Aveva compiuto vent’anni il 12 agosto.
Anno maledetto, quel 1944: ad aprile la III Brigata Garibaldi-Liguria era stata spazzata via alla Benedicta, quasi centocinquanta morti, di cui settantacinque trucidati dai tedeschi e dai repubblichini a sangue freddo, poi un alternarsi di notizie positive dal fronte e di rastrellamenti in città e nelle campagne, un vivere continuamente con il cuore in gola, e come se non bastasse c’erano anche i bombardamenti degli alleati che avevano ridotto a ferro e fuoco la città e che non distinguevano tra amici e nemici, sarebbero stati 51 a fine anno.

Eppure Livio aveva festeggiato: ‘Non si possono ignorare i vent’anni’ , gli aveva detto la madre, ‘almeno una festicciola dobbiamo farla!’
Così si erano riuniti nella casa miracolosamente scampata alle bombe e avevano messo insieme una torta, due candele, una per ogni dieci anni, una bottiglia di vino messa da parte e ormai diventata un po’ acida. La torta era quasi senza zucchero, troppo caro alla borsa nera, ma nessuno si sarebbe lamentato, come nessuno si lamentava del caffè di cicoria che aveva ben poco a che fare con l’originale, a parte il colore. L’importante era la festa, e riuscire a finirla prima che suonassero le sirene, perché il rifugio non era vicino e bisognava correre in fretta prima che le bombe cominciassero a cadere.

Lui, poi, al rifugio non poteva neanche andarci, correva il rischio di essere rastrellato, e dopo l’otto settembre voleva dire finire in Germania, in uno di quei campi da cui si diceva non tornasse indietro nessuno. Aveva trovato rifugio in porto, sotto l’ala protettiva del vecchio Giuan, il capozona di Ponte Caracciolo, che si era impietosito vedendo quel ragazzino che vagava per i moli cercando qualche lavoretto per aiutare in casa. L’aveva preso in simpatia, come spesso fanno i vecchi senza famiglia, gli aveva dato qualche soldo per fare delle commissioni e poi, visto che il ragazzo oltre che pieno di buona volontà si era dimostrato abbastanza sveglio, l’aveva messo a lavorare in magazzino, dove le braccia mancavano sempre.
Era un lavoro duro, sempre a respirare la polvere sollevata dalle tonnellate di rinfuse che venivano movimentate, ma consentiva di stare al chiuso, dove meno occhi potevano vederlo e domandarsi come mai un ragazzo in piena salute non era sotto le armi, anche se il Regio Esercito non esisteva più.

Per fortuna la piccola festa poté svolgersi tranquillamente. La famiglia – quello che ne era rimaso, dopo che il padre era andato in guerra ed era disperso e una figlia era morta sotto un bombardamento – pranzò con tutta l’allegria di cui era capace e Livio spense le fatidiche candele, prima di tagliarsi una fetta di torta che sapeva di segatura.
Alla fine, un po’ imbarazzato, baciò la madre e la sorella e si apprestò ad andarsene.
«Vai, vai», gli disse la madre, «stai attento ai tedeschi!».
‘Ai tedeschi, ma soprattutto ai fascisti’, pensò lui ‘ che sono anche peggio’, ma non disse nulla per non preoccuparla oltre misura.
Doveva fare ritorno al porto, dove passava anche le notti, oltre ai giorni, dormendo su una brandina posta in un angolo del magazzino, come se fosse stato su uno degli antichi vascelli che aveva visto nei disegni d’epoca, rabbrividendo al pensiero di quei marinai che affrontavano l’oceano confidando solo sul vento e sul loro coraggio.

Il tragitto era breve, poco più di un quarto d’ora correndo per i vicoli che conosceva alla perfezione. Lì era tranquillo, perché sapeva che le prostitute l’avrebbero avvisato se ci fossero stati dei soldati in giro, passandosi la voce, ma una volta uscito da Sottoripa sarebbe stato tutto un altro discorso: alcune centinaia di metri dove le camionette della ronda potevano piombare su di lui come falchi.
Non era mai successo, per fortuna, e non successe neanche quella sera. Arrivò al magazzino con il fiato in gola, giusto in tempo per vedere Giuan che usciva e lo guardava con aria interrogativa.
«Sono stato a casa, facevamo una festa» spiegò.
«E cosa festeggiavate?»
Livio arrossì:
«Oggi ho compiuto vent’anni…»
Il vecchio si fermò.
«Non mi avevi detto niente! Peccato, ti avrei fatto un regalo, ma… aspetta!»
Il portuale si mise a frugare nell’ampio giaccone che gli serviva anche a contrabbandare la roba fuori dal porto e ne estrasse un coltello.
«Ecco, tieni», disse, «questo non è un coltello qualunque, apparteneva a mio padre e prima di lui a suo padre. Io non ho più nessuno a cui lasciarlo, prendilo tu!»
E lo mise nelle mani del ragazzo.
Era un coltello a serramanico, con la lama lunga e il taglio soltanto da un lato. Il manico sembrava di madreperla e luccicava alla luce del lampione..
«Grazie», balbettò, «ma non so se sia il caso…»
«Tienilo e non rompere», lo rimbeccò il vecchio, burbero, «a me non serve più».
E se ne andò con fare anche troppo deciso, per vincere la commozione che l’aveva preso.
Livio andò nel suo angolino, rigirando tra le mani il regalo. Non aveva mai posseduto un coltello, solo giocattoli da bambini, e quello sembrava addirittura prezioso. Si infilò nella cuccetta e si addormentò stringendo tra le dita il suo piccolo gioello.

