Dignità?
«L’ultima volta che ho visto la luce del sole è stato quando mi hanno portato su per interrogarmi, ancora. Proveniva da una piccola finestra del corridoio, protetta da una grata, come se qualcuno potesse fuggire da quella apertura da cui non sarebbe passato neanche un gatto. Mi sono fermato un attimo a guardarla, quasi stupito, prima che uno dei poliziotti mi spingesse brutalmente in avanti. La stanza non aveva finestre: come al solito c’era un uomo seduto dall’altra parte del tavolo e un registratore. Questa volta non mi hanno picchiato, forse non era necessario…»
S. posò la penna e il foglio di carta: che senso aveva scrivere una lettera che nessuno avrebbe mai ricevuto? Si soffermò sulle pareti della cella, grigie, sui suoi compagni silenziosi, ognuno perso nella sua disperazione, nelle riflessioni sul proprio destino.
Da quanto tempo era rinchiuso lì dentro? Non lo sapeva, lì i giorni e le notti non si succedevano, la poca luce era sempre accesa e i prigionieri lentamente precipitavano nell’apatia. O impazzivano. Erano in dieci, stipati in una stanza che probabilmente era fatta per contenerne quattro, sei al massimo, come il numero delle brande addossate ai muri, tre per lato. Gli ultimi arrivati dormivano per terra. Una latrina per tutti, niente finestre, ovviamente. I letti erano di ferro, imbullonati al pavimento e al soffitto, senza materassi né reti, sostituite da tavolacci di legno, eppure anche uno di quei giacigli sembrava una conquista ambita, permetteva di guardare gli altri dall’alto in basso. Il fetore era tremendo: una volta ogni tanto, ad intervalli irregolari, i carcerieri inondavano la stanza con un idrante, e se qualcuno non faceva in tempo a scansarsi e a saltare sui letti più alti veniva infradiciato. Allora l’unica cosa da fare era spogliarsi completamente e aspettare che i vestiti si asciugassero, e in quell’ambiente a volte ci volevano giorni. Allora i prigionieri ritrovavano un minimo di solidarietà e si scambiavano i vestiti, a turno, per riscaldarsi un poco.
Ogni tanto qualcuno di loro non faceva ritorno dagli interrogatori e allora gli altri si dividevano le sue poche cose, i tesori che fino a poco prima aveva conservato gelosamente: un pettine, un blocco di fogli, una vecchia sciarpa di lana. Chissà chi avrebbe avuto i suoi? S. riprese la penna, ci giocherellò un attimo e poi la ripose. Abitudine. Perché era lì? Aveva creduto nella libertà, nei diritti civili, era fuggito di fronte alla pulizia etnica, alla fame, alle epidemie, ai lager, ai gulag, a tutti gli inferni che gli uomini avevano saputo inventare. Era colpevole, lo sapeva, e per questo sarebbe morto lì, come tutti gli altri. Colpevole di essere un uomo, di voler vivere ancora un anno, un giorno, un minuto in più, di voler guardare in faccia un suo simile senza dover abbassare gli occhi.
I catenacci cigolarono, la porta di ferro si aprì ancora una volta, girando sui pesanti cardini. I carcerieri entrarono, guardarono un attimo intorno, poi con le torce elettriche frugarono nella semioscurità fino a trovare quello che cercavano. Sollevarono l’uomo per le braccia con facilità: era magro, tutti lì erano magri, denutriti. Non protestò neanche, era rassegnato, forse come tanti desiderava solo che tutto finisse il più presto possibile, e per questo avrebbe confessato. L’avrebbe fatto non appena avesse capito cosa confessare.
Ma S. no, non era ancora giunto quel punto. In lui una fiammella di vita si agitava ancora: avrebbe combattuto, lo avrebbe fatto con il coraggio che non aveva mai avuto, avrebbe lottato per difendere se stesso e i suoi compagni dalla morte vera, quella della speranza, della dignità che deve avere ogni essere umano. Sì, S. era stato arrestato innocente, come tutti in quel posto, ma sarebbe morto colpevole: di non essersi mai voluto arrendere.