Tina non s’era voltata a guardare indietro, ciò che lasciava lo portava nel cuore e quell’ultimo sguardo, che pure non l’avrebbe indotta a restare, le avrebbe però reso più difficile il distacco.
Teresa l’aveva aiutata nei preparativi del viaggio, era bastata la bugia che sarebbe andata a cercare Micky per indurla a non fare domande. Contravvenendo al suo carattere di solito taciturno, Teresa non la smetteva di dispensare consigli e raccomandazioni, con un tono, però, che si percepiva affannato, come se temesse una qualche dimenticanza in quella sua lunga elencazione. Tutte quell’affastellamento di parole era per riempire il silenzio che l’assenza di Micky rendeva tangibile ed intollerabile, così lo andava colmando col dettagliato elenco delle cose che lo riguardavano e lo evocavano vivo.
Maria, invece, era rimasta tutto il tempo in silenzio a guardare la madre e la sorella intente in quei preparativi condivisi, e mai le erano sembrate così vicine. Tina, docile e paziente, assecondava Teresa che, di norma schiva nell’esternare i propri sentimenti, palesava in modo commovente la sua gratitudine verso quella figlia che s’accingeva alla ricerca del fratello.
Ci si ritrova nell’istante in cui ci si allontana, rifletteva Maria, ricordando con amarezza le tante occasioni sprecate. E Micky forse sarebbe stato ancora vivo. Un pensiero conclusivo che trasformava un’ipotesi in certezza, da cui, però, s’era immediatamente distolta per non colpevolizzare la madre e la sorella.
Non dimenticare la tua promessa, aveva sussurrato all’orecchio di Tina nel salutarla.
Nessuna lacrima in quel commiato. Se doveva essere forte avrebbe iniziato ad esserlo da subito.
Tina non aveva salutato nessuno perché a nessuno aveva detto di quella sua partenza. La distanza a cui lei mirava allontanandosi da Chicago non era quella dei chilometri ma della memoria. D’istinto avrebbe fatto terra bruciata dietro di sé, ma aveva promesso a Maria di tornare e avrebbe mantenuto la parola.
Ma ora, nel presente, avrebbe dovuto badare solo a se stessa, senz’ altro pensiero che quello della sua sopravvivenza, e questo la rendeva libera: per la prima volta in vita sua non avrebbe dovuto dar di conto a nessun’altro delle sue azioni e dei suoi pensieri. Micky era morto e niente più sarebbe stato come prima.
Un viaggio che l’aveva portata, tramite un itinerario assolutamente casuale, nelle più disparate regioni degli States. In nessun posto però aveva mai soggiornato così a lungo da creare una dipendenza. In nessun luogo aveva messo radici. Si spostava per lo più in treno, scendeva in una città qualsiasi dove cercava un alloggio e la possibilità di un lavoro, per lo più tavole calde o bar. E fino a quel momento era filato tutto liscio. Ad ogni buon conto aveva sempre con sé, come arma di estrema difesa, una pistola.
Ma di quella se ne era servita solo un paio di volte per dissuadere innamorati troppo ostinati, e un’altra per farsi pagare il dovuto: una pistola ha la capacità istantanea di raffreddare gli spiriti più bollenti come quella di far valere i propri diritti.
Ma c’era stata poi una quarta volta, quando scesa dal treno in una stazione di provincia, aveva imboccato, per errore, una stradicciola periferica pressoché deserta, tranne per la presenza di un pick up parcheggiato ai bordi di un boschetto da dove giungevano le voci concitate di una donna e di due uomini. Con circospezione s’era avvicinata e aveva visto una giovane battersi come una leonessa, incurante della disparità fisica fra lei e i suoi aggressori, un gigante nero che giaceva a terra in una pozza di sangue e che quelli minacciavano di finire se lei non avesse esaudito le loro voglie. La ragazza aveva fatto scudo col proprio corpo all’uomo steso in terra, ma quelli, ferocemente burlandosi di lei, l’avevano immobilizzata e iniziato a strapparle gli abiti di dosso.
«I tuoi gemiti di piacere faranno godere anche lui. Morirà contento» aveva detto ridendo il più vecchio mentre s’apprestava a calarsi i pantaloni, prima che lo sparo lo accasciasse al suolo, mentre il compare, colto di sorpresa, era scattato in piedi senza avere avuto il tempo di capire, che s’era trovato anche lui a terra, colpito ad una coscia. Solo allora Tina era uscita allo scoperto e con la pistola bene in vista aveva detto: non ride più nessuno a quanto pare. Lo spettacolo è finito e ne inizia uno nuovo.
