Pietre che spuntano dall’erba rada, bruciata dal freddo dell’inverno.
Pietre che feriscono, attraverso la suola logora degli scarponi.
Pietre a cui ti aggrappi per superare le creste del sentiero, quando s’inerpica ripido sulle colline e hai le mani impegnate dal bastone e dal fucile.
Si alza grigia l’alba qui sulle colline. La nebbia avvolge le montagne come un sudario, stillando gocce di pioggia sulla mantella che ci avvolge, mentre scrutiamo attenti i movimenti in fondo alla valle.
Sopra di noi un falco volteggia in silenzio. Lo guardo e mi domando cosa penserà di questo drappello di uomini insensati che hanno scelto di vivere e morire per un ideale che non è neanche loro, per delle idee che presto saranno tradite. Ma il falco non pensa, è questa la sua forza. Il falco osserva e non giudica.
I miei compagni stanno controllando le loro armi. Mi riscuoto e faccio anche io lo stesso. Tra poco, quando la luce sarà sufficiente e una parvenza di sole arriverà a sollevare la nebbia vedremo spuntare lungo quello stretto nastro di asfalto il convoglio di cui adesso udiamo soltanto il rumore.
Le nostre informazioni dicono che sono due o tre camion carichi di soldati e uno dove sono sistemati i prigionieri, e chi ce l’ha date ha rischiato la vita sua e della sua famiglia per questo: non dobbiamo fallire perché sappiamo bene a cosa portano queste escursioni mattutine dalla prigione, portano alla cava dove fanno le esecuzioni.
Una volta ho visto, da lontano, come fanno: allineano gli uomini contro la parete di pietra, le mani legate dietro la schiena. Non si curano neanche di bendarli. Poi tirano giù la mitragliatrice, la MG 42, la piazzano a una quindicina di metri di distanza, non perché sia questa la misura giusta ma perché è il limite dello spiazzo, e ad un ordine del Truppführer cominciano a sparare da destra verso sinistra, lentamente. Gli uomini cadono come birilli, o come giovani alberi tranciati dalla tempesta, poi l’ufficiale viene avanti a dare il colpo di grazia, uno per uno, alla testa.
Vedi il capo delle vittime sobbalzare, a volte uno schizzo di sangue o di cervello, se il colpo non è preciso, poi si avvicinano i soldati che gettano i corpi nella fossa comune e ci buttano sopra qualche palata di terra, giusto perché non comincino a puzzare, tanto non resteranno soli a lungo.
Questa volta non finirà così. Questa volta riusciremo a liberare i prigionieri e vendicare qualcuno dei nostri compagni. Ce lo siamo detti prima di partire e sembrava giunta finalmente l’ora della vendetta, ma più camminavamo per i monti, stanotte, e meno mi sembrava un buona idea, voglio dire, andare a cercarli.
Lo so che se non lo facciamo noi lo faranno loro, che nei rastrellamenti chi c’è c’è, ed è difficile scappare, ma andarseli a cercare… mi sembrava quasi di volere morire.
Forse i miei compagni pensano la stessa cosa, ma non lo danno a vedere. Non lo do a vedere neanche io mentre provo e riprovo il meccanismo del percussore e controllo che la bocca del fucile sia ben pulita, ma sto tremando.
Il compagno che è di vedetta torna indietro trafelato: stanno uscendo dalla nebbia!
L’istinto è di correre anche noi a vedere, ma non possiamo rischiare che un riflesso o un movimento ci tradisca, così è solo il nostro comandante e il suo vice che vanno e ritornano a riferire.
«Ragazzi» dice Aquila «sono tre camion e una macchina, quindi i prigionieri stanno in quello di mezzo. Stiamo attenti a non colpirlo ma tenete presente che ci saranno alcuni soldati anche lì».
