Teresa Sanpaoli,  chiamata per il riconoscimento del  cadavere di Micky, aveva guardato il corpo martoriato del figlio con distacco e gli  occhi asciutti, come se il giovane disteso sul tavolo dell’obitorio le fosse estraneo.
Aveva scosso la testa e con convinzione aveva detto no, che quello non era il suo Micky.
Quando il funzionario di polizia le aveva chiesto se ne fosse proprio sicura, lei gli aveva risposto con durezza: una madre riconosce  sempre i propri figli, e questo non è il mio.
Poi, rivolgendosi a padre Murray, aveva detto: accompagnami a casa, Liam, che se Micky torna non c’è nessuno ad aprirgli.
Il prete l’aveva presa sottobraccio e s’erano avviati alla porta, ma prima di uscire aveva fatto un cenno d’assenso al poliziotto.
Durante il tragitto, Teresa, di solito parca di parole, aveva invece parlato ininterrottamente, spesso perdendo il filo del discorso e la coerenza.
Micky, però, non l’aveva mai nominato.

 

A trovare Tina era stato Jack Randazzo. Lei era rannicchiata sullo scalino della palestra, che quel giorno sarebbe rimasta chiusa per lutto, e nonostante il freddo intenso non indossava neppure il cappotto.
Lui, allora, s’era allora tolto il suo e glielo aveva messo sulle spalle, ma lei neppure s’era accorta.
Era rimasta immobile nella sua posizione.

«Tina, posso sedermi  qui, accanto a te?» le aveva chiesto con dolcezza sedendosi sullo stesso gradino.

«Quello che è accaduto a Micky è stato terribile, ma del tutto casuale. Uno scherzo del destino. Io gli volevo bene, e anche don Vito e Sal. Una grande perdita per tutti.  Ma tu non devi preoccuparti, non ti lasceremo sola, ci prenderemo cura di tua madre e di tu sorella. Siamo una grande famiglia. Micky era uno dei nostri».

«Era meglio che non lo fosse stato, sarebbe ancora vivo» aveva replicato gelida, alzandosi e lasciando cadere a terra il cappotto di Jack.

 

Tina aveva vagato a lungo e senza una meta. Tornare a casa non se la sentiva. Non aveva più senso.
Micky era morto e con lui era morta anche lei. Il pensiero di sua madre e di Maria, della loro disperazione e della loro solitudine, l’aveva attraversata per un attimo ma subito lo aveva respinto. Avrebbe dovuto essere a casa, con loro, e assistere paziente, perfino mostrarsi consenziente, alla rielaborazione della realtà che sua madre stava mettendo in scena per continuare a vivere. La  rivisitazione narrativa della realtà oggettiva in un’altra più intima e personale, che aveva già sperimentato alla morte del marito: una finzione esistenziale ai fini della sopravvivenza. Ma Tina non ce l’avrebbe fatta questa volta a sopportare.
Micky era morto, era questa l’unica, tremenda realtà alla quale bisognava alla svelta abituarsi, e l’idea che sua madre, invece, si andava predisponendo ad una sua eterna, inutile attesa, ricacciando in un angolo remoto della sua consapevolezza la realtà della sua morte,  già messa in atto con il disconoscimento del cadavere sul tavolo dell’obitorio, e costringendo tutti ad assecondarla in quella sua penosa messinscena, dove sarebbe stato negato perfino il diritto al pianto e a un ricordo condiviso. No, doveva andarsene, non per vigliaccheria ma per non perdere la sua di ragione.  Micky era morto e Paddy era lontano: non aveva più motivi che la inducessero a rimanere. Sua madre se la sarebbe cavata, era in buone mani, padre Murray, l’amico di una vita non l’avrebbe persa d’occhio. Con quella sua partenza avrebbe messo al sicuro anche Maria, così lontana dalle intemperanze che avevano caratterizzato lei e Micky, e che li avevano resi appetibili a gente come Lo Cascio. Maria era diversa da loro. Non aveva nessun contenzioso con la vita. Nessuna rivalsa da far valere. Nessuna rabbia da sfogare. Era l’unica equilibrata in quella famiglia di pazzi. Avrebbe parlato con lei per metterla al corrente della sua partenza.
Seppure ancora così giovane sarebbe stata in grado di accettare la realtà. E di sopportarla.

 

