In immobile contemplazione a margine della deriva,
nel compimento di tutto, verso la fine di niente.
Un soffio intorno, a cui il tempo da rumore
oltre le difese della caverna in un rimbalzo senza controllo.
Perso a cercare di più, nel rifiuto di accettare,
che ogni cosa è distanza negata al contatto.
La Fuga finisce nelle troppe vie,
fino a tornare a casa tra le tue dita.
Il Cuscino non riusciva più a contenere la pressione dei suoi pensieri, il materasso sembrava diventato il letto di un torrente in cui buttarsi per un pericoloso rafting, il soffitto si allontanava e si avvicinava, cangiando colore dal viola di Paoli al rosso di Shining, l’ipod la rintronava di una musica ormai indefinita, come se Bob Marley fosse resuscitato e si fosse dato alla techno.
La scena era di un impressionismo tale che Monet avrebbe voluto essere lì per regalarci il suo punto di vista, ma in quella stanza c’era solo lei e quel piccolo pacchetto, che la fissava adagiato sul comodino.
Ad un certo punto a risvegliarla da quel sonno della ragione un trillo del cellulare. Un movimento meccanico e … ”Dove sei finita? Mi manchi…quando torni?”. Come un’insegna al neon di un camioncino che reclamizza il suo panino alla porchetta, davanti all’antico convento francescano, dove ogni cella era stato il rifugio di ascetiche meditazioni.
Quella profanazione del tempio, in cui si era rifugiata da quando quel pacchetto aveva bussato alla sua porta, la spinse a trovare fuori da quella stanza quel coraggio che invano cercava da una notte intera.
Al pari del chirurgo che limita al massimo il proprio gesto per non essere troppo invasivo, prese una felpa che indossò febbrilmente, calzò un paio di scarpe che giacevano ai piedi del letto e poi diede un’occhiata disperata al disco volante che roteava vicino all’abajour.
Un pensiero la sfiorò: “Lo lascio qui, così magari al mio ritorno sarà sparito”, un pensiero infantile che voleva credere che gli alieni sarebbero entrati in quella stanza durante la sua assenza, per fare ritorno a casa con la loro navicella spaziale.
Gli ufo non esistevano e non c’era nessuna astronave in quella stanza, solo un anonimo pacchetto che la sua pur fervida immaginazione non poteva cancellare; ed allora colse quell’oggetto, non identificato per un attimo dalla sua paura, e fu fuori da quell’accogliente rifugio.
Quanto avrebbe voluto vedere in quel momento il braccio alzato di una qualche cortese guida turistica, una delle tante che aveva visto al suo arrivo, ad indicargli la direzione da prendere. Si sentì come un pastore pugliese, trapiantato in una notte d’estate nel cuore della Barbagia, che scruta affannoso alla ricerca di un luogo sicuro dove condurre il suo gregge.
Dopo aver vissuto un’intera notte in una sorta di sospensione temporale, sentì il bisogno di bruciare le tappe della sua via crucis e si mise a correre leggera, senza il peso della paura, finché un faro le si stagliò davanti in tutta la sua imponenza, pronto ad abbracciare la sua anima inquieta.
Circumnavigò quel faro per un numero imprecisato di volte con gli occhi sempre rivolti verso la luce, in una sorta di vigile ipnosi, figlia dell’angoscia.
Si sedette a squadra, il sedere piantato come un solido pioppo su una pietra secolare; la schiena spinta contro la parete e le gambe distese a cercare un po’ di sollievo dopo la corsa, in una posizione che per lei aveva sempre rappresentato il gioco e l’allegria.
La luce del faro la sovrastava, illuminando di tanto in tanto il prezioso tesoro che aveva sempre tenuto stretto nel palmo della mano destra.
In un attimo le sue dita furono sul coperchio della scrigno, riuscendo in una battuta ripetuta a suonare all’unisono le quattro stagioni di Vivaldi.
All’improvviso uno schizzo d’acqua raggiunse le sue caviglie, il sussulto fu tale che il pacchetto le sfuggì dalle mani, cadendo alla sua destra.
La scatola giaceva ormai per terra priva del suo coperchio; il mare era riuscito in quello che non avevano saputo fare le sue dita, ma adesso chi le avrebbe dato il coraggio di entrare nell’antro della Sibilla.
Ancora una volta fu il destino a decidere, perché, nel cadere, dal pacchetto era fuoriuscito un piccolo biglietto di auguri che si era posato spinto dal vento sul suo petto accogliente. A quel punto anche il più fifone dei ragazzi della via Pal, non avrebbe potuto resistere alla tentazione di osservare l’immagine che era raffigurata su quel biglietto.
La luce del faro non era continua, ma l’incessante avanzare del giorno rendeva ben visibile il ritratto di un clown con le lacrime agli occhi ed il sorriso spalancato, che sospirava nella sua nuvoletta: “È qui la festa”.
“Me l’hai fatta anche stavolta”, fu il grido di Giulia, mentre si chiedeva: “Ma come siamo arrivati a quel maledetto giorno di pioggia?”.
Ci si sfiora in un incontro, al momento inaspettato,
ci si lascia in uno scontro con insistenza cercato.
La pioggia comunque a paesaggio di una scena,
dove la sfida è lanciata senza raccogliere il guanto.
Un brivido arriva dove non lo cerchi,
e la febbre non passa presa l’aspirina.
Il nastro riavvolge un pensiero passato,
nell’incerto presente di quel passo lontano.