Sta piovendo. Una pioggia estiva di lacrime calde. Come un abbraccio scivoloso, come il bacio umido di un bambino. Il bacio di mia figlia, accompagnato dal calore del suo corpo tondo, pieno, tenero e tornito, da tenere e respirare. Mia figlia con i capelli profumati di pioggia. Mia figlia che mi ama di quell’amore irruento che quasi strappa, e rimodella e gonfia il petto.
Io e mia madre. All’età di mia figlia aggredivo mia madre con lo stesso amore rapace.
Perdevo la mia mano, estasiata, trai suoi ricci fitti e neri e ne riconoscevo l’odore tra mille.
Lo stesso balsamo che poi indugiava nei foulard che mi trasformavano in lei, davanti allo specchio dell’immaginazione. E perdevo i piedi in scarpe femminili dal tacco fino, procedendo incerta ciabattando, come forse farei ora se ci riprovassi.
Mia madre in realtà era poco meno di una bambina ed io non ne avevo cognizione. Mi sembrava una mamma come le altre, solo più dolce e più bella. Come lo sono tutte le mamme per i propri figli. Ma lei lo era davvero.
Sognavo di essere anche io così. E invece alle elementari divenni una postina. Con il mal digerito compito di recapitarle missive d’amore dei miei compagnetti folgorati. Lei allora rivolgeva al mio muso imbronciato il suo sguardo pieno di ciglia, con quel sorriso carnoso di denti bianchi e perfetti, e mi faceva intendere che il suo amore era per me, di stare tranquilla, che un giorno sarei diventata anche io una principessa incantevole. Ed io ci speravo davvero che un giorno, insieme alle sue scarpe, avrei indossate anche quelle ciglia, quei denti e quelle mani sottili e curate.
Non ero tranquilla, non chiedetemi per quale ragione, ma avevo un peso nel cuore, che tanta bellezza mi pareva caduca. Come fosse un angelo di passaggio. Una fata dei sogni pronta a spiccare il volo. Eterea e fragile. Mi chiedo se questa sensazione sia stata solo mia o ci accomuni tutti. Perderla a quell’età… credo sia davvero uno strappo troppo difficile da rimarginare.
Di mia madre capivo al volo i moti dell’anima e quando dicevo la mia, solo su opportuna richiesta, mostravo di comprendere ogni cosa, senza bisogno di spiegazioni. Matura e comprensiva. Ero come una vecchia quercia saggia. In miniatura. Seria e silenziosa scrutavo il mondo e ne sintetizzavo gli insegnamenti. Giocavo sola ore ed ore nei miei mondi inventati, in cui potevo essere proprio come lei. Ma ero in parte differente e il tempo lo dimostrava.
Tanto lei era precisa e organizzata, quanto io ero una generatrice di caos a piacere. Tanto lei era curata nell’aspetto e nel portamento, quanto io mi arruffavo in maglioni taglia XXL.
Lei si arrabbiava varcando con difficoltà la soglia della mia stanza, sommersa di oggetti sparsi alla rinfusa, condizione nella quale io mi trovavo perfettamente a mio agio. Ma mi perdonava subito.
Una volta, che dissimulai il disordine contenendolo tutto in un solo armadio, lei fece l’errore di aprirlo e restò sommersa da una valanga di indumenti.
Quando riuscimmo ad estrarla incolume, si fece beccare. Stava ridendo.
Mi muovevo bene tra le intricate dinamiche famigliari di figlia di genitori separati. Sapevo come trattare con ogni membro della mia vasta famiglia. Cercando di non ferire mai nessuno, di equilibrare le azioni di riguardo da dispensare ad ognuni. Ma con lei potevo agire serena. Lei sapeva ed io sapevo che lei sapeva.
Su una cosa però mi ero sbagliata, forse per eccesso di amore. Mia mia madre per fortuna non era fragile. Forse giovane, ma pronta a far tesoro dei suoi errori. E ce ne sono stati per carità, ma riscattati puntualmente da grandi traguardi. Come l’amore di Pino, che ha riempito le nostre vite di valori, poesia, allegria, sagacia, tonnellate di libri e ottimo risotto al radicchio. Ci ha restituito la gioia di essere nel quotidiano una famiglia fin dal nostro primo incontro, quando in una tavolata di colleghi lui preferì, ai panegirici professionali, il parlare con me decenne per tutto il tempo, chiarendo subito al mondo che io ero importante quanto e più di loro. Lo dimostra la mia presenza giallo canarino in ogni foto del loro matrimonio.
Io e mamma siamo cresciute insieme, simbiotiche e differenti, autonome ma connesse, conquistando a poco a poco i nostri spazi e i nostri mondi. Soprattutto lei. Che con le sue sole forze faceva strada, rispettata e rimpianta quando cambiava per migliori opportunità professionali. Tanto era capace, che nonostante l’innegabile avvenenza solo le bocche degli stolti – ma quelli non mancano mai purtroppo – sono riuscite ad alludere, non trovando accoglienza alcuna, che avesse utilizzato qualcosa di differente rispetto a dedizione, studio e cervello per procedere in un mondo di uomini.
Mi osservava crescere ed interveniva di rado. Solo quando mi vedeva prendere troppo il largo tentava deboli richiami per deviare il mio cammino. A volte Pino ha dovuto farle notare che ero diventata una donna, che dovevo fare da sola le mie scelte e lei doveva accettarle, anche se qualche volta la vita poteva portarmi lontano. Spero davvero che mio marito sia altrettanto capace di farmi notare quando sarà il mio turno, che sarà giunto il momento di lasciare andare. Che vedo madri far danni a volte, anche per troppo amore.
Non la mia. Il nostro rapporto non è fatto di vicinanza fisica, non ci sentiamo ogni giorno, ma la continuità del nostro legame non ne risulta alterata.
Io non ho mai imparato a camminare sui tacchi, né a passare lo smalto, specie con la mano sinistra, che mia madre usa leggiadra, come fosse la destra. Io posseggo quell’arto per una mera questione di estetica e simmetria.
Ma, come lei, oggi ho una famiglia splendida e sempre troppi progetti ad invadermi i pensieri.
Ci sono rari momenti in cui ci concediamo una sosta, e ci fermiamo a chiacchierare come due care amiche, beviamo una birra, raccontiamo e ricordiamo. Lei mi coccola ancora ed usa gli stessi vezzeggiativi di sempre. Quando lo fa non posso non pensare che tutte le mamme dovrebbero, perché è qualcosa che rimette in pace con il mondo.
Quando questi momenti capitano, le sue ciglia lunghe si fermano a scovare la bambina di un tempo nei miei occhi allungati. Le sue mani mi accarezzano ancora il viso, appena un po’ meno sottili, ma oggi più calde di presenza concreta.
I nostri sorrisi e i nostri sguardi sono spesso rivolti insieme ad osservare il nostro futuro, commosse. Un futuro dalle ciglia lunghe e dai denti perfetti. La nostra storia che continua, munita di piccole e morbide dita, che si immergono avide nei miei ricci fitti e neri, un futuro dall’olfatto fine, capace fin da subito di riconoscere la somiglianza del mio e del suo odore.