In cammino con Dersu Uzala

Il chiavistello del portoncino era bloccato dall’interno e Katrina non poteva entrare in casa.

Aveva provato a citofonare, bussare e telefonare per oltre un’ora ma il vecchio veterinario, rancoroso e burbero, non le aveva aperto e non le aveva risposto né al citofono e né al telefono.

L’errore di Katrina era stato quello di uscirsene di casa non appena il vecchio si era addormentato; pensò che non ci fosse nulla di grave a lasciarlo solo per andarsene al cineforum a vedersi Dersu Uzala, un film di Akira Kurosawa.

Quando Katrina vide la locandina al supermercato, decise che non doveva farsi sfuggire quell’occasione. Kurosawa aveva tratto il film da un libro che molti anni prima Katrina aveva letto più volte prendendolo in prestito dalla biblioteca pubblica e rimanendone affascinata.

Katrina non aveva chiesto il permesso di uscire per paura che il vecchio, sospettoso e sprezzante com’era, le opponesse un rifiuto; era quindi uscita a sua insaputa non appena si era addormentato. In fondo si trattava solo di assentarsi un paio d’ore mentre lui dormiva.

Il vecchio invece si era svegliato, l’aveva chiamata perché si era dimenticato di togliersi la dentiera, aveva scoperto che lei non era in casa, aveva sospettato che quella non fosse la prima volta, aveva sospettato che avesse una tresca, si era rabbuiato e ingelosito, era sceso giù, aveva bloccato il chiavistello e l’aveva chiusa fuori casa.

Dalla finestra al primo piano si vedeva la camera da letto illuminata dall’abat-jour. Le ombre si spostavano sui vetri rivelando che il vecchio era sveglio; non c’era quindi pericolo che dormisse e non sentisse il citofono o il cellulare. L’uomo si era solo intestardito a lasciarla fuori casa.

«Ed ora? Come farò ad uscire da questo incubo?» si chiese Katrina.

Lì ad Acquaviva delle Fonti non conosceva nessuno e, dopo oltre un’ora di tentativi per farsi aprire, non sapeva più cosa fare. Le domeniche era libera, se ne andava in treno fino a Grumo Appula per stare con l’amica Tania e questo era il motivo per il quale ad Acquaviva non conosceva ancora nessuno.

Il veterinario aveva un figlio che viveva a Bari e Katrina aveva il suo contatto; provò quindi volte a chiamarlo più volte ma quello non rispose.

Di chiamare il cugino che pochi mesi prima l’aveva aiutata a venire in Italia non ci pensava proprio. Era sangue del suo sangue, si era fidata di lui ciecamente ed invece quello stronzo le chiedeva un pizzo mensile di duecento euro; meno lo vedeva e meglio stava nonostante che se non fosse stato per lui sarebbe rimasta a patire in Moldavia.

L’unica altra persona alla quale Katrina si sentiva di poter chiedere aiuto era la sua amica Tania. Tania però era a Grumo ed oltretutto si era fatta quasi l’una di notte; che senso aveva chiamarla? L’avrebbe messa inutilmente in agitazione ben sapendo che in quel frangente Tania non avrebbe potuto aiutarla subito. Nonostante tutto decise di chiamarla per avere un po’ di conforto ma il telefonino, oramai scarico, si spense.

A quell’ora di notte le strade del paese erano deserte ed il silenzio era assoluto. A Katrina cominciarono a tremare le gambe e decise di andarsene in stazione per mettersi al riparo almeno dal freddo.

Arrivata in stazione non gli tremavano più le gambe ma tra mille pensieri e mille paure era in totale confusione. Ogni ragionamento sul da farsi era sconclusionato e non le forniva altra soluzione se non quella di starsene seduta in sala d’aspetto fino al mattino seguente.

Era arrabbiata con se stessa ma lo era ancora di più col mondo intero. Un mondo ingiusto che perdonava le peggiori nefandezze a tanti ma non perdonava la minima leggerezza ad altri. Non riusciva a capacitarsene e a calmarsi. Fuori faceva freddo ma si alzò, uscì e si diresse verso i binari.

