Sull’aia liscia e soda come un tavolo di marmo, saliva il fresco della sera.
Sera di lucciole lungo il cortile scuro, risonante come l’eco fragoroso e ridente di una grancassa da fiera di paese.
Ancora una festa in onore di chissà quale santo, mentre la tv a tubo catodico illuminava a intermittenza nel buio il volto allegro dei nonni con la solita tiritera di frivoli programmi estivi. Il volume esagerato ricopriva a tratti la voce di uno dei molti cantanti meteora che si esibivano in piazza, noti di solito per un solo unico successo, suonato alla fine della serata dopo un repertorio sconosciuto a tutti, supplizio inevitabile da scontare per ascoltare l’unico pezzo almeno canticchiabile.
Quella sera uscii a prendere il fresco della sera e volsi lo sguardo verso i cipressi che si curvavano appena come ghirigori nel vento sulla luna piena. Sotto di essi avrei potuto tracciare la mappa mentale di centinaina di tombe di probabili avi dai cognomi simili o uguali a quelli di mio padre e di mia madre. Avrei potuto ripercorrerlo a memoria quel cimitero marsicano, lapide per lapide, di cui curiosa censivo i dati in occasione delle visite per cambiare i fiori. Ogni domenica estiva, con un secchiello in metallo pieno di acqua in una mano e qualche fiore nell’altra – almeno a dar credito alle mie prime memorie – ero sempre lì, con mia nonna, alla ricerca di chissà quali coincidenze degli eventi, e con l’occasione lasciavo il segno floreale del mio passaggio.
A circa 15 anni trovai lei. Se ne stava in un angolo un po’ defilato, ma mi stupì lo stesso che mi fosse sfuggita per così tanto tempo. Il 12 ottobre, ottanta anni esatti prima che io venissi al mondo, nasceva una donna che portava il mio stesso nome, abbinato ad uno dei cognomi di famiglia. Erica Serafini. “Moglie e madre devota e amata. La piangono amorevoli il marito Giacomo e la figlia Sara”.
Aveva 30 anni quando divenne ospite di quel luogo di pace.
Nella foto ovale, in bianco e nero e un po’ ingiallita, indossava un abito castigato di buona fattura, capelli raccolti, uno sguardo spaesato e il più triste dei sorrisi forzati.
La osservai a lungo. Non potei fare a meno di notare il taglio delle sopracciglia piene ma sottili, il folto dei capelli scuri, in naso un po’ indiano, le labbra carnali, gli zigomi alti e il collo fino. La genetica non mente…
E così, davanti a quella danza lunare di cipressi, decisi che fosse giunta l’ora di andare a fare due chiacchiere con nonna Tilde, alias Matilde Serafini, la mamma di mio nonno e archivio umano delle vicende di famiglia.
Quella stessa notte sognai l’antica Erica danzare nel vento insieme ai cipressi. Sorrideva… ma poi ad un tratto portava le mani sul viso in un grido di disperazione. Mi risvegliai sudata, mi alzai a bere un bicchiere d’acqua, e nello specchio in bagno mi parve di vedere lei.
L’indomani alla buon’ora mi vestii col mio abito migliore, che nonna Tilde aveva delle idee ben chiare su come ci si debba presentare, e a passo svelto mi inerpicai fino alla casa più bella del paese vecchio. Un palazzetto d’epoca con la vista su tutto il mondo concepito in quel delimitato perimentro di conoscenze intricate.
Era mattino presto, ma sapevo che l’avrei trovata già agghindata in uno dei suoi abiti da nobildonna di altri tempi, e profumata di lavanda.
Il solito chignon di capelli bianchi e quegli occhi intensi che hanno adornato di smeraldo sparute generazioni di miei consaguinei. Non me, purtroppo.
Quasi centenaria, nonna Tilde si muoveva agile attraverso quella casa immensa, rifiutando l’aiuto di una governante fissa.
Mi accolse con la solita aria che diceva “… ti conosco bambina, sei qui per una ragione precisa…” e invece mi chiese se avessi fatto colazione.
