Agatha dal sogno della notte appena trascorsa aveva rilevato auspici benevoli per il compimento della sua impresa.
Nel sogno c’era stato il ritorno delle rondini a nidificare tra le tegole precarie del suo sottotetto.
Poi la fioritura, selvaggia e trasbordante, di un cespuglio di gelsomino ormai da tempo inaridito.
Aveva perfino ripreso a zampillare l’umile fontanella del cortile, irrimediabilmente disseccata dalla siccità della passata stagione.
Eppoi, nel sogno, si era vista anche lei.
Appena un po’ più giovane, con i capelli fluenti e la gonna rossa che tanto piaceva a Juan.
Lui, però, nel sogno non c’era.
Il bastardo che l’aveva mille volte tradita e che lei mille volte aveva perdonato.
Il miserabile che poi l’aveva umiliata fuggendo di notte, di nascosto come un ladro, con la sua sgualdrinella ancora impubere.
L’assenza di Juan, in quel suo sogno così bello, l’aveva ulteriormente convinta della positività di quei segnali notturni.
E di quelli diurni.
Perché si era destata con il sole che le solleticava le gambe e che, approfittando della sua incosciente remissività, andava penetrando, sempre più ardimentoso, sotto la cotonina diafana della camicia da notte.
Lei, allora, con distratta malizia, aveva aperto un poco di più le gambe facendo sì che gli immateriali polpastrelli del sole non trovassero ostacoli insormontabili a quella sfacciata manovra.
Non si mosse da quella posizione fino a che non si sentì colma di quel calore espansivo, generoso ed umido, quello dell’innamorato che vorrebbe per sempre rimanere dentro l’intima fessura, nel ventre della sua amata.
Quando si fu alzata, per prima cosa controllò se le rivelazioni del sogno si fossero materializzate anche nella realtà del presente.
Ma tutto, all’apparenza, sembrava come sempre.
Ciò che sembra non sempre è.
Ricordava la frase che sua madre era solita recitare ogni volta che si era trovata di fronte ad un possibile inganno.
Ciò che sembra non sempre è.
Anche Juan, un tempo, le era sembrato un uomo diverso da quello che poi si era rivelato.
Ma quella mattinata di sole e di vento no, non la stava ingannando.
Era esattamente quello che sembrava.
Perché c’era anche il vento, altro elemento che consolidava il suo convincimento che quella fosse la giornata perfetta per la sua impresa.
Il vento era ben calibrato.
Né troppo forte.
Né troppo debole.
Deciso.
E tiepido.
Un vento androgino.
Donna e uomo insieme.
Ed un vento di questa natura non l’avrebbe di sicuro tradita.
Aveva indossato pantaloni e stivaletti da cavallerizza per domare le nubi.
Con le forbici, senza tentennamenti, aveva mozzato la treccia scura che le ondeggiava sulla schiena, pesante come una gomena.
Ogni inutile zavorra, per il successo dell’impresa, andava senza pentimento eliminata.
A Juan piaceva l’intrico selvaggio dei suoi capelli di femmina.
La treccia recisa, ciondolante nella sua mano, questo le rammentava.
Agatha, quel mattino aveva invece con decisione stabilito che la sua gonna rossa e la treccia tagliata, gli occhi verdi di Juan e la sua anima bastarda, erano solo gravami di cui poteva benissimo fare a meno.
Fardelli del passato.
La donna che si accingeva a celebrare la mirabolante impresa era una donna inedita.
Una domatrice di nuvole con i capelli da fantino.
Una donna che mai avrebbe sprecato la sua vita ad amare un figlio di puttana come Juan.
Con questi convincimenti propositivi, Agatha era entrata nel buio della rimessa per riemergere alla luce trascinandosi dietro un carretto, sbilenco e traballante, sul quale era issato uno stravagante marchingegno: un argenteo corpetto rigido simile al busto, privo di maniche, di un’armatura, e sulle spalle del quale erano montate due flessibili stecche perpendicolari.
Ed ancora, da entrambi i lati del dorso, si dipanava un complesso ricamo di funicelle che convergeva sui fianchi.
Aveva trascinato il suo trabiccolo cercando di non esaurire troppo le energie, arrampicandosi fino alla sporgenza frastagliata del dirupo.