A quell’ora di notte la stazione era deserta e illuminata non tanto dal giallognolo dei lampioni quanto dalla luna. L’aria era secca e fredda. La luna piena illuminava a giorno ogni cosa e rendeva azzurrino il cielo nitido, terso e stellato. I binari che si inoltravano sulla murgia si perdevano in lontananza nelle ombre e nelle macchie nere degli uliveti.

«Cosa accadrà ora?» si chiese.

Ad Acquaviva sentiva di essersi oramai bruciata e doveva quindi cercare il suo futuro altrove. Conosceva pochissime persone. La sola persona con la quale si era trovata a suo agio in Italia era Tania.

Tania aveva una storia simile alla sua. Nonostante la povertà e gli stenti, con grandi sacrifici erano riuscite entrambe a studiare. Condividevano una simile storia di istruzione e di interessi e condividevano la stessa passione per la letteratura russa. In Moldavia c’era però la fame, non c’era lavoro ed anche quando c’era non bastava a vivere decentemente. Lo stipendio di un’insegnante non arrivava ai trenta euro mensili e tutto sembrava paralizzato, fermo, senza vie di uscita e senza speranza. Fuggire, scappare, eclissarsi e sparire era l’univa via di uscita nonostante gli affetti e la bellezza della Moldavia. Occorreva emigrare per sé stessi, per i fratelli, per le sorelle e per i genitori che tanti sacrifici avevano fatto per farle studiare, e se emigrando fossero poi riuscite a mandare a casa solo cento euro al mese, le loro famiglie avrebbero tirato un sospiro di sollievo.

«Che fine farò? Il lavoro lo perderò quasi certamente e dovrò cercarmi un altro posto di badante fuori da Acquaviva, ma dove?».

Mentre afflitta e sconsolata era assorta in questi pensieri, Katrina mise un piede in fallo tra le pietre della massicciata e stava quasi per cadere. Ebbe un soprassalto, si guardò intorno e si rese conto che non solo stava camminando sui binari in direzione Grumo ma che stava già uscendo dall’abitato di Acquaviva. Il silenzio era tombale, il freddo era pungente ma la notte era splendida; con quella luna piena si poteva persino apprezzare il colore verde scuro degli ulivi circostanti.

Katrina si fermò, si chiese che cosa stesse combinando e la logica le intimò di tornarsene indietro. Si sentiva sola ed abbandonata da tutto e da tutti. Si chiese come mai si stesse comportando in quel modo e quale grave guaio avesse mai combinato per meritare tale punizione. Si convinse che non c’era una logica, che tutto era privo di senso e lentamente riprese a camminare verso Grumo invece di tornare indietro come invece la ragione le aveva appena intimato di fare.

Il film di Kurosawa era stato ancora più bello di quanto lei avesse mai potuto immaginare e ragionò che se Dersu Uzala, pur essendo oramai vecchio, era stato in grado di salvare sé stesso e il suo capo dal gelo mortale della taiga, lei, essendo ancora una trentacinquenne in buona salute, sarebbe certamente riuscita a vincere la sfida di arrivare a piedi fino a Grumo. Percorrere una ventina di chilometri di massicciata e traversine sul binario non sarebbe stata una passeggiata ma andare avanti era la sfida, l’avventura, il fascino, il coraggio, la voglia di farcela, di esplorare, di vivere, di continuare a sperare, di raggiungere Tania, di provare a vincere il conforto del suo abbraccio, del calore della sua amicizia. Impegnarsi in quell’impresa era un modo per non fissarsi sul mondo che le stava cadendo addosso. Sentiva l’esigenza di scaricare la tensione e sprigionare l’energia carcerata e repressa che aveva in corpo. In quel frangente sentiva che tornare indietro significava perdere, rassegnarsi, stiracchiare, seppellirsi, morire. Dersu Uzala, il suo immenso cuore, la sua luce e il suo coraggio la incitavano alla sfida.

«Sono qui, sono accanto a te, ti seguo, conosci le mie imprese, prendi esempio da me, vediamo se tu sei almeno capace di raggiungere Grumo a piedi» la sfidò sorridendo Dersu Uzala col suo cuore di vecchio leone saggio e gentile.

