Prologo.
Erano fratelli. Non nel senso biologico della parola, ma nella dimensione più profonda, non immediatamente percepibile da agenti esterni, non intuibile con l’umano talento del comprendere qualcosa senza le sufficienti informazioni. Erano diversi ed uguali, ed alle volte, in intimità, era possibile vedere l’invisibile legame che li univa, come una corrente d’aria che lambiva i loro volti senza toccarli.
Uno era straidato su un letto d’ospedale, l’altro seduto a fianco. Sorridevano stancamente a turno, come a darsi il cambio in una ciclistica fuga in salita, l’inseguitore e la lepre che giocano a cedere all’altro il proprio ruolo per esser certi di arrivare al traguardo. C’era qualcosa di speciale negli occhi di entrambi, forse un consapevole momento di non ripetibilità. Come la vita. O la vita che se ne va.
Uno stava morendo, l’altro gli era accanto, pensando…
L’incontro.
Giacomo era un ragazzino introverso, pelle e ossa, carnagione chiaropallida, la tendenza a virare lo sguardo verso il basso e l’abitudine di schiarirsi la gola quando doveva dire qualcosa, anche di non importante. I genitori si erano separati l’anno prima, e viveva con la mamma, seguendola nel trasferimento ad un altro capoluogo dove avevano altre abitazioni, altri accenti, altre usanze. Era una strana giornata di autunno: vento tiepido ma atmosfera che lasciava presagire l’arrivo del rigore invernale come imminente. Giacomo si stava avviando al suo primo giorno nella nuova scuola, nella nuova città, nella nuova vita – con l’anno scolastico già iniziato, la città ben avviata, e la vita intorno a lui che correva senza ansimare.
Bussò alla porta semitrasparente della classe, causando un silenzio insopportabile e la magnetizzazione di tutti gli sguardi ostili degli studenti seduti sui banchi. Aspettò l’assenso della professoressa ed entrò piano, cercando di non sprofondare nella vergogna e nel fastidio di essere guardato ortogonalmente da quegli occhi senza colore e senza una curiosità sana. La voce della prof che scandiva il suo nome alla funerea audience era di carta vetrata, a grana grossa, e Giacomo – in quel preciso momento – sperò di scomparire. O almeno di essere ossidoridotto a livello subatomico. L’ossidoriduzione attraverso radioestesia – puntualmente – non si verificò, e Giacomo venne accompagnato dalla voce abrasiva al suo banco. Giacomo sedette, guardò a sinistra, a destra, controllando gli sguardi cinerei che man mano si spegnevano, e ricominciò a respirare.
“Ciao. Sono Alfredo Quattordici”
Non aveva notato la presenza al suo banco. Non aveva notato che i banchi erano per due persone. Girò la testa verso la voce, ed ammutolì, lasciando le labbra schiuse per diversi millimetri. Era un ragazzino come lui, ma era… diverso. Aveva la pelle scura, con qualche riflesso metallico, un vestito strano, due occhi profondi e grandi. Non aveva capelli. E sorrideva.
Oh capperi.
Giacomo sapeva benissimo cos’era un androide, anche se non ne aveva mai visto uno. Finora.
Giacomo cercò di ricambiare il sorriso alla meglio. Era stato il primo sorriso che aveva ricevuto da quando si era trasferito nel nuovo capoluogo, ed il sorriso di ritorno che aveva prodotto non si era rivelato un gran che. Il microdubbio lo rose scatenando la reazione incontrollata della mano nella tasca alla ricerca di qualcosa, un pegno da lasciare al ragazzino che l’aveva salutato per primo, vista la sua cronica manchevolezza con il parlato. Estrasse dalla tasca una pallina di acciaio, di quelle per costruire le forme geometriche. Pensò che come pegno iniziale di una amicizia robotica fosse veramente un disastro di irriverenza, ma in tasca aveva null’altro e non poteva far passare il momento. Alzò le sopracciglia due volte, e passò la pallina nelle mani – perfette – dell’altro, che prima lo guardò grato e incuriosito, e poi posizionò lo sguardo sulla pallina come se fosse il Koh-I-Noor. Il resto della lezione di quel giorno, per i due, passò senza importanza, tra le occhiatacce dei lugubri che lampeggiavano ad intermittenza.
L’amicizia.
