Lungo la strada verso la casa dalla porta gialla più volte si era fermata volgendo lo sguardo indietro: era davvero convinta di volerci tornare? E se i suoi si fossero svegliati e si fossero arrabbiati per la sua assenza? Stava andando tutto così bene… Tornò indietro cercando di non far rumore e decise di lasciare un bigliettino con un messaggio, per rabbonirli: VADO A FARE UNA PASSEGGIATA MA TORNO PRESTO. MAMMA NON PREOCCUPARTI CHE MI VENGA FAME, HO UNA FETTA DI TORTA STRABUONA CON ME. VI VOGLIO BENE. GIORGIA. Disegnò anche tanti cuoricini rossi, che quel colore non le dava più tanto fastidio. Poi riprese il suo cammino, perché dentro di sé qualcosa le diceva che doveva affrontare quel mistero.
Come aveva immaginato il grano era stato mietuto e invece delle alte spighe dorate c’erano grosse balle rotonde. Ora sicuramente qualcuno aveva dovuto scoprire la casa, pensò accelerando il passo, che si stava sincronizzando col battito del cuore, in subbuglio per l’ansia di non essere più la prima e la paura che la casa fosse scomparsa, come se fosse stata tutto frutto della sua fantasia.
Il grande ulivo amico era ancora lì e sembrava ancora più grande, visto che anche avvicinandosi non riusciva a scorgere né il piccolo edificio né la sua porta. Corse a nascondersi dietro al suo tronco e il suo respiro si fece affannoso. Decise di non curarsene: era arrivata fin lì e doveva essere coraggiosa. Fece capolino da dietro il tronco e la vide: c’era ancora. Tirò un gran respiro e quasi chiudendo gli occhi corse fino alla porta. Li riaprì piano piano solo quando fu consapevole di poter guardare attraverso la finestra.
Questa volta il riflesso sul vetro era meno forte, poiché il pomeriggio era ormai inoltrato, e Giorgia poté sbirciare senza troppa fatica. Il salotto adesso era abitato. Vide dapprima un uomo compito e serio, che con aria un po’ distaccata sembrava dare informazioni molto importanti ad un individuo ingobbito che poteva vedere solo di spalle, ma che riconobbe come l’ombra della prima volta. Non le faceva più paura, anzi, quella sagoma le sembrava familiare. L’uomo si voltò appena, ma per Giorgia fu di nuovo uno shock. Il profilo sembrava quello di suo padre! Non il suo papà giovane e giocherellone di questi giorni spensierati, ma come… invecchiato: aveva lo sguardo più triste che gli avesse mai visto. Le parve anche di scorgere una lacrima che stentava ad essere trattenuta dall’unico occhio che la vista le offriva. Non poteva essere il suo papà, il bonaccione sempre di buonumore che non aveva mai visto piangere! Preoccuparsi sì, a volte anche arrabbiarsi. Era stato anche triste, questo se lo ricordava, quando era morta la nonna. Ma anche in quell’occasione era stato lui a far coraggio a tutti. Un gigante buono, il tenebroso solare, come aveva sentito che lo definivano i suoi amici al funerale. Giorgia lì per lì non aveva capito proprio bene cosa significasse, però concordava che il papà fosse grande e buono e che sapeva come tenere la famiglia allegra anche quando succedevano cose tristi. No, non poteva essere lui.
Avvicinò meglio il viso al vetro, per assicurarsi che si fosse davvero sbagliata. E in quel momento l’uomo, come se avesse percepito di essere osservato, fece come per girarsi nella sua direzione. Giorgia si abbassò di colpo e non riusciva a pensare alla mossa successiva, sentiva solo il cuore esploderle in petto. Allora optò per l’istinto: contò fino a tre e, chiudendo di nuovo gli occhi, corse via, più veloce che poteva, concentrata affinché il terrore del momento non le impedisse di mantenere la coordinazione. Un piede dopo l’altro, un allungo dopo l’altro, avanti, sempre avanti, che oramai doveva essere quasi in salvo. Correva quasi alla cieca, con gli altri sensi impegnati a cercare di dominare ansia, angoscia e paura di quello che aveva visto o creduto di vedere. Correva mentre cercava pian piano di riaprire le palpebre, ma la paura non se ne andava, e allora li strinse ancora, sempre più forte, tanto forte da perdere l’equilibrio inciampando nei suoi stessi passi.
Quando si rese conto che stava per cadere, andò a sbattere su qualcosa di morbido. Aprì gli occhi: era Ilaria, che procedeva a passo svelto sulla strada del ritorno. «Ma dove ti eri cacciata, sciocchina? Ti stavo cercando!»
Giorgia non riuscì a trattenere un abbraccio. «Scusa, scusa, scusa», e lei stessa non sapeva se si stesse scusando di averla fatta preoccupare o per aver fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare, andando a ficcare di nuovo il naso in quello strano posto. Ilaria non le disse nulla, ma la strinse forte a sé.
Quando si fu un po’ calmata, la prese per mano: «Vieni, scimmietta, andiamo a casa. Ho detto a mamma e papà che sapevo dove fossi e che ti sarei venuta incontro. Hanno organizzato una serata film, hamburger e patatine.»
Giorgia ributtò dentro le lacrime che non aveva potuto piangere e pensò che non ne aveva più bisogno, che ora aveva la mano di Ilaria nella sua e nessuna strada sarebbe stata più buia e piena di pericoli.
A casa non poté che buttare un occhio sul padre: non trovava cenni di pianto e anzi, aveva uno sguardo limpido e sereno. Si accoccolò più vicino a lui, cercando il contatto fisico, facilitata dalle dimensioni del divano, abbastanza grande, ma comunque stretto per contenerli tutti e quattro. Ogni tanto, facendo finta di ridere con lui a qualche battuta del film, lo osservava meglio. Era proprio bello! Ed era bello star lì, che sentiva fosse il posto dove doveva stare. E dopo qualche patatina e fotogramma si addormentò rilassata, senza aver visto la fine della pellicola.