Lo spettacolo dell’aurora sul Mississippi è unico e impagabile.
Lo sapevo da quando ero un bambino, ma vi assicuro che visto con gli occhi di un negro che ha fatto i soldi e ritorna a casa con il suo elicottero a sorvolare i sobborghi della Nouvelle-Orléans ha un qualcosa di favoloso.
Perché essere neri ha un senso soprattutto qui, dove tutto è nero, la musica, il 𝑚𝑎𝑟𝑑𝑖 𝑔𝑟𝑎𝑠, la sensualità della vita che straborda dai marciapiedi e dagli occhi. E anche perché, per dirla con la mia amica Detta Walker, qui gli “𝑠𝑡𝑖𝑛𝑡𝑖 𝑐𝑎𝑧𝑧𝑢𝑡𝑖” stanno al loro posto.
In questo angolo francese, creolo e fottuto della Louisiana, sospeso tra il lago, il delta del padre dei fiumi e il mare, sono nato, cresciuto e quasi morto, e quel “quasi” lo devo tutto a quel pazzo figlio di puttana di Leo… ma è una storia che ho tempo di raccontare, intanto che il mio calabrone cerca un posto per mettere le zampe a terra.
Ero un ragazzino nero, cencioso e mezzo morto di fame, come la maggior parte dei miei coetanei, buttato in strada dai miei che avevano di meglio da fare che mantenermi, indaffarato a sopravvivere sognando gloria e ricchezza e cercando di evitare di scomparire in qualche canale o palude, come capitava a tanti. Non c’erano computer e realtà virtuale, all’epoca, e i giochi erano per i ricchi che vivevano nelle bianche ville dei quartieri eleganti: io ne stavo alla larga perché rubarci era difficile, e i loro cani erano cattivi come gli alligatori, ma molto più furbi e veloci.
Un povero negro ha poche scelte in una città di neri poveri: io ero piccolo e bruttino, ma furbo, e capii subito che da solo non ce l’avrei mai fatta in quella giungla di disgraziati, per cui mi sbrigai ad entrare nella gang del quartiere dove pian piano mi feci strada ed arrivai a quell’età in cui si comincia a credere di riuscire a sfangarla e magari togliersi delle soddisfazioni.
Si dice che di buone intenzioni sia lastricata la via dell’inferno, ma nella realtà di ragazzi svegli e ambiziosi erano piene le paludi del Mississippi, e stavo per prendere anch’io quella strada quando il mio boss aveva scoperto che stavo per mettermi in proprio con il mio piccolo giro di puttane ed estorsioni. Per pura fortuna un uccellino che mi doveva un favore mi aveva fatto una soffiata, così riuscii ad evitare i sicari per il rotto della cuffia, ma mi ritrovai a nascondermi per le vie di New Orleans senza un dollaro in tasca e con la necessità urgente di sparire dalla faccia della terra nel più breve tempo possibile. Ero rabbioso e disperato.
Mi infilai di nascosto in un vecchio negozio di trovarobe che sembrava stare in piedi per miracolo, con l’intento di riposare e riordinare le idee, quando mi resi conto che il tempo era il mio peggior nemico: con il sorgere del nuovo giorno le ricerche si sarebbero organizzate e non avrei trovato nessun buco in cui nascondermi. Ero fottuto.
Man mano che i miei occhi si abituavano all’oscurità, vidi stagliarsi una figura nell’ombra. Era Leo.
Mi aveva osservato da quando avevo forzato la finestra per entrare ed era rimasto seduto sulla sua sedia a dondolo, in silenzio. Lo guardai a mia volta: la sua stazza strabordava dalla poltrona in maniera impressionante, ma gli occhietti che quasi sparivano nel grasso del volto erano lucidi, intelligenti. Le sue mani stringevano un fucile a due canne puntato verso di me.
«È solo per precauzione» fece, abbassandolo.
Ero paralizzato dallo stupore.
«Facciamo il punto» riprese, «tra fratelli neri ci si deve aiutare, ma come fare? Tu sei un uomo morto…»
«La prego» lo implorai, «mi aiuti a scappare da qui…»
«La porta è aperta, ma non andresti lontano.» Si dondolò brevemente,mentre io osservavo le canne del fucile andare su e giù davanti al mio volto.»
«Mhmm… credo di avere quello che fa per te» disse.
E mi accompagnò nel retro del negozio, dove tra un’infinità di oggetti accatastati apparentemente alla rinfusa, c’era una bara di legno lucido appoggiata su due cavalletti.
«Ecco, questo è quello che ti serve. Ti vogliono morto e da morto passerai sotto il loro naso.»
La cassa era soffocante, ma c’erano dei piccoli buchi da cui passava l’aria, e una parete laterale si poteva aprire dall’interno. Con quella finii nel negozio di onoranze funebre e partecipai da una posizione privilegiata al funerale del povero disgraziato a cui avevo rubato il posto.
Sulla strada del cimitero la mia bara fu scambiata con quella del legittimo destinatario e mi ritrovai nel doppio fondo di un vagone ferroviario usato dai contrabbandieri di bionde, in viaggio verso il nord.
Non so come fece Leo a sapere del mio arrivo e ad organizzare tutto questo, ma prima di chiudere la cassa mi mise tra le mani una valigetta.
«Aprila quando sarai arrivato» mi disse, «dentro c’è quello che ti servirà, ma ricorda…» fece un pausa e si abbassò a guardarmi negli occhi, «nessuno fa niente per niente. Verrà il giorno in cui ti sarà chiesto di rendere il favore, e tu tornerai qui e farai quello che devi fare, come è stato per me.»
Il suo sguardo si impresse nella mia mente come un marchio di fuoco, e fu l’ultima cosa che ricordo prima del lungo buio che mi portò fino alla città di New York.
Il resto è storia: arrivai nella Grande Mela come un pacco postale, aprii la valigetta e trovai soldi, gli indirizzi delle persone a cui rivolgermi e informazioni preziose. Usai gli uni e le altre, mi misi in affari e poi in politica, feci carriera.
Poi, un giorno, arrivò la chiamata. Nella mia mente ritornò l’immagine di quegli occhi e seppi che dovevo partire. Liquidai le mie cose, misi tutto su dei conti bancari ed eccomi qui.
Adesso sono di nuovo in questa via e so cosa devo fare.
Percorro la strada con calma, nel calore che già sale dai marciapiedi. Gli anni non sono passati invano, e l’alcool e i cibi grassi hanno trasformato il ragazzino magro in un grasso uomo di mezza età che suda facilmente sotto il peso della sua mole.
Arrivo al negozio, ne osservo le vetrine polverose, tiro fuori dalla tasca la chiave che avevo trovato nella valigetta tanti anni fa e apro la porta. Vado dietro al banco e mi siedo sulla vecchia sedia a dondolo, assopendomi nella calura.
Mi sveglia il suono del campanello sulla porta che si apre. Un ragazzino nero entra precipitosamente, con il cuore in gola.
«Mounsier Leò?» chiede trafelato.
«Oui» rispondo sorridendo e detergendomi il sudore con la mano grassoccia, «C’est moi!»