Durante le estati, nelle prime ore del pomeriggio, quando mia madre riposava poiché faceva troppo caldo per lavorare nel suo orticello dove andava ogni giorno, trascorrevo lunghe ore sul terrazzo assolato della vecchia casa del quartiere, dove abitavamo.
M’inventavo storie mentre giocavo con amici immaginari, in compagnia del nostro gatto che mi ascoltava paziente sonnecchiando.
Non che fosse una grande compagnia, dormiva spesso acciambellato su una sedia, all’ombra, nella parte a nord della terrazza, ma mi donava sicurezza e un senso di calore quando interrompeva i sonnellini e mi veniva accanto, si strusciava contro le gambe e faceva le fusa per dimostrarmi il suo affetto.
Più che altro, il gatto, era una mania di mia madre che aveva una paura folle dei topi, anche se io, in casa, non ne vidi mai uno.
«Non serve per questo?», diceva mamma alludendo alla sua presenza.
Oltre a lui, il terrazzo offriva una svariata popolazione d’insetti che vivevano lì, nascosti tra le pietre del muro che confinava con la casa accanto.
Tra le fessure dei sassi sconnessi, potevo intravedere a tratti, ragni di varie dimensioni; lucertole che uscivano a scaldarsi al sole e che restavano immobili a fissarmi con i loro occhietti rotondi; erano sempre allerta e sparivano all’istante quando percepivano una qualsiasi minaccia.
Colonne di formiche marciavano in fila come soldatini lungo il perimetro della terrazza e trasportavano il cibo che raccoglievano dai vasi di fiori coltivati amorevolmente da mia madre.
Io le osservavo e mi stupivo della loro forza quando trasportavano pezzi di foglie o semi giganteschi, sproporzionati alla loro stazza e le ammiravo:
«La mia colonia di formiche forzute», pensavo con orgoglio, distribuendo loro piccole molliche di pane suscitando l’ira di mamma che cercava con ogni mezzo di debellarle quando abbandonavano il loro habitat naturale e sconfinavano in casa in cerca di cibo.
Mia madre usava qualsiasi mezzo per mandarle via, lavava i pavimenti con detergenti e miscele di disinfettanti e, in casi eccezionali, per le più ribelli, un insetticida in polvere che spargeva lungo il muro perimetrale della terrazza che confinava con la casa, persino sotto la porta.
La mia paura era che ammazzasse anche il gatto anche se era furbo, di bocca buona, mangiava solo il suo cibo o cacciava lucertole; quando annusava il cattivo odore dell’insetticida, passava alla larga, con nonchalance e altezzosa sicurezza.
Naturalmente, mia madre aveva ragione a non volere insetti in casa, ora sono d’accordo, anche se, a quei tempi, trovavo il suo accanimento cruento ed esagerato.
Qualche volta cercavo d’interrompere il frenetico andirivieni delle formiche e ponevo degli ostacoli sul percorso senza riuscire, però, a interrompere la loro marcia.
Cambiavano strada e, imperterrite, con determinazione e senso del dovere, proseguivano diritte verso l’obiettivo: la loro dispensa invernale.
Detestavo invece i ragni che mi facevano ribrezzo e mi tenevo a debita distanza; a volte mi procuravo un bastoncino di legno, sfioravo appena il bordo delle ragnatele, simulavo la presenza di una preda e, quando uscivano all’improvviso dalla tana per sferrare un attacco, la loro agilità suscitava in me un senso di meraviglia.
Mamma era una vera appassionata di fiori e i vasi di gerani, di begonie e margherite bianche rendevano la terrazza simile a un meraviglioso giardino.
Ne era orgogliosa e, la sera, poco prima del tramonto, le innaffiava con cura, togliendo foglie secche ed erbacce e parlava con i fiori quasi fossero esseri umani.
Non mi stupivo più di tanto di questi dialoghi che a molti potevano sembrare insoliti, era una donna socievole con tutti e trovavo naturale che lo facesse sia con le piante sia con gli animali, come facevo anch’io, nell’innocenza di bambina e nella fantasia dei miei giochi semplici.
Nell’aria ronzavano api laboriose, mosche noiose e, la sera, zanzare fastidiose.
Di notte, volavano lugubri pipistrelli che mi facevano ancora più paura dei ragni, un ribrezzo che mi è rimasto tuttora.
Altri ospiti sgraditi erano i gechi che si attaccavano alla zanzariera della finestra della cucina che si affacciava su un cortile interno, rimanevano immobili come imbalsamati e, nonostante mamma dicesse che portavano fortuna, ne avevamo terrore entrambe.
Tutti allevavano animali da cortile e il piccolo borgo era vivo e possedeva un’infinita varietà di suoni, di versi di animali, del rumore di attrezzi da lavoro, come una variegata e grande orchestra naturale.
L’aria era pulita e profumava di cose buone.
A fare da contorno a tutto questo, c’erano le rondini che arrivavano puntuali a primavera e si appollaiavano sui fili della luce della casa dirimpetto alla nostra e offrivano concerti gratuiti, melodiosi e allegri specialmente il mattino presto o all’imbrunire.
I miei fratelli erano troppo grandi perché giocassero con me e mia madre fu il mio punto di riferimento principale poiché mio padre lavorava in un’altra città e veniva a casa quando poteva.
In compenso, mamma mi parlava di lui ogni giorno e mi leggeva le sue lunghe lettere.
Una parte importante della storia della nostra famiglia è rimasta proprio lì, nascosta tra le righe della loro corrispondenza.
Mamma era una donna coraggiosa, una lavoratrice indefessa, forte e determinata, ma, soprattutto, possedeva tanta allegria e uno spiccato senso dell’umorismo.
Per me, in cerca di sapere, fu una fonte inesauribile d’informazioni riguardante la nostra famiglia.
Le piaceva leggere a voce alta e raccontare storie, io la adoravo e i suoi insegnamenti oggi mi sono rimasti come guida di vita per la loro grande saggezza.
In mezzo a tutto questo, io crebbi felice, ignara dei veri misteri e pericoli della vita, senza pormi domande sul futuro, nel mio piccolo mondo popolato di animali e di fantasia, protetta dall’amore della mia famiglia.
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