Era domenica per me perché vedevo Laura passare sulla sua piccola barca a vela. Le mie domeniche avevano preso il sapore dell’attesa mentre credo che lei invece non mi abbia mai notato. Lo spero ma non lo credo. Mi voglio illudere o semplicemente non voglio perdere l’illusione, nonostante abbia già perso fiducia nella speranza. Chissà. Credere e sperare sono due tipi di sospensione delle emozioni differenti. Nella prima c’è una certezza che ti rende più consapevole ed in questo particolare caso meno solo. Nello sperare c’è una vacuità che mi ha stancato, stufato, esasperato. Si dice che la speranza sia l’ultima a morire, ma nessuno conta le vittime che miete prima di andarsene all’aldilà.
Osservavo Laura nei suoi volteggi dalla porta finestra della mia camera. Dal mio amato balcone posso permettermi la visuale di una buona porzione di lago, mentre dal lago ci vuole un occhio acuto per scorgere casa, perché semi coperta dagli alberi che si alzano dal bordo del viale. Una posizione strategica per spioni, quale mi sentivo io. Ma non la spiavo con intenti cattivi. Spiavo le emozioni che mi trasmetteva Laura quando ancora non ne conoscevo il nome. La sua sagoma era un tutt’uno con la sua barca a vela, e il loro incedere insieme mi faceva immaginare una vita oltre la mia casa, il mio balcone, il mio lago tanto amato, la mia solitudine. Con Laura da guardare mi sentivo meno solo.
Non so precisamente dire di che cosa mi sia innamorato quando, anni fa, ho comprato questo posto. Sì, ho comprato un posto, un luogo, un angolo dove sentirmi bene. E questo locus amoenus era un pacchetto completo composto dalla casa di un pescatore, la sua barca di legno sgarrupata, dal fondo piatto, abbandonata nella grande stanza a piano terra che adesso ho adibito a garage ed un molo, anch’esso in legno, talmente malandato da sembrare irrecuperabile. Sì, il mio posto era un com-posto. Forse senza almeno uno dei suoi elementi non sarei arrivato all’acquisto. Un composto di malinconia e voglia di tornare a vivere, quello stesso groviglio che sentivo in petto, ma anche un po’ più giù, nel calderone del mio stomaco dove non ci va solo il cibo ma anche delusioni, amori sfioriti, amori finiti, eccitazioni poi sfociate in bolle di sapone e chissà quant’altro, che a voler tirar fuori tutto ci vorrebbero mesi di pianti, e non ne ho voglia. Ho voglia di curare la malinconia e tornare a vivere.
Ero immerso in questa valanga di pensieri non chiari neanche a me e non ascoltavo veramente il geometra mentre cercava di convincermi a ricostruire il molo, per dare valore alla casa in caso di rivendita, diceva lui. Eppure l’ho fatto. Come ci si prende cura dei proprio acciacchi, ho deciso di prendermi cura degli acciacchi del mio composto. Quel molo mi affascinava e ho cominciato a sognare un futuro in cui avrei potuto imparare a pescare e ridar gloria alla vecchia barca del vecchio proprietario. Rinnovare una vecchia vita per ringiovanire la mia, insomma.
I sogni, solo quelli, mi hanno portato all’acquisto. Ho un unico rimpianto. Non ho mai ristrutturato la barca e quel che ne rimaneva è diventato tizzone per la stufa. Non che il fuoco non mi abbia donato momenti di placida malinconia, ma forse oggi almeno ci avrei provato a rincerottarla. Allora mi sono arreso a un’impresa che sembrava titanica. Ma allora non conoscevo Laura e il suo vento. Allora non avevo la spinta che hanno ora i miei sogni.
Laura e la sua barca, Laura e le mie domeniche, Laura e il suo vento in poppa che arrivavano fino a pochi metri dal mio molo per poi orzare e risalire il vento di bobina. Mi sfiorava quasi, Laura. Ed io potevo bearmi dei suoi movimenti lenti, precisi e sicuri. Non capivo niente di barche, di andature e di vento, allora, come non capisco niente di pattinaggio artistico ma non riesco mai a cambiare canale quando lo becco per caso. La coreografia di Laura, un ballo senza musica e senza tempo, mi faceva rimanere anche ore incantato. Laura era la parte mancante eppure presente del mio composto.
Sembrerà assurdo ammettere che non l’ho mai conosciuta. Conosco il suo nome e il suo sorriso, ma non ci siamo mai incontrati. O forse in qualche modo sì: io sul balcone della casa in cui ero trattenuto da una vita disordinata e noiosa, e lei a volteggiare e danzare nello specchio d’acqua e dei miei pensieri. Io, come la matrigna di Biancaneve, incantato da quello specchio a cui chiedevo ancora e ancora di mostrarmi lei. Io, che ho addirittura comprato un binocolo per vederla sorridere, per spiare la sua pace, dall’alto del mio tormento.
Da un punto di vista più elevato sembrano tutti sereni e felici. O forse quando tu non lo sei, è allora che tutti sembrano avere la chiave della serenità. La felicità è una questione di momenti, di attimi. La serenità è più continua. E se non posso aspirare alla felicità, mi illudevo che avrei preso da Laura la serenità.