Era la mattina del 20 agosto quando Livio si destò di soprassalto sentendo delle mani che lo scuotevano. Era Ugo, uno dei commessi di bordo, riformato perché con un braccio paralizzato per via della poliomelite, che stava disperatamente cercando di svegliarlo.
«Cosa succede?» chiese, tirandosi su e scivolando fuori dall’amaca.
«I fascisti, presto!»
«Dove sono? E dov’è Giuan?»
«Mi ha mandato ad avvisarti, sta facendo delle questioni all’ingresso per guadagnare tempo, ma non ce la farà per molto!»
Livio si svegliò completamente in un attimo e fece per correre fuori dal magazzino e andare a nascondersi sotto i copertoni, come faceva di solito. Quel posto era sicuro, nessuno avrebbe sollevato i pesanti teli di gomma telata, oltretuttto puzzolenti per le decine di merci sfuse che avevano protetto, ma era troppo tardi: le sagome dei militari già si stagliavano nella luce che inondava l’ingresso.
Livio ed Ugo rimasero un attimo interdetti, poi il corriere indicò un punto in fondo al magazzino:
«Di là, lo scivolo delle rinfuse!»
Livio capì al volo e in pochi balzi fu davanti allo scivolo, ci si arrampicò sopra e si coricò tra le paratie. Sotto il suo peso lo scivolo altalenò sul perno centrale e si inclinò dalla parte del silos. Il ragazzo capì al volo cosa stava succedendo: il macchinario si era messo in moto come se avesse ricevuto un carico proveniente da una nave, e stava per farlo scendere nella cisterna circolare, piena a metà di granaglie. Liviò lottò con tutte le sue forze per restare aggrappato alle pareti, ma queste erano state progettate proprio perché la merce non avesse attriti, ed erano perfettamente liscie, così finì per scivolare inesorabilmente di sotto.
Dalla parte del magazzino i repubblichini avevano sentito il rumore, e chiesero ad Ugo cosa stesse succedendo.
«Niente», rispose il corriere, «è solo lo scivolo delle rinfuse che sta preparando un altro carico».
Il capo manipolo proiettò il fascio della torcia elettrica verso il fondo, ma non vedendo niente di sospetto alzò le spalle e con un gesto richiamò i suoi soldati a continuare l’ispezione.

Ugo aspettò con il cuore in gola alcuni lunghi minuti finché non fu sicuro che fossero usciti, poi si precipitò sulla scala per vedere dove fosse finito Livio. Temendo il peggio si affacciò all’apertura di ispezione e vide che la superficie delle granaglie era immobile.
‘Mio dio!’ si disse, ‘Livio deve essere annegato lì sotto! Nessuno può nuotare nel grano, e ce l’ho mandato io!’
Soffocava le lacrime e respirava affannosamente, ma ad un certo punto non ce la fece più a trattenersi e scoppiò in un pianto dirotto.
«Livio!», urlò tra i singhiozzi, «Livio, amico mio!»
Una voce gli rispose da sotto:
«Ugo! Dio sia lodato! Sono qui, aiutami!»
Ugo trasalì e si sporse per guardare sotto all’apertura, nell’unico punto cieco del silos. Livio era lì, vicino al bordo, il grano che arrivava quasi alla gola. Aveva piantato con forza il coltello nella parete di legno e si sosteneva disperatamente alla lama.
Ugo corse di sotto a prendere una corda, ne assicurò un capo alla ringhiera e lanciò l’altro all’amico, che lo raccolse, se lo girò diverse volte intorno alla vita, poi si puntellò con i piedi per estrarre il coltello e infine risalì fino all’apertura.
Ugo lo abbracciò piangendo. Mentre lo aiutava a superare gli ultimi ostacoli.
«Credevo che ormai fossi morto!» piagnucolò.
«E lo sarei stato senza il mio regalo di compleanno!», rispose questi, mostrando il coltello di Giuan.
Ugo lo guardò senza capire.
«E’ una lunga storia», fece il ragazzo, «si può dire che il nostro vecchio mi ha salvato la vita. Ma lasciami riprendere fiato, poi scendiamo giù e te la racconto!»
E così dicendo prese per le spalle l’amico e lo abbracciò forte.