A casa era tutto come sempre, la tavola apparecchiata e sua madre ai fornelli. Quando lei era entrata s’era affacciata sulla soglia della cucina per esclamare delusa: ah, sei tu.  Evidente che aspettava Micky. Aveva apparecchiato anche per lui. Provava pena per lei, ma anche rabbia. Se solo avesse urlato, inveito, pianto, invece di trincerarsi in quel suo mondo illusorio che la rendeva inavvicinabile. Quasi nemica. L’avrebbe stretta tra le braccia e avrebbero pianto il medesimo dolore. Si sarebbero ritrovate nell’amore di Micky. Ma quella finzione le impediva qualsiasi contatto. La costringeva in un angolo ad assistere impotente alla sua messa in scena, senza poter intervenire con una parola o un gesto, che altrimenti quel finto equilibrio sarebbe sfociato in follia. Non poteva, dal momento che aveva deciso di andar via, prendersi la responsabilità di un atto così brutale come quello di costringere sua madre a guardare dentro l’abisso, affinché ritrovasse, con la violenza del dolore, la voce e le lacrime. E la ragione. Una terapia shock che l’avrebbe salvata da quella lenta agonia programmata, che l’avrebbe consumata in un’attesa senza eterna, dove perfino la follia aggressiva sarebbe stata preferibile. Non poteva far nulla per lei, non al momento, che lei stessa agiva in un precario stato emotivo. Per questo doveva andarsene, per evitare qualsiasi pericoloso attrito con sua madre ma anche, e soprattutto, perché nulla, con la morte di Micky, sarebbe stato più come prima. Per impedire alla disperazione di corroderla e prendere il sopravvento, aveva bisogno che quel cambiamento fosse drastico.
Un giorno sarebbe tornata e avrebbe ritrovato intatto il ricordo di Micky.
S’era affacciata alla finestra e aveva visto Maria seduta in cortile, le mani in grembo. Fissava il cancello.
Tina le si era seduta accanto e seguendo la direzione del suo sguardo aveva detto: Micky non tornerà più.

«Lo so» aveva risposto lei «ma non riesco a smettere di guardare il cancello».
La voce era incrinata dal pianto e gli occhi erano rossi. Era scesa in cortile a piangere per non farsi vedere dalla mamma.
Tina l’aveva abbracciata e le aveva detto: piangiamo insieme.

– La mamma crede che Micky tornerà. Nessuno trova il coraggio di dirle che è morto».

«Non si tratta di coraggio, Maria, ma bisogna darle il tempo di accettare la realtà. Una parte di lei è consapevole della sua morte, ma è il suo cuore che rifiuta l’idea. Ed è il cuore che detta i tempi. Noi però sappiamo le cose come stanno, così faremo anche la sua parte. Piangeremo Micky anche per lei. Siamo abbastanza forti per farlo».

Tina l’aveva stretta fra le sue braccia e in quell’abbraccio Maria aveva riversato tutto quel suo dolore trattenuto, muto e quieto. Interno. Il più straziante tra i dolori.
D’un tratto s’era resa conto di quanta poca attenzione avesse dedicato alla sorella più piccola. La consapevolezza improvvisa di questa dimenticanza l’aveva toccata fin nel profondo, perché il suo tempo, e il suo affetto, erano  stati esclusivamente per Micky, mentre  lui, invece, Maria non l’aveva trascurata. La sua piccola pulce portentosa, così la chiamava  lui, mancando di proposito il canestro per farla vincere. E quanto ridevano insieme. Ma era stata Maria, con la sua dolcezza e quell’ acerba ponderatezza scaturita dalla sua grande sensibilità, a coltivare la parte migliore di Micky. Se Micky fosse stato vivo questa constatazione l’avrebbe forse resa stupidamente  gelosa, ma ora che lui non c’era più la riempiva di gratitudine nei confronti di quella sorella per lei quasi sconosciuta, e tracciava le basi di un legame. Questo ricongiungimento le rendeva ulteriormente penoso l’addio imminente. Maria, lo avrebbe inteso come un abbandono. Una rinuncia. Un atto di vigliaccheria.
E così lei, quella sorella appena ritrovata, l’avrebbe forse persa di nuovo.
Ma pure non si sarebbe sottratta al suo giudizio.

«Maria, sto per partire, devo farlo per dare una speranza a noi tutti. Non sarai sola a badare alla mamma, ci sarà anche padre Murray, lui è un amico fidato, ha sempre vegliato su di noi. Ci vuole bene e non ci ha mai abbandonati. So che sarà  difficile per te condividere questa mia decisione, e non voglio raccontarti bugie, dirti che tornerò presto perché neppure io so quanto tempo starò via. Ma devo andarmene, Maria, per il bene di tutti. Non ho alternativa. Ma rimarremo sempre in contatto. E un giorno tornerò, te lo prometto».

Maria l’aveva ascoltata in silenzio. Poi era tornata a fissare il cancello.

«Dove andrai? E cosa dirai alla mamma?».
Nessun tono d’accusa in quella sua domanda, ma di preoccupazione, invece, per lei che partiva senza una meta e per la madre che avrebbe perso un altro dei suoi figli. Delle sue paure, delle sua angosce, non v’era stato alcun accenno. Avrebbe potuto farsene scudo e con quelle inchiodare Tina alle sue responsabilità di sorella maggiore, ma non lo aveva fatto. Ancora una volta, Maria, si dimostrava migliore di lei.

«Le dirò che vado a cercare Micky. Questo la manterrà tranquilla».
La ragazzina non aveva detto più niente, ma i suoi occhi erano tornati a fissare il cancello.

«Micky non tornerà più, ma io sì, te lo prometto».
L’aveva attirata a sé e guardandola negli occhi le aveva ripetuto il suo giuramento: tornerò, te lo prometto.