, vado matto per i drink del barista» rispose Federici fissandolo.
L’uomo si fece teso, il commissario lo notò dalla forza con cui stringeva il bicchiere.
«Perché non mi lasci in pace», sbottò all’improvviso l’uomo con uno sguardo torvo e proseguì rude:
«Vattene, lasciami in pace brutto sbirro della malora».
Il barista si avvicinò con un bicchiere d’acqua:
«Gino, basta, vattene a casa, è meglio».
Mentre il poliziotto faceva finta di ignorarlo, l’uomo incominciò all’improvviso a singhiozzare, il commissario fece un cenno al direttore del locale che fece loro strada tra i clienti e li accompagnò in una saletta adiacente.
Federici fece accomodare l’uomo su una sedia, sembrava distrutto e lo lasciò piangere per un po’
Si vedeva che era pieno di angoscia.
«È colpa mia, è tutta colpa mia se è morta» continuava a ripetere scuotendo il capo.
Federici lo guardò interdetto ritornando con la mente a ogni particolare dell’indagine.
«Che cosa ci siamo persi io e Gerolamo?» pensò grattandosi la nuca.
Poi gli fece portare un caffè, rimase in silenzio per alcuni minuti e lo incoraggiò:
«Parla, vuota il sacco, se hai fatto qualcosa di male, lavati la coscienza, poi ti sentirai meglio» disse con un sospiro sedendosi paziente di fronte a lui.

L’uomo rimase in silenzio per un po’, piegato in avanti con la testa tra le mani mentre si calmava e il suo respiro diventava meno affannoso.
Guardò a lungo Federici.
Poi, tutto di un fiato sbottò:
«Sì, lo ammetto, sono colpevole di averla fatta soffrire, per come la trattavo anche quando non aveva fatto niente di male. Sono colpevole del suo gesto come se l’avessi spinta io con la forza. Sono uno sporco maschilista, ecco che cosa sono!»
Allungò i polsi verso il commissario:
«Ecco, mi arresti pure, oramai la mia vita non ha più senso».
Il commissario comprese, provò pena per quel disgraziato, gli diede una leggera pacca su una spalla:
«Vai a casa, non bere più, fallo per rispetto alla sua memoria».
«Vieni, ti chiamo un taxi».

Il poliziotto uscì dal locale che albeggiava appena, l’aria era mite, la strada era deserta; si incamminò lentamente verso la sua auto con la giacca appoggiata su una spalla.
Adesso i conti tornavano.
Decise che sarebbe andato direttamente in ufficio e avrebbe chiuso il caso come suicidio, non aveva più dubbi.
Per un momento aveva pensato di aver perso il suo insito fiuto da poliziotto.

Era ancora presto, ne era consapevole ma non potette resistere:
«Pronto Laura, ti ho svegliata?»
«Umm, sì» rispose una voce assonnata.
«È successo qualcosa? Stai Bene?»
«Sì, tranquilla, volevo soltanto sentire la tua voce».
Gli rispose un grugnito.
«Sono in ufficio, ora esco, ho bisogno di dormire. Che dici, questa sera andiamo a cena nel tuo locale preferito?»
«Che cosa dobbiamo festeggiare? Mi sono persa qualcosa?» rispose Laura.
«No, voglio solo ringraziarti per esserci».
Chiuse il fascicolo dell’indagine e si avviò all’uscita con passo deciso e una punta di tristezza nel cuore.