Da bambina amavo l’armadio dei miei genitori: era di legno scuro, lucido e aveva tre ante con gli specchi che arrivavano quasi fino a terra. Mi piazzavo davanti allo specchio centrale, aprivo i due sportelli laterali e mi vedevo riflessa non solo tre volte, ma in una sequenza infinita di immagini che sembravano una magia. Mi vedevo moltiplicata in migliaia di vite, migliaia di storie che aumentavano o diminuivano al solo sfiorare delle ante.
Sognavo davanti a quelle me stessa che sorridevano, che degradavano e rimpicciolivano fino a perdersi chissà dove. Ero una bambina tranquilla, forse un po’ timida, avevo da poco nove anni e quello degli specchi era il mio gioco preferito. Mi piaceva vagare tra le immagini e vedermi diversa: posavo per un grande scultore che con maestria riproduceva la mia immagine; cantavo a squarciagola davanti a un enorme microfono alla radio; ero una principessa e mi aggiravo nel castello dei miei avi, con una coroncina dorata tra i capelli e un abito di raso azzurro con lo strascico. Più di tutto adoravo immaginarmi con un tutù bianco e le scarpe da ballerina con le punte di gesso, allora elargivo passi di danza e sorrisi a un pubblico adorante.
Il mondo reale però era lì chiaro e nitido, dietro di me, ed era impossibile sfuggirgli. Me lo ricordavano le grida di mio padre dall’altra stanza che, prepotentemente, laceravano le mie illusioni.
Mio padre non beveva, non aveva neanche questa scusante. Lui gridava, vomitava insulti, sbatteva le sedie, tirava pugni sul tavolino e, a volte, sul viso di mia madre. La feriva con la violenza del padrone, di chi non ha mai usato il cuore.
Sentivo quella violenza invadere gli specchi, e la scorgevo nei miei occhi impotenti. Io, piccola e inerme ascoltavo, e mi sforzavo di sconfiggere la paura che veniva dalla mia stessa casa. Ma non bastava rifugiarsi negli specchi o tapparsi le orecchie, e allora imparai a fingere di non sentire. Mia madre era l’unica a capire e mi aiutava chiudendo la porta; come se una fragile barriera di legno potesse tenermi lontana da quell’inferno.
Quando l’orco usciva di casa correvo ad abbracciarla, la consolavo e lei confortava me dicendo: «Non è niente piccolina mia, non è niente. E’ tutto finito.» Ma non era mai tutto finito, e lo leggevo in quei lividi viola sulle braccia e sulle gambe che lei cercava pietosamente di mascherare, lo leggevo nei suoi occhi sempre gonfie nei suoi sorrisi tristi.
Mia madre era di una magrezza fredda e sconcertante, ma quando mi stringevo a lei riuscivamo insieme a emanare un incredibile calore, che ci teneva a galla. Era mora come me, con due occhiaie profonde a contornarle gli occhi grandi e marroni da cucciola di cerbiatta: veniva voglia di proteggerla.
Nel quartiere ci conoscevano tutti, e tutti conoscevano mio padre, che non era amato da nessuno; ma nessuno ci aveva mai offerto aiuto. Erano altri tempi, si viveva chiusi nella propria casa e ciò che accadeva nell’ambito familiare era una faccenda rigorosamente privata. Nessuno osava interferire, ci si faceva gli affari propri, a parte poi le spettegolate, e certe occhiate di sottecchi che graffiavano più delle parole.
«Tra moglie e marito non mettere il dito», ce lo diceva anche il sacerdote, così restavamo da sole con le nostre paure.
Ingenuamente speravo che, isolandomi, mio padre non mi avrebbe mai notata. L’importante era non dare nell’occhio, non chiedere mai niente, non parlare ad alta voce, non fare capricci e non piangere. Per qualche oscuro motivo credevo che rifugiandomi nei miei specchi sarei risultata invisibile, magari mi sarei confusa con qualcuna delle mie immagini riflesse. Ma non era così.
Me ne accorsi un pomeriggio mentre danzavo alla Scala di Milano: ero un cigno sul lago.
Avevo l’influenza e mia madre era dovuta uscire di casa per andare in farmacia, mi avvisò prima dicendomi di stare buona, di non fare rumore, che sarebbe tornata subito.