Nelle mani del più giovane s’era materializzato un coltello, ma lei, puntandogli la pistola in faccia, glielo aveva facilmente strappato via.
«Questa è molto più veloce» aveva ribadito ironica.
«Cosa vuoi fare?» aveva chiesto allora quello, allarmato.
«Giustizia». Era stata la risposta laconica di Tina.
«Giustizia? Giustizia per una puttana cinese ed uno sporco negro? Rischieresti l’impiccagione per loro?» aveva ribattuto lui, in tono di scherno e con una smorfia di disgusto.
«Io non rischio nulla, siete voi, piuttosto, a rischiare di morire dissanguati. Finirete all’inferno e per mano di una donna».
Pronunciata la sua profezia s’era voltata e sul pick up s’era materializzata la figura, tragica e deforme, di Ruth Evangeline Tyson “the devil wife”.
All’interno del furgone, Lin, questo il nome della giovane asiatica, aveva prestato le prime cure all’uomo ferito, disinfettando la ferita al petto e tamponandola con garze asettiche tirate fuori da una valigetta medica. Si muoveva agile e pratica, eseguendo le sue operazioni con gesti delicati e voce rassicurante.
«La ferita di Isaac, per fortuna, non è troppo profonda e così posso occuparmene io. Da qui dobbiamo andarcene. Sai guidare?» aveva chiesto Lin, e al diniego di Tina le aveva sorriso comprensiva «Guiderò io, ma tu dovrai occuparti di Ruth, controllare che non vada in crisi respiratoria, nel qual caso dovrai aiutarla con l’ossigeno. Ti mostro come si fa».
Erano salite sul retro del furgone, dove al riparo di una tettoia ingegnosamente progettata allo scopo, c’era Ruth, sulla sua carrozzina, nella stessa posa in ci l’aveva vista durante la sua esibizione, col viso leggermente reclinato sulla spalla sinistra, ma stavolta en plein aire, senza i capelli ad ombreggiarle il volto, ma raccolti in un turbante. Sotto la fronte bassa gli occhi rilucevano liquidi e notturni, mentre gli zigomi alti le conferivano un’aria esotica, meticcia. Avrebbe potuto essere bella se la malattia non l’avesse segnata con le occhiaie bluastre degli annegati, sintomo delle frequenti asfissie.
Quanto Tina era comparsa, sulle sue labbra scure, s’era disegnata l’ombra di un sorriso.
S’erano guardate e non avevano avuto bisogno di dirsi altro.
Tina era rimasta con loro per circa un anno, e in quel tempo Isaac le aveva insegnato a guidare il pick up e ad accordare le chitarre, Lin, invece, l’aveva introdotta ai segreti della medicina tradizionale cinese. Lei aveva contraccambiato insegnando ad entrambi i fondamentali della boxe. Lin all’inizio si scherniva, ma aveva talento. Il fatto che fosse minuta traeva in inganno, e questo costituiva per lei un vantaggio.
S’erano esibite in pubblico la prima volta che Ruth era stata troppo male per cantare, e senza dare l’avviso al gestore del locale del cambiamento di programma, avevano allestito un ring di fortuna dove avevano messo in scena un vero incontro di boxe con Isaac a fare da giudice. Era stato un tripudio. All’inizio, il gigante nero, aveva faticato un bel po’ a calmare l’entusiasmo del pubblico chiamato ad assistere a quell’incontro inusuale di boxe, con Tina e Lin vestite con un corto gonnellino e una canottiera a coprire i seni protetti da fasce.
Il pubblico che gremiva il locale era in visibilio, ma non tutti erano riusciti ad entrare, cosicché lo spettacolo venne replicato per più sere consecutive, dando modo a Ruth di recuperare la voce e le forze, che sempre più spesso venivano a mancarle. Seppure lei non si lamentava di niente si vedeva che stava sempre più male, e così tutti e tre s’alternavano nelle veglie notturne.
Una sera che era di turno Tina, Ruth le aveva fatto cenno di avvicinarsi.
«Ho sognato che Ike Zimmerman bussava alla mia porta e mi diceva di stare pronta che era ora di andare. Io gli credo anche se era ubriaco, perché il diavolo anche quando è ubriaco dice sempre la verità. E la sua verità è il blues. L’ho professata a lungo, e con convinzione, questa sua dottrina per poterla in ultimo sconfessare, e così quando Ike tornerà mi troverà pronta. Seguirò il mio diavolo fino a quel bivio dove tutto comincia e dove tutto finisce, perché non si esce vivi da questo blues».
