Mio padre lavorava nei campi. Ricordo ancora quando la sera arrivava a casa stanco e sudato, gettava il cappello sopra la cassapanca e il gilet sull’appendiabiti, quel vecchio gilet di crosta unto e bisunto che riparava dal sole e dall’aria e che puzzava come il suo sudore. Allora si lasciava cadere sulla sedia a dondolo e guardava mia madre.
Lei prendeva la pentola e cominciava con un grosso mestolo a riempire i piatti di minestra, o di polenta, dipendeva dalla stagione. Ma prima lo apostrofava sempre con le stesse parole.
«Vai a lavarti le mani, Beppe, dai il buon esempio ai bambini».
Allora lui sbuffando si alzava e andava in bagno, mentre un buon odore di cibo si spandeva nell’aria.
Quando poi la siccità e la concorrenza si erano fatte cattive e la fame aveva cominciato a farci sentire i suoi morsi, anche la mamma era andata a lavorare, a servizio nella casa del latifondista, e allora il cibo non ci era più mancato, ma lei non aveva più il tempo e la forza di cucinare, e soltanto la sera c’era un vero pasto; a pranzo ci dovevamo accontentare di quello che era avanzato il giorno prima.
Papà non si lamentava, tirava avanti come sempre. Io ero già grande, avrei voluto aiutare, ma tutti e due non volevano che lasciassi la scuola.
«Devi studiare per poter fare la tua vita, Nina» mi diceva mia madre «devi prendere il diploma».
Io l’ho fatto, ed ora eccomi qui. Appena finita la scuola il buon parroco, don Giussetti, mi ha trovato un lavoro presso la fabbrica di tessuti giù in paese. È un buon lavoro, e quando avrò superato il periodo di apprendimento – lo stage, il caporeparto parla inglese – mi daranno anche un bello stipendio, più di quello che prendeva la mamma per sgobbare tutto il santo giorno.
Quando mi hanno assunta in casa c’era festa, tutti che mi chiedevano cosa facessi, che cosa producessi. Io mi vergognavo di dire che non lo sapevo: stavo tutto il giorno davanti ad un grande macchinario e dovevo prendere delle balle che uscivano candide da una parte e metterla da un’altra, scartando quelle che erano difettose. Era un lavoro facile, una volta che mi avevano spiegato cosa fare, dovevo solo essere svelta a togliere e mettere, perché la macchina non si fermava mai. Alla sera mi capitava di avere male alla schiena perché ero quasi sempre in piedi, o alla testa perché la macchina rombava come un trattore, ma volete mettere con le mani rovinate della mamma a lavare i panni o di papà a zappare la dura terra del campo? Le mie erano belle come quando ero ancora sui banchi e già pensavo a quando mi sarei messa lo smalto sulle unghie e sarei andata a ballare, quando sarei stata più grande, naturalmente.
Di un’altra cosa mi vergognavo, tanto che non lo dicevo a nessuno: da un po’ di tempo faticavo a dormire, o meglio, avevo degli incubi e di notte mi svegliavo e sognavo… no, non ridete, lo so che è assurdo, sognavo che quella grande macchina, quella a cui lavoravo, avesse dei denti e stesse per divorarmi. Allora mi alzavo di scatto con il cuore in gola, e non bastava vedere mia sorella che dormiva tranquilla per calmarmi: dovevo andare alla finestra – alla finestra della sala se era inverno – aprirla e sentire l’aria fresca sul volto. Allora mi svegliavo del tutto, il battito tornava normale e potevo coricarmi di nuovo, anche se il più delle volte non riuscivo ad addormentarmi.
Il giorno dopo, poi, era tutto normale, ma mi rimaneva addosso una specie di inquietudine, tanto che esitavo a togliere la balle dal nastro, mi sembrava di non essere più sicura dei tempi.
Avevo paura.
Il caporeparto se ne accorse. Adesso mi capitava ogni tanto che mi sfuggisse una delle balle, che finivano rumorosamente per terra. Allora dovevo fermare il macchinario e rimetterla sopra, ma si perdeva del tempo e la resa diminuiva.
«Cosa succede, Nina?» mi chiese, quando si rese conto di quello che succedeva.
«Non lo so, signor Bianchini» risposi «è che non dormo bene e ogni tanto non riesco a tenere il ritmo, mi dispiace».
Lui mi guardò, poi guardò il nastro fermo e la balla per terra.
«Ma se fai così rallenti tutta la produzione!» esclamò.
Io sentivo le lacrime riempirmi gli occhi: adesso mi licenzia! pensai, cosa dirò ai miei genitori?
Il capo sembrò capire.
«Non ti devi preoccupare», mi disse «succede a tutti di stare poco bene. Però tu capisci che non possiamo fermare il nastro tutte le volte che ti scappa qualcosa».
Io lo stavo a guardare senza riuscire a pronunciare una parola.
«Facciamo così» mi disse «togliamo anche questa ringhiera, che ti impaccia nei movimenti, così puoi venire più dentro e usare una mano per prendere la balla e l’altra per posarla. In questo modo avrai il doppio di tempo per fare le cose. Be’, quasi il doppio».
«Ma lì sopra c’è scritto di non modificare assolutamente la macchina!» dissi io, indicando un cartello giallo con un triangolo nero.
Il capo spazzò le mie obiezioni con un gesto della mano.
«Lascia perdere queste cazzate! Quello serve soltanto per l’ispettorato: nessuno rispetta le norme, figuriamoci! Sai quante macchine in regola ci sono qui dentro? Nessuna! Anzi, una c’è: la macchinetta del caffè».
Rise rumorosamente alla sua battuta, poi tolse quella ringhiera e mi fece vedere dove mettermi, quindi riavviò il nastro e mi mostrò come fare.
Io l’imitai ed effettivamente in quel modo riuscivo ad essere più veloce.
«Brava Nina» disse lui soddisfatto «vedrai che quando ti sarai abituata non solo lo farai senza pensarci, ma sarai due volte più veloce. Magari ci scapperà anche un premio!».
E se ne andò.
Rimasi da sola. Con una mano prendevo una balla, con l’altra la posavo sul nastro successivo, che subito la macchina ingoiava. Così era facile, bastava solo fare le cose a tempo. Ed essere svelta.
Con una mano prendevo, con l’altra posavo… la macchina incombeva su di me, ero tanto vicina che sembravo farne parte. Il suo rumore mostruoso mi avvolgeva, ma adesso non avevo bisogno di pensare, bastava prendere e posare, prendere e posare…
Il dolore venne all’improvviso, ma fu così intenso che dopo un istante non lo sentivo più. Vedevo la mia mano imprigionata nel nastro sparire dentro i rulli d’acciaio, poi il braccio, e la spalla, mentre una macchia rosso scuro si allargava densa a macchiare le balle..