Ebbi paura, poi mentre cercavo di ritrovare il filo della musica scorsi mio padre che mi spiava, in silenzio, dalla porta socchiusa, con uno sguardo sinistro che non scorderò mai più. Per la prima volta mi sentii una preda nel mirino del cacciatore, e feci l’unica cosa possibile: urlai e urlai, con tutta me stessa. Vidi il mio corpo cadere come il cigno morente, con la bocca spalancata, gli occhi semichiusi e schizzi d’acqua dappertutto, anche sugli specchi. Poi la sua mano mi serrò la bocca, e la sua voce roca mi sussurrò qualcosa di incomprensibile nelle orecchie. Armeggiò con il mio pigiama e mi lanciò sul lettone, io rimasi senza fiato, paralizzata per lo stupore. «Stai buona piccolina, è come un gioco, papà farà presto.»
Mi salvò mia madre attaccata al campanello del portone, che gridava dal pianerottolo: «Apri, apri bastardo!» la sua voce amplificata dalla tromba delle scale. Fu costretto a lasciarmi andare, a far entrare mia madre che ansimava, ferita a morte da quella rivelazione. Sconvolta mi strinsi a lei che tremava più di me. L’orco prese a urlare e la schiaffeggiò furente per poi uscire di casa sbattendo la porta.
Da quel giorno non sentii più la musica, avevo paura di quel mio grido che mi riecheggiava nelle orecchie. Stavo stretta alle gonne di mia madre che cercava ogni modo possibile per allontanarmi da lui: al doposcuola, all’oratorio, a giocare dalle amiche, giochi che non riuscivo ad amare. Spesso dormivo da mia nonna, ma non ero serena, pensavo ai miei cigni e al cacciatore, a mia madre sempre ferita. Se l’avesse uccisa? Chi l’avrebbe soccorsa? Come avrei fatto senza di lei?
Non danzavo da tempo e, quando ero in casa, mi sedevo su un cuscino davanti l’armadio, in silenzio, galleggiavo sul lago tra la nebbia intenta a spiare i rumori intorno. Era come una situazione di stallo, di attesa, e io aspettavo, con le orecchie tese al cacciatore, all’orco.
Poi un giorno la nostra vita cambiò. Ricordi nitidi che ho cercato inutilmente di cancellare.
La lampadina delle scale si era fulminata, abitavamo al quarto piano e per arrivare alla plafoniera bisognava piazzare una scala sul piccolo pianerottolo. Mio padre prese la scaletta di legno, anzi gliela porse mia madre, e lui ci salì sopra. Io spiavo senza vedere: dagli specchi.
«Aiutami cretina, reggimi la scala e passami la lampadina nuova.»
Poi il rumore e le urla.
Lei venne da me, sul lago, e mi disse a bassa voce: «E’ tutto finito amore mio, se ti chiedono qualcosa, chiunque ti faccia la domanda, quando tuo padre è caduto io ero qui con te, a giocare con i tuoi specchi.»
Annuii con la testa e mentre tutti di là gridavano io mi sentii affogare in quel lago nero. Quella fu l’ultima volta, credo, che mi sedetti lì davanti.
Fui contenta quando mia madre rinnovò la sua stanza da letto. Acquistò un enorme armadio a “quattro stagioni” con le ante scorrevoli, e un letto moderno con una radio incorporata dalla quale anche di notte sentivamo insieme la musica.

«Signora, posso aiutarla? E’ interessata a questo splendido armadio? Bella sensazione specchiarsi su tre lati vero?»
Mi ritrovo in un negozio di antiquariato, e mi accorgo di aver passato parecchio tempo qui davanti. La voce che mi disturba è quella del commesso. Mi scuoto e negli specchi non trovo una ragazzina ma una piacente donna quarantenne, con grandi occhi da cerbiatta, che si riflette all’infinito.
Scorgo le sue mille vite, quelle che avrebbe vissuto se suo padre fosse stato un brav’uomo, oppure se sua madre fosse rimasta uccisa sotto i suoi colpi, se quel giorno non fosse rientrata prima a casa, o se la lampadina del pianerottolo non si fosse fulminata. Ricaccio indietro un turbamento che non deve travolgermi.
Il commesso insiste: «Le piace quest’armadio?»
Mi giro verso di lui: un ragazzetto brufoloso e impacciato: «Effettivamente è magnifico, ne avevo uno da bambina. Devo essermi incantata a fissarlo.»
«Non si preoccupi signora, questi specchi fanno lo stesso effetto a chiunque ci passi davanti. Se potessero parlare…»
«No ragazzo mio, fortunatamente gli specchi non parlano.»
Vado via, lentamente, portandomi dentro le mie vite.