«Devono aver messo qualcosa dentro questo cazzo di vino!».
«Eh?».
«Sto parlando con te. Dormi?».
Dormire. Come se fosse possibile. Ho il collo intorpidito dallo stare appoggiato sul bordo dell’elmetto.
«Cosa vuoi?» dico.
«Dicevo che questo vino fa più schifo del solito. Devono averci messo qualche polverina».
«Forse ci hanno pisciato dentro».
«Dico sul serio!» fa John «qualche eccitante. Sono giorni che non riesco più a chiudere occhio».
Mi volto stancamente verso di lui e per poco l’elmetto mi scivola nel fango che copre il fondo della trincea.
«Dammi retta, John. Semmai ci vogliono ubriachi, così ci facciamo ammazzare meglio, altro che svegli».
«Ma allora come ti spieghi…»
Ora mi ha veramente rotto i coglioni. Salto su e lo prendo per il bavero della mimetica.
«Ascolta, pezzo di merda! Li senti i cannoni? E i razzi? Come cazzo credi che si possa dormire con questo casino?».
Lui si libera a fatica.
«Ehi, Karl, non è il caso che tu te la prenda, stavo solo parlando!».
«Stavi solo rompendomi i coglioni! Tu non dormi, io non dormo e non dormiranno nemmeno i nostri nemici, dovunque cazzo siano. E comunque dormiremo tutti a sufficienza quando saremo morti».
John si zittisce, offeso.
«Tira su il fucile dal fango» gli dico per farmi perdonare lo scatto «se secca nella canna c’è il rischio che ti scoppi in mano».
«Tanto…» fa lui.
Alzo gli occhi al cielo, esasperato, ma vedo che recupera l’arma. Proprio in quel momento si sente un fischio, un boato e la terra trema. Dappertutto volano frammenti di terra e pietre.
«Stavolta ci sono andati vicini».
«Di nuovo quei maledetti mortai. Ma la nostra aviazione cosa cazzo fa?».
«Lo sai cosa fanno gli aviatori: di notte scopano perché è troppo buio per volare, e di giorno si riposano perché si sono stancati la notte».
Un mezzo sorriso fa increspare la fronte di John: sa benissimo anche lui che l’aviazione ha pagato un prezzo pesante alla precisione della contraerea e non può mettersi a dare la caccia ai covi di mortai: è roba nostra.
John striscia dalla sua posizione e viene a mettersi vicino a me.
«Karl, lo sai che non voglio romperti… È solo che credo di stare impazzendo. Sono tanto stanco che a volte vorrei soltanto morire».
«Nessun problema, amico: siamo tutti stanchi».
«Ma quanto durerà questa situazione? Di giorno ci massacrano come tiriamo fuori la testa, di notte giocano alla battaglia navale con le nostre buche».
«Facciamo lo stesso con loro» gli dico per rincuorarlo, ma non mi rincuoro neanche io.
«Allora perché non la finiamo?».
Lo guardo di traverso.
«E come? Vuoi uscire con le mani in alto e gridare: Ehi, amici, siamo qui! Non sparate più, siamo tutti fratelli? Prego, accomodati!».
«Fanculo Karl».
«Fanculo a te, John» e mi giro dall’altra parte, proprio mentre un’altra bomba di mortaio scoppia poco più lontano.
L’alba è livida. Piove. Nuvole grigie corrono veloci sopra le colline all’orizzonte. Mi scuoto a fatica dal dormiveglia e sento qualcosa muoversi tra i miei piedi. Cazzo, è un topo. Ho un gesto istintivo di repulsione e sento John ridere.
«Ridi, ridi pure, brutto bastardo!» gli faccio «quando sarai a faccia in giù nel fango vedrai come verrò ad impedire che i topi ti mangino il cazzo!».
«Per quel che me ne frega, quando sarò morto!».
È venuto giorno ma non è arrivato il segnale di attaccare. Anche il nemico sembra tranquillo. Ogni tanto si sente il ratratrat della mitraglia che spazza la terra, ma ci siamo tanto abituati che nessuno ci fa caso.
«Karl…?».
«Sì?»
«Mi porti la colazione?».
«The o caffè? E croissant con la marmellata?».
Lui chiude gli occhi dal piacere.
«Sì… di mirtillo, appena tiepida».
«Subito. Adesso salto su, supero quelle maledette linee nemiche, faccio cento chilometri, attraverso il mare e vado a prenderti la colazione. Va bene?».