Nell’enorme cucina in muratura allestì per me, sua unica ospite, un sontuoso banchetto odoroso di uova, miele, pane caldo e frutta fresca, con tanto di posate in argento e un buffet di materie prime di qualità sopraffina. Poi, come al solito, mi lasció fare, mentre mi guardava con l’espressione nostalgica di chi ha perso da sessant’anni la giovinezza e cerca di riafferrarne qualche sensazione sommersa da troppa vita. Mi osservava mangiare, si perdeva nei miei gesti e mi scostava le ciocche impertinenti per evitare che i capelli mi si sporcassero con marmellata, latte o qualche altra sostanza appiccicosa.
Tilde aveva un debole per me. Ero la prediletta tra tutti i miei zii e i miei cugini.
Fino a quel periodo avevo creduto che questo fosse dovuto alla nostra affinitá elettiva. La passione che entrambe ponevamo nel rivangare vecchie storie di famiglia, il tempo che questa attività ci portava a condividere. Ma, come presto scoprii, c’era dell’altro.
Tante volte chiesi a nonna Tilde perchè non si fosse mai risposata. Era rimasta vedova davvero giovane, molto ricca e di gran lungo la donna più bella che si fosse mai vista in quel noto perimetro, che dalla finestra della grande sala al primo piano catturavamo con un solo giro di occhi. Ricevetti sempre risposte vaghe a quella domanda, e alla fine mi convinsi, ma non troppo, che fosse dovuto alla ferma volontà di onorare quel bisogno innato di gestire in autonomia il tempo, il rifiuto netto, anche della sola ipotesi, di una nuova unione.
Di solito conducevamo le nostre ricerche nel tempo nella grande biblioteca, dove Tilde conservava anche tutti gli album di famiglia e il suo ultimo violino. Quello che ammaliava mio padre e i suoi fratelli nelle sere di festa, quando la famiglia si ritrovava tutta, per ragioni di spazio, proprio in quella casa, e lei sempre affascinante, con il suo archetto accompagnava insieme i piccoli verso sogni sereni e profondi.
“Avanti, dimmi, cosa è quell’espressione inquisitoria?”
“Nonna, cosa sai dirmi di Erica… Erica Serafini? Ne hai sentito parlare?”
Si alzó in piedi, abbandonó incerta la poltrona e volse uno sguardo indecifrabile oltre la finestra, verso il cimitero… le sue mani tremavano un po’ più del solito.
“Nonna, ti senti bene?”
“… io, io… non molto… sì, sto bene, ma sono già ore che sono in piedi, e inizio a stancarmi…”
“Posso tornare più tardi se vuoi, o domani?…”
“… sì, sì amore mio, è meglio”.
Lasciai la casa titubante. Sapevo in cuor mio quanto lei mi amasse, ma chiamarmi “amore mio” proprio non era il suo modo di dimostrarlo… Per la prima volta nonna Tilde mostrava una fragilità. Ma dovuta a cosa? La domanda su Erica, mi fu subito chiaro, ne era stata in qualche modo la causa.
Non potevo aspettare… ma non sapevo davvero dove avrei potuto cercare visto che al momento mi era stata preclusa la possibilitá di accedere agli unici archivi storici e fotografici di cui conoscessi esistenza, quelli di Tilde, appunto.
Nel pomeriggio presi mio nonno a braccetto e lo accompagnai con passo lento a governare i suoi pochi animali. Ormai diventati tutti di compagnia, anche se non lo avrebbe mai ammesso, per dare un tono meno frivolo a quel vezzo quotidiano di spendere un paio d’ore ad intrattenersi in chiacchiere con loro, in genere fino all’ora del tramonto.
Mentre attraversavamo l’orto odoroso di pomodori e basilico gli chiesi di Erica.
“Bambina, lascia stare, non è una storia che vorresti ascoltare”.
Lo conoscevo abbastanza bene da sapere che, dopo una sentenza così lapidaria, non avrebbe parlato neanche sotto tortura.
Gli baciai la fronte e dissimulai l’impazienza preparando una torta di mele… Ovviamente destinata a nonna Tilde.