Tutti annuiamo, adesso il piano è ben chiaro. Ad un paio di tornanti dalla cima, dove la strada è stretta e siamo appostati noi, un carro carico di fieno trainato da un bue ostruirà parzialmente la strada, costringendo i mezzi a fermarsi. Il comandante o qualche altro dalla macchina scenderà per farlo accostare e far passare i camion in sicurezza. Dentro al carro, sotto il fieno, ci sono Gino e Lamberto che staranno ad aspettare. Quando i mezzi saranno fermi noi concentriamo il fuoco sui carri con i soldati. Non dobbiamo farli scendere. Dall’altra parte della strada c’è il burrone, quindi non hanno scampo. Quando cominceremo a sparare i nostri compagni usciranno da sotto il fieno ed elimineranno quelli della macchina e più soldati che possono, sparando da dietro i sacchi di sabbia. Tutto previsto, tutto facile, a parole.
Il rumore si è fatto più vicino, andiamo ad appostarci. Vedo il carro di fieno che si è messo in movimento e sale lentissimo, stracarico. I camion ci arrivano addosso proprio nel punto che abbiamo previsto, e non poteva essere altrimenti. Cerco di rilassare le spalle, ma le pietre, onnipresenti, mi stanno martoriando i gomiti. Tento di non pensarci, ma non c’è verso. Dovrei anche pisciare, perché non ci ho pensato prima?
Il Truppführer scende dalla macchina bloccata e va dal contadino che sta a cassetta urlando in tedesco. Lo possiamo sentire da dove siamo, quello che dice è incomprensibile, ma il significato è chiaro: levati di mezzo!
Il conducente sembra spaventato, alza le braccia al cielo, poi comincia a spostarsi verso destra, piano piano, tirando le briglie. Guardiamo il nostro comandante che osserva, immobile. Quando il carro è allineato sulla destra il tedesco sbraita ancora qualcosa e si volta per risalire sulla macchina. A questo punto Aquila ci fa segno di aprire il fuoco.
Una gragnuola di proiettili piove sui camion coperti. Subito dei soldati cercano di saltare giù, ma vengono falciati dalle nostre scariche da pochi metri di distanza. Dal fieno Gino e Lamberto fanno fuoco e il comandante tedesco si accascia con una mezza torsione, come una marionetta a cui si sono rotti i fili. Incredibilmente in pochi istanti tutto è finito. Dal camion di centro scendono cautamente due soldati con le mani alzate, seguiti dai progionieri.
Non ci avviciamo, attenti a qualche sorpresa, ma non si muove niente. Aquila si avvicina ai prigionieri increduli, taglia con un coltello i legacci e li spinge fuori dalla strada con delle pacche sulle spalle. Io e altri due teniamo sotto tiro i soldati che si sono arresi, mentre gli altri ispezionano i camion in cerca di armi e tirano giù la mitragliatrice, che anche se pesa può esserci preziosa, e raccolgono gli Sten. Io resto lì come uno scemo, finché Aquila ci vede.
«Cosa ne facciamo di questi?» chiede Ernesto, indicando i tedeschi che stanno fermi contro il camion.
Lui li guarda appena.
«Scorciateli!» ordina.
«Ma…».
«Non possiamo portarceli dietro, fate come vi ho detto».
Forse chiudo gli occhi, non lo so, ma spariamo un paio di colpi a testa e tutto è finito. Carichiamo i corpi sui camion ancora in moto e poi spingiamo camion e macchina giù per la scarpata. Li guardiamo rotolare per centinaia di metri, prima di fermarsi in un vallone pietroso in fondo al burrone.
«Andiamo, prima ci leviamo di qui e meglio è!» ordina Aquila, e siamo tutti ben felici di obbedirgli.
Riprendiamo la nostra strada, dividendoci il peso della mitragliatrice a turno. Adesso le pietre sotto i piedi mi sembrano ancora più aguzze, e l’erba più gialla, mentre un vento freddo mi penetra nelle ossa umide, nonostante la mantella. Il cielo grigio ci accompagna durante tutta la marcia di ritorno al campo, scuro di presagi funesti, ma così è la nostra vita.
Arrivato al campo mi lascio cadere esausto su un grosso masso e guardo in alto, dove il falco, forse lo stesso, forse un altro, continua a volteggiare in cielo, ignaro delle nostre miserie. Gocce di pioggia mi bagnano il viso, confondendosi con le mie lacrime.
Verrà mai la primavera?