«Ah, Karl, se tu non fossi così stronzo saresti una moglie perfetta!» Ci pensa un attimo «Magari se avessi anche le tette sarebbe meglio…».
Sorrido tra me e non gli rispondo. È tanto raro che John sia di questo umore che voglio approffittarne per quietare un po’, tanto non durerà. Mi alzo per prendere una barretta dallo zaino e…
«Cazzo fai? Giù!».
Lo guardo un attimo inebetito e istintivamente mi lascio cadere. Una frazione di secondo dopo il bordo della trincea dove un attimo prima c’era la mia testa esplode in una gragnuola di pietre. Dopo un istante si sente la detonazione.
Mi giro verso di lui con gli occhi sbarrati.
«Tutto bene?» mi chiede «ma cosa stavi facendo?».
Non lo so, vorrei dire. Non lo so davvero, Per un attimo ero fuori da questa guerra, a casa. Poteva essere il mio ultimo momento, è così che si muore.
Non ringrazio il mio compagno, non ci sono parole per dire queste cose, in trincea, e lui lo sa.
«Solo per quella faccenda dei topi che mi mangiano il cazzo» scherza.
«Già» gli rispondo, ma non ho voglia di scherzare. Dove è la latrina?
Succede quando meno ce lo aspettiamo. Siamo tranquilli che ritorniamo alla base in autoblindo dopo una corvé di due giorni in cui abbiamo raccolto solo polvere, insulti e merda di cane. Siamo stanchi sudati, puzziamo da far vomitare e pensiamo soltanto che ci aspetta una licenza in retrovia, magari di una settimana. È il premio per esserci offerti volontari, ed è per questo che l’abbiamo fatto, che tutti lo fanno: per toglierci dalla trincea per qualche giorno. Io ho gli occhi semichiusi, mi sono tolto l’elmetto e l’ho appeso alla canna del fucile che tengo tra le gambe.- Forse qualcuno dorme. Dovremmo essere contenti di non avere incontrato nessuno, ma quasi ci sentiamo in colpa di essere andati a vuoto. Siamo proprio idioti!
Ho la sensazione che l’autista, davanti, dica qualcosa. Poi sento un colpo tremendo sul fianco del blindato e vedo le fiamme. Un razzo, cazzo! La porta posteriore si è spalancata, ed uno dei miei compagni sta già uscendo. Come in un film lo vedo stagliarsi sull’apertura e subito dopo venire ricacciato dentro da una raffica che quasi lo taglia a metà. Siamo inondati di sangue. Sento il liquido caldo in faccia, il gusto metallico sulle labbra. L’altra uscita è dal fianco su cui ci siamo adagiati. Dovrebbe essere bloccata, ma il mezzo non è in piano, è inclinato, e forse… Cerco di aprire con cautela, lo sportello cede. Il passaggio è stretto ma sono magro, non mi serve molto spazio. Faccio per infilarmi, poi mi viene in mente il fucile e torno a prenderlo, con l’elmetto. Tiro giù pure un giubbotto, anche se so che potrà fare poco con una mitragliatrice, ma mi fa sentire più protetto, poi sguscio fuori lentamente
Striscio dalla parte opposta a quella da cui era uscito Marc e mi tengo al riparo del veicolo. In questo modo non riesco a vedere da dove ci stanno sparando, ma ci sono i miei compagni degli altri due mezzi che ci stanno pensando. Fuori sta infuriando una violenta battaglia, sento il rumore dei proiettili che rimbalzano sulla blindatura.
Con la coda dell’occhio vedo un filo di fumo uscire dal motore. È un diesel e non dovrebbe incendiarsi, ma l’olio brucia, eccome.
«Dai John!» sussurro «vieni fuori, ho paura che stia per andare a fuoco!».
La sua voce mi giunge concitata.
«Ci provo, ma non ci riesco, maledizione!».
John è più grosso di me, lo immaginavo che non riuscisse a passare per quella fessura in cui sono sgusciato.
«Aspetta!» gli dico, e mi infilo di nuovo sotto e mi puntello con la schiena e le gambe sul terreno.
«Inutile, non ci riesco!» ansimo dopo un paio di tentativi «quest’affare pesa delle tonnellate!».
«Lascia perdere, non ce la farai mai!».
«Vado fuori e ti copro».
«No. Vai fuori e cerca di capire se c’è pericolo che vada a fuoco. Se ci riesco rimango qui dentro finché i nostri non neutralizzano quei figli di troia».
Ha ragione.
«Okay, stai tranquillo!».
Lo sento quasi ridere.