Quella notte di nuovo nei sogni Erica ballava. Ma i cipressi di fumo si trasformarono pian piano in un uomo. Ballavano insieme un walzer stonato in abiti neri, come prigionieri di un antico maleficio al cospetto di una luna tagliata da nubi affilate.
Poi Erica restava da sola a piangere lacrime scure e lui guardava verso di me e mi veniva incontro con uno scatto.
Mi svegliai con un urlo.
Di lì a poco accorse mia nonna con un bicchiere di latte caldo. Per qualche strana ragione mi tornó in mente l’unica persona citata sulla lapide che non avevo sognato… la figlia Sara.
“Nonna, perchè zia Sara se ne è andata e non ti ha più richiamata? E non ha mai più voluto sentire nonna Tilde, sua madre… ”
“Nelle famiglie succedono cose strane piccola mia”.
“Ma cosa potrebbe mai spingere ad abbandonare per sempre la propria madre, colei che ti ha messo al mondo”…
“… Piccola mia, molte più ragioni di quante riusciamo ad immaginare”.
Ero davvero stufa di non risposte.
La mattina seguente, decisa, impacchettai la torta e mi diressi di nuovo verso Casa Serafini.
Nonna Tilde mi aprì, e mi fece accomodare direttamente in biblioteca, dove inizió il suo racconto, non senza prima avermi offerto una porzione della torta che aveva un sapore insolitamente aspro.
“Io la mangeró più tardi… ” aprì un cassetto dell’antica scrivania in noce e ne tiró fuori una sigaretta.
“Chissà se sarà ancora buona, dopo tutti questi anni…” la accese con un accendisigari in argento e volse il suo sguardo nuvoloso, di nuovo, verso il cimitero.
“È da quando sei venuta al mondo che ho saputo che questo momento sarebbe arrivato.
Avevo cinque anni quando nacque mia sorella Erica, la amai dal primo istante, mi autoinvestii subito del compito di madre putativa, e in quanto tale la osservai ciglio per ciglio, dito per dito, respiro dopo respiro, a partire dal suo primo soffio di vita. E tu ne eri, ne sei, la copia esatta.
In questo vidi un segno di possibile redenzione.
Dovetti insistere con i tuoi genitori, perchè anche tu ti chiamassi Erica… con quel nome temevano di riportare alla luce quell’antica vicenda insabbiata insieme alla mia vergogna sotto strati di vita in apparenza serena.
Io la vedevo diversamente. Per me era ancora un modo per chiedere il suo perdono.
Io ed Erica crescemmo insieme ed io la amavo… ci adoravamo.
Poi mi toccó in sorte quel matrimonio di convenienza. Dovevo portare avanti il buon nome e la ricchezza dei Serafini, in quanto primogenita.
Abbandonai questa casa… e Dio solo sa quanto mi mancasse la presenza costante di Erica.
Marco, mio marito, era un uomo distratto, in apparenza intellettuale e in definitiva poco adatto a corrispondere la mia vena passionaria.
Non seppe farmi innamorare ed io non ero davvero il tipo da concedersi facilmente, solo per conformitá a quanto imposto sotto la orribile dicitura “dovere coniugale”. Scusami la volgarità bambina mia, ma per quel che mi riguardava, potevano anche andare a farsi benedire loro, e i loro dogmi insensati. A tutto c’è un limite.
C’è da dire che non insistette poi tanto.
Poi mio padre organizzó quel ballo… e per la prima volta vidi Giacomo, mentre teneva le mani di Erica perdendosi nei suoi occhi scuri e ridenti.
Avrei fatto di tutto per scacciare via il verme della gelosia. Ma mi perdevo affranta in quell’attrazione sincera, che me ne convinsi, io mai avrei potuto assaporare.
… Se li avessi visti gli occhi innamorati di mia sorella… decisi di tenerli a distanza. Ero in parte contenta per lei, ma mi addolorava troppo il pensiero che non avrei mai potuto indossare quella espressione incantevole. No, non sono mai stata una santa.
Mi finsi ammalata persino il giorno del loro matrimonio pur di non testimoniare a quell’idillio, troppo scomodo per la mia anima, e quando seppi che Erica aspettava un bambino piansi. Una intera notte. Meschina. Stupida, e meschina.