Che Laura non fosse veramente felice non mi era mai venuto in mente fin quando non ha deciso di sparire e lasciare tutto. Lasciare me, le mie domeniche, il mio balcone, il mio binocolo, lasciare che il suo sorriso si dileguasse per ultimo dalla mia mente, come quello dello Stregatto in Alice nel paese delle Meraviglie, fin quando non credi che forse non sia mai esistito. Che sia una creazione della tua mente. Che fosse qualcosa di cui avevi talmente dannatamente bisogno da essertelo inventato.
Ma non mi sono inventato niente. Laura e il suo vento, Laura e il suo volteggio, Laura e il suo composto che ha dato senso al mio composto, nel lasciare tutto mi ha lasciato una lettera. Laura, che credevo non sapesse della mia esistenza, mi conosceva quanto io conoscevo lei. Poco e niente. Ma io c’ero per lei come lei c’era per me. Come? Non saprei dirlo. Come una speranza. Come un’illusione.
“Caro padrone del molo,
forse un giorno tornerò. Fino ad allora ti chiedo un gran favore: prenditi cura della mia barca. Fa che il tuo molo sia il suo porto. In quel piccolo molo dall’accesso nascosto so che potrà stare bene, cullata dalle onde del lago e dagli sguardi indiscreti. Anche se non mi conosci te lo chiedo col cuore. Chi ha ridato vita ad un molo acciaccato, può prendersi cura di una barca che ha scacciato via i pensieri di un cuore acciaccato.
Grazie, Laura”
In effetti il molo lo avevo fatto ricostruire proprio bene. Dava l’idea di solidità e sicurezza. Forse aveva ragione lei: ridar vita a qualcosa non sempre significa migliorarla. Io, spinto dal mio amore per il mio composto, spinto da desiderio di trovare un rifugio, avevo finito per costruire un solido rifugio anche per i sogni di qualcun altro. Lo avevo migliorato. Come Laura aveva migliorato me regalandomi la forza dei sogni.
Era stato Renzo, il postino, a consegnarmi la missiva. Il francobollo era stato la mancia elargitagli per quella commissione extralavorativa. A quella busta chiusa bianca, senza mittente o destinatario, aveva aggiunto solo poche altre parole: Laura era partita ma non sapeva per dove. Laura: quel sorriso da quel momento e per sempre aveva un nome. Non mi sono stupito che fosse quello il suo nome. Laura come l’aura che la segue e che la trattiene nella mia mente. Era come se lo avessi sempre saputo.
Ho chiesto aiuto in paese per spostare la sua barca dal porticciolo del comune al mio molo. Certo, non è stato facile dimostrare che fosse la proprietaria ad avermelo chiesto. Con me avevo solo quella breve lettera che comunque è stata il lasciapassare burocratico per esaudire il suo desiderio. Le persone sono più predisposte ad aiutarti e a chiudere un occhio quando si solleticano i sentimenti. E Laura era stata capace di solleticarne molti solo con poche parole.
La barca non ha danzato per quasi un mese. Laura non è tornata ed io non ho smesso di attenderla. Solo che adesso la aspetto danzando. Mi sono preso quindici giorni di ferie e mi sono iscritto a una scuola di vela sul lago. Sentivo che Laura non mi aveva affidato solo la sua barca, ma anche la vita che essa era capace di sprigionare.
Si tratta di un piccolo cabinato in vetroresina di cinque metri e mezzo. La targhetta in acciaio con i dati del cantiere di costruzione sostiene che sia una giovincella di 27 anni senza età. Sotto coperta non ho cambiato nulla. C’è ancora il libro che vi ho trovato, interrotto a pagina 87 e una foto di Laura, scattata chissà dove e chissà quando, anche lei senza età.
Con lei ho imparato a sentire la musica del vento e dell’acqua e più tardi ad accordare i miei pensieri alla giusta tonalità per divenire io stesso barca, acqua e vento. Non so se io abbia mai volteggiato, ma a modo mio ho danzato, dio se ho danzato. A volte un sensuale tango, altre un allegro can can, spesso un classico valzer.
Sono ormai passati anni dal giorno in cui ricevetti la lettera. Laura non è ancora tornata. Ma è come se da quella barca e dalla mia vita non se ne sia mai completamente andata. Lei e il suo composto, lei e il mio composto.
Ed ogni domenica, quando con il vento a poppa arrivo a pochi metri dal molo per poi orzare e risalire per fare un altro giro, alzo lo sguardo verso il mio balcone come a rivedere me che guarda lei. A volte mi sembra quasi di scorgere il riverbero della luce sulle lenti del mio binocolo. Mi confondo con Laura, tanto lei fa ormai parte di me. Chi ti insegna a danzare non ti lascia mai neanche negli assoli.
Finisce che faccio sempre un giro in più, quasi come per dare il tempo a Laura di raggiungere il molo, prendere la cima d’ormeggio e accogliermi con il suo indimenticabile sorriso mentre pronuncia quella singola e dolce parola: “Grazie”.
Grazie a te, Laura, che mi hai insegnato a danzare.