IO- IL FARO

Mi presento, sono il nobile e glorioso faro di Capo Serice.

Ma no, non fate quella faccia perplessa, lo so che il mio nome non vi dice niente.

Certo, non sono famoso come i miei antenati: il faro di Alessandria, il Colosso di Rodi o la lanterna di Genova…

E non vi stupite per il fatto che un faro parli, ne ho visti tanti di voi umani dotati di lingua ma incapaci di esprimere un pensiero!

Non mi troverete certo sulla cartina a meno che non sia molto dettagliata o siate nati nei dintorni di Serice, minuscolo paese sulla costa ionica della Sicilia.

Me ne sto arroccato su questo promontorio roccioso dal 1859, anno in cui fui inaugurato in pompa magna dalle autorità borboniche ed alla presenza dei notabili locali. Venni solennemente benedetto dall’allora arcivescovo Sua Eccellenza Reverendissima, Monsignor Cascioli Ubaldo e banalmente chiamato ‘faro di capo Serice’

Ero bello allora, alto 28 metri e candido, immacolato. La mia forma si stagliava sull’azzurro del mare ed ero pronto a sfidare le sue onde impetuose che certe volte arrivano a lambirmi la base .

La mia cima sembrava volesse infilzare le nuvole mentre le guardavo con tono di sfida quando arrivavano basse e scure insieme al vento e facevano gonfiare il mare sempre di più.

Quel giorno qualcuno salì i 140 scalini interni e venni acceso, presi vita ed iniziai a parlare ai naviganti entro le 15 miglia con la mia muta voce luminosa che era riconoscibile da quella dei miei fratelli vicini perché formata da due lampi lunghi di luce bianca seguiti da uno breve.

Ero orgoglioso e pronto alla mia gloriosa missione: salvare vite umane.

Il giorno dell’inaugurazione fu davvero bello ed emozionante, tutti mi guardavano e si complimentavano per la mia ardita collocazione su questo sperone di roccia lavica proteso nel mare.

Poi, sparì la banda che aveva suonato, se ne andarono nobili, funzionari e prelati.

Restai da solo a sognare gloriosi eventi per il mio futuro.

Ero, infatti, un po’ sciocchino ed ingenuo, allora, e sognavo transatlantici che mi sarebbero sfilati innanzi e m’avrebbero salutato festosi o velieri di pirati che sarebbero sbarcati di nascosto per nascondere tesori…

Passata l’euforia iniziale, ebbi modo e tempo di guardarmi bene intorno. Ero un faro appena nato e, capitemi, dovevo ancora esplorare il mondo e lo dovevo fare anche con una certa solerzia perché mi aspettavano impegni di alta responsabilità.

Alla mia base era stato ricavato un alloggio minuscolo a forma di cubo e spartano per l’addetto al faro; alla mia sinistra proseguiva la costa rocciosa a picco sul mare che era costellato da diversi scogli emergenti.

A destra c’era una caletta isolata formata da ghiaia sottile che poteva essere raggiunta solo passando vicino alla mia base e scendendo poi per una cinquantina di arditi scalini intagliati nella roccia oppure via mare.

Per arrivare fin qui dalla terraferma bisognava, e bisogna ancora, percorrere per un centinaio di metri un sentiero tracciato sulla prateria mediterranea passando tra macchie erbacee inserite fra le rocce e qualche cespuglio basso di rosmarino o di cisto dai caduchi fiori simili alla rosa selvatica. Il paese più vicino era , appunto, Serice e distava un chilometro e mezzo verso ovest ed era praticamente un grosso villaggio di pescatori. Vedevo le sue bianche case affacciate sul mare ed allineate a schiera lungo il litorale. A sera, gli uomini uscivano in mare sulle loro piccole barche a “calari u parancu” cioè ad ancorare alcuni cofani dai quali pendevano moltissimi ami e poi di mattina presto tiravano su il pescato da consegnare ai “raittera”che comperavano il pesce pescato per poi rivenderlo.

Ed è proprio per loro, per quei pescatori che sono stato eretto dopo che per diverse volte, di notte, alcune barche hanno avuta la sventura di finire sugli scogli parzialmente celati dall’alta marea con conseguenti perdite sia di vite che di barche.

Ma, pensai, ora non avranno certamente più nulla da temere perché ci sarò io a difenderli dalle insidie degli scogli ed a guidarli verso casa.

Ero giovane ed orgoglioso, allora.

Mi sarei fatto onore con l’aiuto del mio primo amico: Egisto Carfusi ne ero più che certo.

Ma oggi che mi vedete così, vecchio ed abbandonato, ferito dagli insulti delle onde e del tempo, fermatevi un po’ qui a respirare quest’aria odorosa di resine e mare.

E se v’aggrada vi narrerò alcune storie di cui sono testimone e che mi sono restate nel cuore.

 

Foto tratta dal Web