Alfredo Quattordici venne a sapere parecchie cose su Giacomo e sul posto da dove veniva. Il padre di Giacomo era un Ingegnere che costruiva palazzi, e la mamma invece una Biomeccanica. Quando i suoi tornavano dal lavoro, la sera, litigavano fino all’ora di andare a letto. O almeno, Giacomo li sentiva in blatero fino al tocco di Morfeo. La situazione si trascinò per diverso tempo, e forzò la naturale pigrizia di Giacomo a cercare una ragione per rimanere, almeno qualche ora, fuori di casa quando gli strombazzanti rientravano dalle loro occupazioni. E questa ragione era ancora da trovare, ora che il papà e la mamma avevano deciso di percorrere due strade separate.
Anche Giacomo imparò parecchie cose da Alfredo Quattordici. La sua pelle era un composto di titanio, ed il numero dopo il nome era una convenzione imposta dalla legge. Ogni dodici mesi doveva rientrare – per una settimana – in un Centro Specializzato per il Cambiamento, dove veniva applicata una procedura che adeguava il suo corpo all’età anagrafica. Non mangiava, ma poteva apprendere. Era guardato malissimo dai suoi coetanei e generalmente osteggiato quasi apertamente (i movimenti per i diritti dei Pensanti sarebbero pienamente maturati solo cinquant’anni dopo), ma nessuno osava toccarlo per paura della sua forza e resistenza fisica. Era stato adottato dai suoi genitori perché non potevano avere figli, e legalmente inserito nella nuova famiglia tramite regolare richiesta all’Anonima Adozioni Androidi.
Erano una strana coppia di ragazzini, che passavano molto tempo insieme, che alle volte non parlavano, e che venivano costantemente sbeffeggiati dalla comunità studentesca con vari epiteti, da ‘Carne con Scatola’ a ‘gli RH Negativo’. Alfredo Quattordici ne soffriva un po’, ma non lo faceva vedere. Giacomo ne soffriva un po’, ma non riusciva a nasconderlo. Spesso li vedevi passeggiare sulla camminata del laghetto vicino al centro residenziale, giocando a far rimbalzare i sassi come ranocchie o sdraiati sull’erba a lasciar passare il tempo raccontando sogni e speranze. Altre volte prendevano la Sotterranea e si recavano alla Vecchia Città, anche in zone non propriamente tranquille, Giacomo poteva contare sulla possanza fisica di Alfredo Quattordici, e Alfredo Quattordici sulla silente sagacia di Giacomo.
E proprio durante una di queste gite clandestine scoprirono un parco ben curato ed una palestra piccola, non pulitissima e tappezzata di vecchie fotografie, abitata da un Maestro, vecchio campione, che sarebbero diventati i luoghi dove trascorrere il tempo una volta finite le lezioni.
L’adolescenza.
Il tempo scorreva al ritmo dei Cambiamenti di Alfredo Quattordici ed alle alterazioni tricologiche di Giacomo. Alfredo Quattordici era molto bravo nella coordinazione e nella riproduzione dei movimenti del corpo, che cercava di insegnare a Giacomo. Giacomo era portato per la letteratura e le scienze, e si rendeva disponibile alle ripetizioni per Alfredo Quattordici. Avevano stretto un patto: l’uno doveva aiutare l’altro a superare le proprie difficoltà e debolezze nell’area in cui l’altro dimostrava eccellenza e talento.
Al parco, nelle giornate di sole, Alfredo Quattordici seguiva Giacomo nei suoi voli di fantasia e nei suoi giochi di rime.
“Cosa devo scrivere?” chiedeva Alfredo Quattordici.
“Non pensare a cosa devi scrivere, pensa a cosa vuoi scrivere.” ribatteva Giacomo.
“Vorrei scrivere il silenzio, e la natura.”.
“Ottimo. Fai danzare le parole, cercale fino a che non si muovono come un corpo di ballo.”.
“Vediamo… Inseguo il silenzio e lui fugge via”.
“Bene. Bella frase. Cosa ti viene in mente per accompagnarla?”
“Devo fare la rima con via…”
“Daaaai. Non devi farlo innaturalmente. Se la rima viene, lasciala, ma se la cerchi non la troverai.”.
“Tra gli alberi corre, nel vento si perde”.
“Buona, ma puoi migliorarla.”.
