Capitolo ottavo
La vita matrimoniale sembrava un gioco: dopo il lavoro Caterina tornava a casa e cercava di cucinare in quell’angolo cottura costituito da due fornelli e un lavandino.
Non aveva le doti culinarie di sua mamma ma riusciva a sfamare Giuseppe che non pretendeva troppo.
Dopo cena si raccontavano la giornata trascorsa nel soggiorno che aveva una parete di vetro opaco attraverso la quale vedevano passare l’ombra della padrona di casa – Sembrava la sigla dei telefilm di Hitchcock…
La camera da letto era di un verdino stucchevole: pareti, soffitto, mobili, copriletto: era un po’ inquietante ma loro erano felici.
Appena avevano qualche giorno di libertà partivano con la ‘500 e così girarono tutta l’Italia, dalle Alpi a Santa Maria di Leuca, le coste del Tirreno e quelle dell’Adriatico.
Giuseppe aveva una grande resistenza alla guida e Caterina non si stancava di scoprire nuovi paesi, monti, laghi, spiagge.
Inoltre il tetto apribile della ‘500 forniva un’ottima visuale.
Il problema era quando doveva scendere dall’auto: tutta anchilosata, non riusciva a rimettersi in movimento, ma Giuseppe la aiutava con pazienza.
Quando non erano in viaggio passavano il tempo a leggere, giocare a scacchi, al bar dove si divertivano ad inventare storie sugli altri avventori.
Intanto cercavano una casa più decente e un giorno Caterina lesse un annuncio che la colpì: cinque vani, terrazzo circolare, vista mare.
Andarono a vederla e fu subito amore: piccola ma luminosissima, una terrazza tutto intorno, alla quale si accedeva da tutte le stanze attraverso porte finestre, vista sui tetti e il mare in lontananza.
La presero subito in affitto: il proprietario era una persona cordiale con cui entrarono in sintonia.
La zona piuttosto brutta, tutto cemento e strade strette, ma una volta in casa, tra cielo e mare, erano come in paradiso e la chiamarono “Thule”.
Stabilirono il giorno del trasloco ma una settimana prima, Giuseppe fu chiamato militare: Ufficiale Medico alla caserma di Firenze.
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Il nuovo lavoro di Wendy andava bene: faceva o il turno del pranzo o quello della cena.
Al mattino poteva andare a correre e lo faceva ai “Jardin de Luxenbourg” vicino a casa sua; non erano la Mandrella di Sestri ma il luogo era stupendo e poi li aveva voluti una italiana, Maria De Medici, per cui si sentiva come se le appartenessero un po’.
Stava facendosi anche un bel gruzzoletto con i “pour boir” che i clienti del ristorante davano volentieri a quella ragazza carina ed efficiente.
A Wendy piaceva soprattutto il turno di sera perché, mentre serviva ai tavoli, poteva ascoltare i vari cantanti che si esibivano
accompagnati al pianoforte: cantavano canzoni di Trenet, Montand, Brassen, Brel.
A volte tra i clienti c’erano personaggi famosi: scrittori, attori, musicisti.
Una sera, in una tavolata piuttosto rumorosa, riconobbe il suo regista preferito: Francois Truffaut; c’era con lui un giovane biondo con la faccia da pugile che sembrava uscito dal riformatorio, era Gerard Dèpardieu.
Tutta quella musica che ascoltava le fece venire nostalgia delle sue strimpellate al banjo.
Si comprò una chitarra e decise di prendere lezioni di musica; non fu difficile trovare un maestro che prendesse a cuore la sua allieva.
Lui trovò che Wendy avesse una bella vocina che poteva essere coltivata.
E così, due volte alla settimana, Wendy se ne andava, con la sua chitarra, da Jean Jacques, il suo maestro, in una casa tappezzata di dischi e piena di strumenti musicali.
Era un grande esperto, innamorato del suo lavoro, non solo insegnò a Wendy a suonare la chitarra ma volle ampliare il suo repertorio che era troppo scarso.
Oltre alle canzoni italiane che già conosceva, lui le insegnò quelle americane tipo Moon River, Dream a little dream of me, Summertime, qualcuna dei Beatles che in quel periodo spopolavano tra i giovani.
Wendy si rifiutava di cantare canzoni francesi perché temeva la concorrenza.
Nel tempo libero, oltre alle corse e alle lezioni di musica, continuava a scoprire Parigi che incantava sempre più.
Era stata a Montmartre, all’Opera, sulla Tour Eiffel: in ogni quartiere qualcosa di bello e interessante.
Quando il tempo era brutto si dedicava ai Musei.
In uno dei suoi preferiti. Il Jeu de Paume, si era soffermata a contemplare “La Cattedrale di Rouen” di Monet; si divertiva anche a guardare un gruppetto di bambini che, seduti per terra, con fogli e matite, riproducevano il quadro.
Si accorse di avere accanto a lei un bel ragazzo biondo, capelli a spazzola, occhi azzurri.
Anche lui osservava la scena divertito, si scambiarono un sorriso, qualche parola e continuarono a visitare il Museo insieme.
Continua….