Ma poi nacque Sara e non potetti resistere a tenerla in braccio, a perdermi in quel rinvigorente odore di neonato, ad amarla come se fosse mia. E lei ricambiava il mio affetto in modo così incondizionato e commovente da riempire ogni vuoto.
Trovavo spesso Giacomo intento ad osservarci mentre mi prendevo cura della piccola.
Inizialmente lo imputai ad amore paterno.
Erica invece, dopo la gravidanza era un po’ ingrassata, tendeva a trascurarsi troppo, sembrava… anzi era depressa, rendendo almeno in apparenza giustificata la mia invadenza, sempre più costante, nel riquadro della loro intimità famigliare: dovevo aiutarli, che lei da sola non ce l’avrebbe fatta.
Una notte, dopo che avevo messo Sara a letto, Giacomo si offrì di riaccompagnarmi a casa. Non era lontana, ma lui mi fece credere di sentirsi più tranquillo così.
Era davvero bello, Giacomo. Aveva quel volto d’angelo, i capelli da artista ribelle e gli occhi scuri pieni di enigmi da svelare. I tuoi stessi occhi enigmatici…
Quando mi bació non fui in grado di opporre resistenza alcuna, e in breve diventammo amanti.
Poi Marco, mio marito, morì di infarto e il campo fu completamente libero.
Ero innamorata. Il senso di colpa mi divorava di giorno, ma la passione lo assopiva di notte.
… Erica non era una stupida, aveva capito ogni cosa. Ma era malata… e troppo triste per combattere. Ci avrebbe lasciati stare.
Ma Giacomo, faccia d’angelo, aveva architettato ogni cosa. Il mio patrimonio era stato da sempre il suo vero, unico interesse. Ora che Marco non c’era più, avrebbe potuto sposarmi, se solo non ci fosse stata Erica.
Simuló così il suo suicidio. La avvelenó e poi riempì con le impronte della sua povera vittima – sua moglie, mia sorella… – la boccetta di barbiturici che dispose sul comodino in bella vista. Sì, deve essere andata proprio così.
Ma io quella notte, non vedendolo arrivare come al solito, ero come esasperata, anzi, ero letteralmente terrorizzata dall’ipotesi del suo abbandono, e decisi di irrompere in casa loro.
Avevo la chiave, entrai e lo vidi mentre la trascinava esamine verso la stanza da letto.
Scioccata soffocai un urlo.
Me ne andai di corsa, piangendo lacrime silenziose, scongiurando di non subire di lì a breve la sua stessa sorte.
Avevo perso mia sorella, il mio amor proprio, la gioia di coppia, i sogni, la fiducia nel prossimo… tutto in una sola volta.
Una notte bastó per trasformare quelle perdite in un nuovo sentimento, che presto, ai barlumi di una nuova alba, riconobbi chiaramente come sete di vendetta.
Ma ora sono esausta, torna domani”.
Me ne andai con le lacrime che sgorgavano copiose. Mi sentivo ammalata, piena di brividi. Come agghiacciata dalle parole di quella donna, che faticavo ormai a chiamare nonna. Quanti miei famigliari erano stati al corrente di questa storia? Quantomeno per questioni anagrafiche, lo avrei giurato, davvero molti.
La notte sognai Giacomo, faccia d’angelo. Prima mi sorrideva suadente, poi mi metteva le mani intorno al collo, costringendomi ad un risveglio amaro e affannato, ma almeno silenzioso. Che non avevo nessuna voglia di parlare con i miei.
L’indomani mi recai davanti alla tomba di Erica.
“Quando ti è stata scattata questa foto triste?
Già sapevi, vero? Tradita due volte. Dalla ‘mammina putativa’, e dall’uomo che amavi. Ma quale rendezione e rendezione. Non basterà quel secolo di vita sofferta a ripagarti, vero cara zia Erica?”
La mia intera stirpe mi aveva taciuto quella storia fino ad allora… e per la prima volta avrei forse davvero preferito restare all’oscuro.