“Come?”.
“Cerca di descrivere meno, e di sentire di più. Cosa vuoi dire veramente?”.
“Che cammino tra gli alberi e il silenzio mi fa paura, ed allo stesso tempo… è bello.”.
“Ci sei vicino.”.
“Inseguo il silenzio, si perde nel vento
Il tempo tra gli alberi, cammina lento”
Giacomo sorrise. “Hai visto. Hai scritto una rima. Come ti è venuta?”
“Non lo so.”.
“Ecco perchè l’hai scritta. E’ la rima che ha cercato te, e non viceversa.”.
Alfredo Quattordici sorrise, ed abbracciò Giacomo con lo sguardo.
Nella palestra del vecchio campione, quando pioveva, Giacomo seguiva Alfredo Quattordici nelle sue perfette rappresentazioni dei movimenti che aveva copiato guardando il vecchio maestro nei suoi allenamenti pomeridiani. Giacomo guardava Alfredo Quattordici rappresentare le figure con la stessa aria assorta e rapita che Alfredo Quattordici assumeva quando Giacomo cantava i suoi versi. Alfredo Quattordici cantava la poesia del corpo con naturalezza, senza balbettii o indecisioni.
Alfredo Quattordici e Giacomo erano appaiati: uno proponeva una serie di movimenti di braccia, gambe e corpo in sequenza, e l’altro cercava di replicarli.
Alfredo Quattordici annunciò la sequenza, che eseguì subito dopo.
“Guardia sinistra, Calcio circolare basso sinistro, Pugno sinistro, Gancio Destro, Piccolo Montante sinistro.”.
Giacomo riprodusse la sequenza, aspettando le indicazioni di Alfredo Quattordici.
Alfredo Quattordici, con voce bassa, iniziò il commento.
“Hai sbagliato la posizione di guardia, le gambe devono essere leggermente piegate – come molle pronte a scattare. Il calcio circolare non era abbastanza… circolare, devi ruotare prima il piede e la gamba opposta e poi, con tutto il corpo, girare l’altra gamba cercando l’impatto in una zona che è circa dieci centimetri sotto il ginocchio. Hai eseguito le tecniche di braccia senza movimenti di anca e spalla, mancando il bersaglio e, nel caso del Piccolo Montante sinistro, la zona che hai colpito era molto più alta, quindi la tecnica si è dimostrata inefficace e…”.
Alfredo Quattordici si interruppe, era entrato il Maestro.
Il Maestro si avvicinò quasi levitando sul pavimento, guardò prima Giacomo, poi Alfredo Quattordici, e tra il bonario ed l’ironico disse “E’ arrivato un altro Maestro”. L’altezza (percepita) dei due ragazzi raggiunse il livello del tatami, salutarono mogi il Maestro e si misero a disposizione nel lato in cui gli studenti usualmente studiavano forme e movimenti.
La vita amorosa di Giacomo non era costellata di successi. Alfredo Quattordici aveva chiaramente percepito l’interesse di Giacomo per una brunetta vestita di scuro, che evitava accuratamente ogni possibile occhiata, dedicandosi invece a ricevere e rimandare guardatine a fusti delle classi superiori. Altrettanto chiaramente aveva percepito un’adorazione sfrenata, nei confronti di Giacomo, da parte di una ragazzina meno appariscente, con occhiali al seguito, che Giacomo ignorava (o meglio, faceva finta di ignorare). Questa storia dell’amore e delle infatuazioni monodirezionali occupò i cicli macchina di Alfredo Quattordici per molto tempo, senza soddisfare la sua curiosità o arrivare ad una plausibile spiegazione.
La vita sociale di Alfredo Quattordici non era costellata di successi. Giacomo percepiva ostilità e pregiudizio nei confronti di Alfredo Quattordici, che gli rimanevano attaccati come una visibile aura anche quando era solo. Gli androidi venivano visti – in essenza – come un male necessario, una rappresentazione dell’uomo quando l’uomo non era disponibile. Un sostituto. Giacomo pensava sinceramente che Alfredo Quattordici avesse qualità e sensibilità non comuni anche nel genere organico, e che la loro differenza strutturale non avrebbe mai messo a repentaglio una vera amicizia. Più Alfredo Quattordici veniva sottoposto ad ostracismo, più il legame con lui acquistava forza e resistenza all’altrui imbecillità.