“Never get out of this blues alive” (Non si esce vivi da questo blues) le ultime parole di Ruth Evangeline Tyson, Isaac le aveva fatte incidere sulla lapide a sua memoria nel piccolo cimitero di Winston-Salem nella contea di Forsyth nella Carolina del nord, dove era nata, e da dove era poi partita per quel suo viaggio alla ricerca del suo “Perfect Hell”.
Ruth, secondo le sue volontà, venne sepolta con la chitarra che Ike Zimmerman le aveva lasciato, e con il coltellino/ slide inserito nell’incavo della mano destra, e mantenuto segreto il luogo della sua tumulazione. Ma pure, dalle ombre del passato, quando la biografia de “la moglie del diavolo” era ormai ascritta nelle cronache dell’immaginifico, baroccamente romanzata e colma di dettagli luciferini che immiserivano, invece che esaltare, il genio della chitarrista storpia, attribuendo il merito del suo immenso talento a Satana piuttosto che alla sua indomita volontà di affermazione, s’era levata, dalla lontana Parigi, la voce di Blaise Picard, scrittore e giornalista, a ristabilire la verità su Ruth Evangeline Tyson, quella negra con la voce da negra, che aveva sfidato il mondo dal suo disagiato, impossibile avamposto, al confine tra la terra dei vivi e quella dei morti, e aveva vinto.
“Tutte le volte che Ruth si esibiva portava in superficie la miseria dell’animo umano per trasformarla in meraviglia. I bruti diventavano bambini davanti a quella donna capace di operare il miracolo di se stessa, e per un istante, dall’infimo gradino delle loro esistenze, potevano credere che quello stesso miracolo fosse alla loro portata.”
Così scriveva Blaise Picard in memoria de “la moglie del diavolo”: gli angeli passano senza lasciare traccia all’opposto di certi meravigliosi diavoli che delle loro tracce, invece, disseminano il mondo.
Sbagliato però, scriveva ancora Picard, nella sua appassionata affermazione del potere superiore della blues woman, ricordare Ruth come la moglie di Satana quando in realtà è stato Satana ad essere il suo fortunato marito.
Ma questo sarebbe accaduto anni dopo, nel presente c’erano Isaac e Lin, orfani di Ruth che pure trovavano conforto l’uno nell’altra, lasciandosi andare a quel loro sentimento così a lungo trattenuto, latente sotto la rigidità dei rispettivi ruoli di factotum e d’infermiera, e che il dolore, invece, aveva prepotentemente portato alla superficie come una coperta sotto cui trovare entrambi riparo e conforto.
I timidi baci di Isaac sugli occhi di Lin per asciugarle le lacrime e le carezze impacciate con cui lei grata contraccambiava, erano la premessa all’esplosione di quella passione così a lungo trattenuta.
Tina vedeva quell’amore sbocciato nel dolore diventare ogni giorno più forte e più solido. Isaac e Lin coltivavano il vuoto lasciato da Ruth con il loro amore. La sublimavano in esso. Ruth era parte preponderante di quell’amore, il terreno dove aveva radicato, sviluppato e poi infine sbocciato.
Nessuno, invece, aveva coltivato d’amore il vuoto lasciato da Micky. Era come se lui fosse rimasto tutto quel tempo, solo e disconosciuto, sul tavolo dell’obitorio.
Sua madre fingeva che fosse ancora vivo, supportata dalla menzogna che lei sarebbe andata a cercarlo per riportarlo a casa. Bugie, solo bugie, a mascherare i loro rispettivi egoismi. Immaginava Maria seduta nel cortile ad attendere il suo ritorno. Il suo, non quello di Micky. Maria era l’unica sana in quella loro famiglia di pazzi. Era l’unica che, nel suo cuore, aveva dato degna sepoltura a Micky, permettendogli di riposare in pace. L’unica che non s’era nascosta dietro a nessun alibi e da sola aveva trasportato sulle spalle la bara di Micky. Da sola lo aveva seppellito. Da sola aveva recitato le preghiere per i morti.
Da sola attendeva che lei mantenesse la sua promessa.
Era tempo di tornare a casa, seppellire Micky e coltivare d’amore il vuoto che lui aveva lasciato.