Decisi poi di chiamare zia Sara, in Inghilterra. Fu molto felice di riascoltare la mia voce, non ci sentivamo da tanto tempo… in fondo, ora lo sapevo, ero così simile alla sua vera madre, quella tradita, e poi scomparsa: il mio nome, il mio aspetto…
“So tutto” dissi.
“Io credo di no” rispose.
Passarono alcuni giorni prima che mi convinsi a ritornare in Casa Serafini, per sentire il resto del terribile racconto. In fondo lo sapevo che non avrei resistito, avevo sempre avuto un debole per le storie di famiglia e quella era di gran lunga stata la più dolorosa, ma anche la più degna di un ascolto interessato.
Trovai Tilde con gli occhi gonfi di pianto, che d’improvviso mostrava tutti i suoi cento anni. Più magra, sfatta dal dolore.
Non ce la feci a non provare pietà. La raccolsi come fosse un uccellino dall’ala spezzata e la feci accomodare in sala, sulla sua poltrona preferita. Le preparai un bicchiere di latte tiepido con un po’ di miele e mi sedetti vicino a lei a guardare il sole che andava a dormire e inondava di luce rossa i marmi fini e i quadri appesi che raffiguravano alcuni miei avi, quelli di cui non si era scelto di celare il percorso in terra.
Si ricompose. Continuó il suo racconto.
“Giacomo me l’aveva proprio fatta. Durante la notte versai tutte le lacrime di cui ero capace. E mi convinsi disperata che Giacomo, l’unico uomo che avessi mai amato, dovesse morire…
Non fu difficile come avrei creduto assoldare qualcuno che simulasse una rapina finita in tragedia. Quello che non fa la gente per i soldi… Ad una decina di chilometri da casa trovai un vecchio che mi organizzó un lavoro pulito pur di assegnare una dote a sua figlia e organizzarle un degno matrimonio riparatore.
Non ci crederai, ma ebbi il suo nome dal suo parroco. Gli chiesi nomi e indirizzi dei parrocchiani più bisognosi della zona, facendogli intendere che avrei fatto quel che potevo per aiutare qualcuno di loro…
Dopo poco tempo dai due recenti funerali, una nuova motivazione mi riportó in vita: nacque tuo nonno, che tutti crederono figlio di Marco. Nel tuo sangue scorre il sangue ammaliatore e truffaldino di Giacomo. Tienilo a bada.”
– Ma non assassino – pensai.
“Ero conosciuta, rispettata… ero.
Guarda oggi cosa rimane di Tilde Serafini, la splendida vedova d’oro, dal volto di sfinge, dal piglio fiero.
Perdonami tu Erica… te ne prego.
In nome di mia sorella, in nome di Sara, che ho amato come e più di come avrei potuto amare una figlia vera…”
Piangeva, piangeva a dirotto. Stavo per dire “in nome di Giacomo”, ma ebbi pietà.
La coprii con una coperta e appena fuori da quella casa rilessi la lettera che ero venuta a consegnarle.
Me l’aveva mandata zia Sara, che l’aveva trovata nascosta tra gli oggetti, sempre gelosamente conservati, che erano appartenuti a suo padre.
“Cara Tilde. Carnefice dell’anima mia. Ricordi ero la tua bambina, ricordi… eravamo felici. Una cosa sola, dicevi sempre, un solo cuore e una sola grande anima. Poi, all’improvviso, mi hai negato il tuo amore. E poi, poi mi hai portato via quello di mio marito. Hai trasformato il suo buon odore, e quello di mia figlia. Sanno di te.
Non ho più nulla al mondo. Sto soffocando da anni, proprio non ce la faccio, non più.
Abbi almeno cura di Sara, non ti chiedo altro. Puoi prenderti tutto, tanto già è così da fin troppo tempo. Addio. Erica”.
Giacomo non era stato un assassino, e aveva amato Tilde così tanto da nasconderle la dura verità. Quello che Tilde vide in casa loro fu probabilmente l’ultimo maldestro tentativo dell’uomo di salvare la moglie. Ma questo Tilde non lo seppe mai, perchè io ebbi pietà di lei.