Katrina ebbe un attimo di lucidità e si chiese che senso avesse quella sfida strampalata che le balenava in mente. Lo sconvolgimento, l’abbattimento e la tristezza erano però tali che non c’era lucidità e ragione che potesse prevalere: il cuore la spingeva in quella direzione ed in quella direzione andò. Iniziò quindi a camminare di buona lena provando a non pensare più a niente se non a dove metteva i piedi. La luna le illuminava il passo, Dersu Uzala la circondava e a Grumo avrebbe trovato il caldo di Tania.

Si mise di impegno, si concentrò solo sulla camminata e fece attenzione a non prendere storte.

Camminando alzava ogni tanto lo sguardo dalla massicciata che andava pian piano divorando e quando lo faceva aveva l’impressione di vedere qualcosa che si muoveva nella campagna. Qualcosa faceva capolino da dietro i tronchi degli alberi o da dietro le fronde degli ulivi. «Elfi, gnomi, maghi, streghe, fate, draghi, folletti» pensava tornando timorosa a concentrarsi sulla massicciata.

«Sono le creature della campagna. Volpi, uccelli, lepri, lucertole, scoiattoli, topi, serpi, faine. Si svegliano per guardarti, ti seguono, danzano, ti spiano, fanno il tifo per te, non ti preoccupare» le diceva Dersu.

Dopo due o tre ore di camminata sullo sconnesso notò i primi baluginii dell’aurora; pur essendo ben sveglia e un po’ ansimante, fu come se si svegliasse da un lungo sonno e provò una sensazione di caldo. La notte stava arrivando al capolinea.

Nella mezz’ora successiva, stanca e distratta dai colori e dal paesaggio che l’aurora e l’alba andavano dipingendo tutto intorno, rischiò più volte di prendere storte e cadere.

Quando verso le marine ad oriente cominciò a sorgere il sole, sentì vibrare i binari e vide in lontananza un treno che gli veniva incontro. Si fermò, guardò incantata il panorama per cinque secondi, scese dalla massicciata ed andò a mettersi dietro al tronco di un ulivo facendo attenzione a non farsi male in una rada sterpaglia ricoperta da leggere ragnatele che brillavano di brina.

Il cuore le batteva forte mentre il rumore del treno aumentava.

Si trattava di una motrice e due soli vagoni. Il treno passò sferragliando fragorosamente e quando il rumore si attenuò, Katrina tornò sul binario, riguardò il panorama, sospirò profondamente e ricominciò a camminare alacremente volgendo ogni tanto lo sguardo verso Est dove il sole continuava a prendere forma sull’orizzonte. In quei minuti la murgia era diventata un paesaggio diafano, rarefatto, fatato. Pensò che poteva crollare tutto e poteva andare tutto in malora ma che valeva comunque la pena di lottare per risorgere da ogni sconfitta e da ogni fallimento al puro scopo di continuare a godersi la bellezza della natura.

«Hai coraggio. Avanti così e vincerai» la incitò Dersu Uzala.

Cominciavano a intravedersi le prime case e, superato un lunghissimo curvone, vide in lontananza la stazione di Grumo. Quando ad occhio e croce mancavano un paio di chilometri per arrivarci, Katrina cominciò a rincuorarsi, a rilassarsi e a rallentare il passo.

Mentre si chiedeva che cosa avrebbe fatto una volta arrivata in stazione, vide una sedia abbandonata sul terreno accanto alla massicciata. Si fermò per osservarla meglio e si accorse di averla già vista. Si trattava di una di quelle sedie sulle quali lei e Tania si erano sedute più volte negli ultimi mesi. Sedute su sedie uguali a quella lei e Tania avevano chiacchierato molte volte e preso il caffè al bar della stazione di Grumo. Si chiese come mai quella sedia fosse finita lì e pensò che forse qualche squinternato aveva provato a portarsela via dal bar per poi abbandonarla chissà per quale motivo.

