È cominciato al calare del sole, ma eravamo preparati.

A dare l’annuncio è stato il primo razzo che è piovuto dal cielo lasciando una lunga scia rossa prima di esplodere. Subito dopo si è sentito un boato che ha fatto tremare i vetri, quindi una successione di fiammate, scoppi, gente che gridava, sirene di ambulanze.

I sacchi di sabbia erano già contro le finestre, ma era dura aspettare che finisse chiusi come topi in una tana, nella speranza che qualche razzo non appiccasse il fuoco alla nostra casa, così sbirciavamo attraverso le fessure, un po’ per la curiosità e un po’ con il cuore in gola. Il nostro cane tremava in un angolo: gli avevamo avvolto un intero rotolo di cotone intorno alle orecchie per attutire i rumori, ma evidentemente non bastava, o forse aveva un sesto senso che lo teneva in guardia. Fuori non sentivi altro che ululati disperati.
Chissà se anche i gatti sono terrorizzati allo stesso modo, mi venne da pensare, ma sì. Certo che sì.

Sapevamo che i pronto soccorsi degli ospedali da lì a poco si sarebbero riempiti di gente ferita, eppure c’era chi si divertiva a sfidare l’inferno che c’era per le strade. Pazzi!

Man mano che ci si addentrava nella notte le esplosioni si facevano più frequenti, e a tratti il cielo era un intrico di scie luminose. L’aria era ammorbata dal fumo e l’odore della polvere da sparo  bruciava la gola. Fiamme si levavano da alberi e baracche incendiate, che i pompieri correvano a spegnere, dimostrando vero sprezzo del pericolo. Si sentiva il rumore di cocci e vetri che s’infrangevano sul selciato, proiettando schegge che minacciavano di ferire i malcapitati che passavano nelle vicinanze, anche se probabilmente solo i matti e gli aspiranti suicidi mettevano il naso fuori dai ripari. O chi doveva farlo per lavoro.

Poiché la vita comunque continua, abbiamo tirato fuori quello che avevamo preparato da mangiare e l’abbiamo consumato con finta allegria, guardando alla televisione spettacoli assurdi e fingendo che tutto andasse bene, anche se non era così.
Ovviamente non era così.

Per fortuna tutto ha una fine, anche la follia: la successione delle esplosioni cominciò a diradarsi con il passare delle ore, era evidente che stavano finendo le munizioni. Un brezza leggera che annunciava l’alba spazzò via il fumo dall’aria, e con esso il senso di tragedia che aveva attanagliato tutti. Immaginavo che la gente stesse sciamando fuori dai luoghi chiusi in cui si era rifugiata, perlopiù in compagnia per vincere l’angoscia. Alzammo le tapparelle e rimuovemmo i sacchi dalle finestre, arrischiandoci a dare un’occhiata alle strade. Fuori il cielo era livido, doveva essere piovuto. Nuvoloni neri correvano veloci sopra i tetti grigi. La città sembrava di piombo fuso. Tra poco i telegiornali avrebbero fatto la conta della vittime.

«Speriamo che non ci siano dei bambini» mi dice mia moglie.
«Ci sono sempre» ribatto, «sono i peggiori».
Lei non risponde e guarda fuori senza parlare.
«L’anno prossimo mi piacerebbe andare da qualche altra parte» dice poi.
«Si, hai ragione. Magari a Bagdad: qui in Italia il capodanno è davvero troppo pericoloso».