Eravamo a migliaia il 5 marzo 1943 a Mirafiori, cento operai in ogni officina che hanno lavorato con il cuore in gola fino alle 10 del mattino. Allora abbiamo incrociato le braccia e siamo scesi in sciopero, il primo sciopero organizzato: rapide le staffette hanno passato la notizia e fulminea è stata la risposta delle altre fabbriche, che hanno spento i motori una ad una. 
Il 10 marzo anche a Milano il PCI clandestino ha lanciato l’appello allo sciopero. Le camicie nere hanno tentato di fermarci, ma eravamo in centomila e cacciammo i fascisti dalla Falck a colpi di mattone.

Eravamo milioni nelle piazze, nelle Università, ai cancelli delle fabbriche, quando abbiamo conquistato il diritto al lavoro, lo Statuto, quelle garan­zie che erano scritte nella Costituzione ma che padroni e governi hanno sempre tentato di negarci.

Poi siamo diventati sempre meno a lottare: molti compagni in giacca e cravatta vendettero il movimento per delle poltrone, e noi ci facemmo accecare dalla televisione, il modello americano, la Milano da bere, il tiranno laido e divertente.

Perdemmo tutto, anche il coraggio di guardare negli occhi i nostri figli, e ci rifugiammo a raccontarci la vergogna la sera, attraverso una tastiera.

Ma sull’orlo della disperazione abbiamo ritrovato il coraggio e l’unità, l’unità tra chi lavora, e siamo scesi ancora in strada a farci picchiare dalla polizia mandata dai nuovi fascisti in doppio petto, a ribellarci. Perché ribellarsi è giusto contro chi ti vuole ammazzare negandoti i più fondamentali diritti.
Eravamo un milione in piazza, ieri, noi vecchi e tanti, tanti giovani.

Perché anche se siamo l’ombra di quel che eravamo, finché c’è luce esisteremo, combatteremo, vinceremo.