Si caricò la sedia in spalla, riprese a camminare sul binario e lasciò la sedia sul selciato prima di entrare nel corpo centrale della stazione. Di problemi ne aveva fin troppi e non voleva essere sospettata di essere stata lei ad aver sottratto la sedia dal bar.

Erano oramai le sette di mattina.

«Ce l’ho fatta, caro Dersu. Grazie per la compagnia» pensò.

Andò nella toilette, fece le sue cose, si lavò le mani, si rinfrescò il viso, andò al bar, chiese un bicchiere d’acqua, un cappuccino ed un cornetto alla crema ed andò a sedersi ad un tavolino.

Era sfinita, stanca, abbattuta e con i piedi doloranti ma aveva vinto la sfida che, pensando a Dersu Uzala, aveva lanciato a sé stessa. Considerò però che le difficoltà affrontate e vinte da quel vecchio leone furono cento volte superiori.

Lei doveva ora capire come uscire dal casino in cui si era cacciata e adesso era questa la vera sfida da affrontare e vincere.

Voleva innanzi tutto incontrare Tania ma aveva il telefonino scarico e non poteva telefonarle. Quando il barista le portò la colazione al tavolino, Katrina ne approfittò per spiegargli che aveva urgente bisogno di fare una telefonata ma che il suo telefonino era scarico. Il barista le chiese il telefonino e le disse che ci avrebbe pensato lui a metterglielo sotto carica.

Tirò un sospiro di sollievo.

Fece colazione con calma e quando andò a pagare chiese se poteva già usare il suo telefonino.

Il barista la invitò ad andare dietro al bancone e le indicò il telefonino. Mantenendo il telefonino sotto carica, lo accese e vide subito che il figlio del veterinario l’aveva chiamata verso le sei e mezza. Lo richiamò e gli spiegò animatamente la situazione chiedendo più volte scusa per la leggerezza che aveva commesso.

Il figlio del veterinario si dichiarò seccato per quanto era accaduto ma, sentendola dispiaciuta, pentita e disperata, si dimostrò disponibile a rimediare e la tranquillizzò. Aveva già parlato con suo padre ed era molto preoccupato per il fatto che era rimasto da solo.

Rimasero d’accordo che verso mezzogiorno sarebbe venuto lui di persona a Grumo a prenderla dal bar per riportarla a casa.

Katrina, accaldata, col viso in fiamme e un po’ tremante, chiuse la chiamata ed ebbe la netta sensazione di uscire da un incubo. Alzò lo sguardo verso l’alto e ringraziò il cielo ad alta voce sotto gli occhi del barista che, suo malgrado, aveva ascoltato ogni cosa.

Katrina chiamò subito Tania.

Dopo mezz’ora Katrina e Tania si incontrarono lì al bar. Appena si videro, piansero, si abbracciarono a lungo e poi si sedettero al tavolino, si asciugarono le lacrime e cominciarono a parlottare animatamente.

Dopo una decina di minuti il barista le interruppe appoggiando sul loro tavolino un vassoio con due dolci e due calici contenenti un liquido color oro.

«Bocconotti e moscato dolce di Trani» disse.

Lo guardarono meravigliate e gli dissero di non aver ordinato niente.

«Fate festa, vi prego. Offre la casa» disse l’uomo.

Si guardarono stupite, sorrisero e chiesero il motivo di quel gesto.

«Non lo so. Viva la Romania!» rispose l’uomo allontanandosi senza girarsi.

«Ma noi siamo della Moldavia!» esclamò Tania.

«Ah sì? Uh, scusate! E allora… viva le fate!».

Le donne si guardarono per una frazione di secondo, scoppiarono a ridere e ringraziarono di cuore.

«Lo sai che ero con uno questa notte?» disse Katrina gustando il suo bocconotto.

«Ma dai! E con chi saresti stata?» chiese scettica Tania.

«Dersu Uzala» rispose seria Katrina.

Tania, con le labbra sporche di molliche, smise di masticare e rimase a bocca aperta.

«Ma chi? Il vecchio cacciatore? Oh mamma! Ma che meraviglia! Racconta, dai!» chiese Tania con gli occhi che le brillarono.

RP 03/11/2018, revisione del 27/11/2020