Ritorno davanti al motore e cerco di capire come siamo messi. I nostri stanno ingaggiando una battaglia a distanza, ma i nemici si sono attestati in cima ad una collina, proprio sopra la strada. Cercare di snidarli sarebbe un suicidio, vorrebbe dire correre per duecento metri sulla polvere, allo scoperto. Sicuramente avranno dato l’allarme e tra poco arriverà l’aviazione, ma prima che gli elicotteri siano qui è capace di volerci mezz’ora, lo sappiamo tutti, noi come loro. In questo tempo cercheranno di farci la pelle, poi si ritireranno nelle loro tane come topi.
Una lingua di fuoco mi strappa ai miei ragionamenti.
Cazzo, cazzo, cazzo!
Si alza un fumo denso, nero, ma il vento lo spinge dalla mia parte, lasciando scoperta l’unica uscita accessibile, quella sotto tiro.
«John…» dico.
«Ho sentito l’odore» fa lui «quanto mi resta?».
Cerco di fare una valutazione.
«Poco… comincia a vedersi il fuoco… non mezz’ora».
Sa quello che intendo dire. Tira un lungo respiro che sento anche io da fuori.
«Va bene, esco».
«Aspetta! Apro un fuoco di copertura!».
«Inutile, servirà solo ad attirare la loro attenzione. Se pensano che siamo tutti morti forse ce la faccio».
So cosa sta pensando. Si prepara dalla parte opposta all’uscita, l’elmetto calcato, il fucile tra le braccia. Poi si lancerà fuori di corsa e cercherà di rotolare al riparo del mezzo. Ci vorrà circa mezzo minuto, troppo, ma non c’è altro da fare. Mi domando se si farà il segno della croce, prima di lanciarsi, cosa mi viene in mente!
Sento il rumore degli anfibi sul metallo… uno, due, tre, quattro… è fuori.
Mi getto di fianco al blindato e apro il fuoco sulle colline, proprio mentre loro stanno sparando sul mio amico. Svuoto il caricatore, poi rotolo di nuovo al riparo. Con cautela striscio dall’altro lato, dove dovrebbe trovarsi John. Sento un gran brutto silenzio. Piano piano mi avvicino, finché lo vedo. Un fagotto scuro nella polvere della pista. È immobile.
Tenendomi sempre vicino alla vettura mi faccio il più sotto possibile, poi mi fermo sotto il sole. Passa un minuto, due, tre. Nessun movimento, anche gli spari sono cessati. Sembra che siano andati via, ma non è vero, stanno solo cercando dei bersagli.
Striscio come un verme verso John, riesco a raggiungerlo. Provo a scuoterlo piano, ma non risponde. Non so cosa fare, così sono quasi al riparo ma non riesco a spostarlo. Passano alcuni lunghi istanti, poi alzo la sguardo alle colline di pietre, al cielo, al sole incandescente. Sento l’aria pura entrarmi nel polmoni e respiro la vita.
Poi di colpo mi alzo, lo prendo da sotto le ascelle e comincio a trascinarlo verso l’autoblindo rovesciato. Faccio due, tre passi, non so quanti, poi sento un calcio sulla schiena e tutto diventa buio.
Strabuzzo gli occhi, accecato dalla luce. Sento la bocca impastata, fatico a respirare, poi mi rendo conto che sono intubato. Un’ infermiera come vede che mi sono svegliato esce dalla stanza e dopo un attimo ritorna con un dottore e il capitano. Il dottore mi guarda le pupille, poi mi toglie la sonda. La gola mi brucia come il fuoco.
«La lascio con il suo eroe» dice al capitano, ma sono parole dette quasi con disprezzo.
«Cosa cazzo credevi di fare, Karl? S sei ancora vivo lo devi solo al giubbotto» mi domanda il capitano.
Non ho la forza di aprire bocca.
«Lo lasci stare, non riesce a parlare» lo redarguisce l’infermiera.
«John ce l’ha fatta?» sussurro, con la voce roca.
Il capitano scuote la testa, imbarazzato.
«Mi dispiace, Karl, ma quando l’hai preso doveva essere già morto… Perché…?».
«Non potevo lasciarlo ai topi» biascico «gliel’avevo promesso…» e chiudo gli occhi.
Il capitano non sa cosa dire, sento che l’infermiera lo allontana, e poi mi mette una pezza fresca sulla fronte. Sento il suo profumo delicato di donna. Chi era che diceva che gli eroi hanno sempre del buono con le infermiere delle retrovie?