Il fianco di quella montagnola offriva solidi appigli per i piedi ma presentava anche tratti infidi di sassolini scivolosi e di un friabile pietrisco, ingannevole imitazione di roccia.
Raggiungere la cima non era stato affatto agevole dovendo trascinarsi dietro anche l’ingombro del carretto che, alla fine, vi era approdato, seppur martoriato e privo di una ruota, ma con il carico ben protetto, assicurato com’era da robuste cinghie.
Si era riposata solo il tempo necessario per recuperare le forze, ché il percorso era stato ben più duro di quello che aveva previsto.
Ma non poteva permettersi una sosta più lunga nel timore che il vento perdesse di forza.
Allora, Agatha, aveva indossato il corpetto.
Ne era emersa prima la testa che, privata dell’oceano dei suoi capelli di donna, sembrava piccola come quella di un bambino.
Eppoi le braccia sottili, fragili, nella loro magrezza costituzionale.
Quel corpetto panciuto la rendeva simile ad una irreale creatura intrappolata in un otre da cui fuoriuscivano membra irrisorie, che pareva dovessero cedere sotto il suo peso.
Il bustino d’amazzone luccicava, in pieno sole, delle mille sfumature dell’iride.
Ed Agatha ne risplendeva.
Ben salda sulle sue gambe esili resisteva alla forza del vento che, senza quel suo pesante carapace di guerriera, forse l’avrebbe strappata dal suolo, involandola.
Si era sporta dall’orlo dello strapiombo.
Le cime degli alberi, viste da lassù, sembravano cespugli.
Una distesa compatta di verde che non lasciava intravedere il nero della terra.
Ma non era ad una discesa verso il basso, plateale e dimostrativa che lei mirava.
D’altronde non ci sarebbe stato nessuno a testimoniare l’evento.
No, al contrario, aspirava invece a librarsi verso il cielo.
Dove avrebbe domato le nuvole.
Ma, in ogni caso, non ci sarebbe stata folla ad applaudire.
Un’impresa solitaria.
Una sfida che, dal suo punto di vista, non necessitava di alcuna celebrazione.
Una rivincita, attraverso la quale si sarebbe trovata al centro del mondo.
Lo avrebbe saputo lei sola.
E questo le era sufficiente.
Decisa, Agatha, aveva portato le mani ai fianchi allentando alcune cordicelle e trattenendone altre.
Dalle stecche perpendicolari, posizionate sulle sue spalle, si spalancarono due magnifici ventagli alari che lei poteva aprire o comprimere, secondo il suo capriccio, adesso che ancora non si era librata.
Poi, una volta in volo, sarebbero servite ad espletare le manovre necessarie per assecondare le volontà del vento.
Per cui lei, opportunamente, si andava assicurando che tutto quel complicato intrigo, di cordicelle e di fili, funzionasse alla perfezione.
Non era alla morte che aspirava.
Ma alla vita.
Così controllava che le funicelle fossero libere nel loro percorso.
Che nessuna ostacolasse le altre.
Accertandosi che nessun malaugurato nodo si potesse, al momento delle manovre, sciaguratamente formare.
Agatha, sul ciglio ventoso del burrone, apriva e chiudeva quelle sue splendide ali di farfalla fantascientifica, soppesando e valutando, concedendo giogo ad alcuni fili, trattenendone altri per modificarne, in misura adeguata, l’estensione.
Doveva essere certa di calibrarle alla perfezione studiando la potenza del vento e delle correnti ascensionali a cui avrebbe dovuto affidarsi per spiccare il volo e per rimanere poi in quota.
Agatha sapeva che ci sarebbero stati momenti in cui le correnti alte sarebbero state più deboli in caduta, e di questo avrebbe dovuto ricordarsene al momento opportuno per non cedere al panico dello sfracellamento.
Era pronta a non aver paura.
Perché la paura sarebbe stata la zavorra più pericolosa di tutte.
Il peso aggressivo che irrimediabilmente l’avrebbe trascinata verso il basso.
Il vento era ben calibrato.
Né troppo forte.
Né troppo debole.
Deciso.
E tiepido.
Un vento androgino.
Donna e uomo insieme.
Ed un vento di questa natura non l’avrebbe di certo tradita.
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