L’età adulta.
Giacomo diventò un Biomeccanico, come sua madre, e data l’enorme richiesta di personale specializzato trovò lavoro quasi immediatamente in una multinazionale che costruiva parti di ricambio e software per uomini in età avanzata, lavorando nel reparto di ricerca e sviluppo.
Alfredo Quattordici diventò personal trainer, e riuscì ad agganciare il filone delle attrici famose in OloTV, che consideravano gli androidi come l’unione – ideale – tra una guardia del corpo e un istruttore con un talento speciale per potenziare corpo e psiche.
Non riuscivano ad incontrarsi tutti i giorni, anche se lavoravano nella stessa città, ma avevano mantenuto la vecchia abitudine di incontrarsi al parco per comporre sonetti (se splendeva il sole) o nella vecchia, polverosa, indimenticabile e romantica palestra a far flessioni e sentire i suggerimenti del Maestro, sempre arzillo ma accompagnato da un bastone di legno non lavorato su cui poggiava i combattimenti vissuti ed accumulati durante gli anni.
Intorno al trentunesimo Cambiamento di Alfredo Quattordici, in un pomeriggio di sole nel parco, Giacomo iniziò ad inventare e declamare un sonetto che parlava di un incontro casuale, di batticuore ed inappetenza, di fiori regalati e voglia di urlare felicità al mondo. Alfredo Quattordici non aveva mai provato sensazioni simili, ma aveva capito che Giacomo era innamorato. Si fermò, i grandi occhi aperti che fissavano lo spazio avanti a sé, ed iniziò a sussultare impercettibilmente. Giacomo, a sua volta, capì che Alfredo Quattordici stava piangendo. Di gioia.
Un paio di Cambiamenti dopo Giacomo e la compagna ebbero la fortuna di avere un figlio, maschio. Giacomo non ebbe il minimo dubbio sul nome: sarebbe stato quello del suo Amico della vita, senza il numero che continuava a rinchiudere suo Fratello nella schiera dei quasi uomini. Il piccolo Alfredo non divenne solo la luce di Giacomo e signora, ma anche quella dell’androide che figli non poteva avere.
Gli incontri al parco e nella piccola palestra continuarono, in tre.
Tempo dopo, durante un’estate particolarmente calda, Alfredo Quattordici iniziò a manifestare qualche anomalia. Non riusciva ad esprimersi correttamente, soffriva di balbuzie, rimaneva fermo e silente più della sua abituale ed inorganica flemma.
“Dovresti farti visitare.”.
“D-d-da-a chi? Il mio progetto è sta-a-a-a-to abbandonato….” lunga pausa ” dieci anni fà.”.
“Proverò a vedere in azienda, facciamo tanto per gli uomini attraverso componenti robotiche, potremmo aver fatto qualcosa per gli androidi attraverso parti organiche.” cercò di farsi coraggio Giacomo, ma la sua voce era traballante, senza cognizione nè convinzione, sospettando qualcosa di serio.
I sospetti di Giacomo furono confermati da uno specialista: Alfredo Quattordici aveva raggiunto uno stadio in cui ogni Cambiamento poteva essere fatale. Il suo involucro non poteva più essere cambiato, ed allo stesso tempo l’involucro stava causando la degradazione o la perdita delle funzionalità più elevate. Le sue investigazioni in azienda diedero esito negativo: tutti i capitali per la ricerca e sviluppo venivano indirizzati per la sostituzione di parti organiche con componenti biomeccaniche, e non viceversa.
Alfredo Quattordici stava morendo.
Epilogo.
… a tutti quegli anni passati insieme, e al significato della parola fratello.
Giacomo sedeva, e non riusciva a smettere di sorridere, e di piangere. Non c’era bisogno di questo, per scoprire cos’è un fratello. Non c’è bisogno di perderlo, per capire affetto, amore, rispetto. Avrebbe voluto esser lui, un organico, su quel letto, al suo posto.
Alfredo Quattordici schiuse le labbra, a fatica.
“Vivi … ama per me, fratello”.
Cercò la mano di Giacomo, e gli passò l’oggetto che aveva custodito, con robotica cura, per tutto l’arco della sua vita: una piccola sfera d’acciaio, il pegno dell’amicizia che neanche la morte riesce a scalfire.