TRAINSPOTTING, DI IRVINE WELSH  Gli Anni Ottanta erano appena finiti, ma la loro carica non si era ancora esaurita. Quel periodo magico, fatto di cinismo ed egoismo, certo, ma anche di gioia, di creatività, di benessere e pura ebbrezza, continuava a emanare i suoi lampi. Solo che un eccesso di vitalità, come sempre, stava lasciando delle scorie tossiche. L’economia, dopo i fasti della Reaganomics, cominciava a scricchiolare, e si sentiva un senso di stanchezza. Certe acconciature, certi look, certe musiche iniziavano a sembrare un po’ pacchiani, come un gioco di bambini, che si era protratto troppo a lungo. Erano i postumi della sbornia, l’idea che dopo la festa c’era da pulire, da mettere a posto cartacce e bottiglie rotte. Quel mal di testa, quell’odore di fumo freddo… un’altra stupida domenica, da passare al centro commerciale. Veniva quasi da vomitare, a meno che… qualcuno non tirasse fuori il coniglio dal cilindro. Ed eccola là – bellissima, purissima, distillata in ogni grammo, come un nettare degli dei… c’erano mille nomi per chiamarla, ma alla fine era sempre lei, la dolce compagna di mille giorni brutti – Eroina, da mischiare con un po’ d’alcool e marijuana, e non pensarci più…

 

… e allora NON scegliere la vita o un cazzo di televisore, scegli i ragazzi di Trainspotting, e prima ancora il grande Irvine Welsh. Non lo troverete in un’antologia scolastica, nel regno dei Calvino, dei Piccoli Principi, e nemmeno a un seminario baronale, denso di semiotica, di strutture e strutturalismi, forse nemmeno a un premio letterario – ce ne sono già di fenomeni, che vorrebbero essere Jonathan Franzen… il Letterario incombe, con le sue Regole, i suoi Clichès, i suoi principi immutabili stampati nella pietra, ma nessuno ha cambiato il gioco come Welsh… in questo senso, è stato il Joyce della nostra epoca. Può sembrare eccessivo, eppure, a essere sincero, non ricordo un libro che come Trainspotting abbia innovato il linguaggio, la struttura, i personaggi, aderendo perfettamente al suo tempo… in questo momento mi vengono in mente solo Bastogne, di Enrico Brizzi (libro che adoro!), e certe cose di Martin Amis… perché Trainspotting non “descrive” quello che succede, no, Trainspotting “è” l’odore stesso del sesso, della droga, dei cessi e dell’eroina, delle risse e i furtarelli, degli slum e le periferie, delle soffitte malridotte, dove neonati piangono nel vuoto, circondati da zombie fatti di roba… non c’è nessuna distanza fra la scrittura e il suo oggetto, perché non è una bugia – Welsh è proprio là, con i suoi amici, vive e sente tutto questo – la decadenza e lo sfacelo, il puro dolore e anche la coglioneria di quegli anni Novanta, alla periferia di Edimburgo…

 

Per capire se uno scrittore è vero, autentico, se in un certo senso, ha lasciato un segno, c’è un metodo che per me funziona quasi sempre. Domandatevi: quali sono i suoi personaggi? Di quali fra loro mi ricordo – con odio, con affetto, con un misto di rabbia e invidia – e quali invece sono scomparsi, lasciando al massimo un po’ di inchiostro? Se non ricordate nessuno, vuol dire che quell’autore non fa per voi. Se invece quel personaggio è vivo, dentro di voi, proprio come un amico, un amore perduto, o quello stronzo del capufficio, allora ha colpito nel segno. Basta provarci: Flaubert è Madame Bovary, Eco Adso da Melk, Dostoevskij Stavrogin, Turgenev Bazarov, e così via… e chi può dimenticarsi di Begbie, di Renton e Sick Boy? Certo, li abbiamo visti al cinema, quei pagliacci indimenticabili, quei pazzoidi senza un futuro che ci provano lo stesso, a mordere la vita, restando sempre fottuti, e in questo senso, con quegli attori, quelle musiche, è forse un tantino più facile. Ma il libro ti resta addosso comunque. Perché? Non solo perché è spontaneo, viscerale, autentico, senza fronzoli letterari o altre cazzate… non solo perché è fresco e moderno, come un pezzo di Caribou, un quadro di Basquiat, ma anche perché in ogni personaggio – come nelle vere opere d’Arte – vive il suo tempo. E quei tre sono la pura incarnazione degli Anni Novanta. Un periodo già di down, di decadenza, in cui non si poteva più godere, divertirsi e basta, ma se pure si voleva farlo, c’era sempre qualche sprettro, da annegare nell’alcool e la droga (fa eccezione Begbie: lui è uno stronzo e basta, anche se a volte fa quasi tenerezza).

 

Che ci resta di Trainspotting? Non è invecchiato di un giorno, eppure sono passati più di vent’anni, da allora… io non sono più il ragazzo del Liceo, quello che studiava il greco e poi, al pomeriggio, se ne andava al bar di Serravalle, per giocare a calcio su un campetto di cemento, correre in moto o fumare dell’erba sul retro, sperando che il sabato sera, in discoteca, portasse qualche ragazza… rispetto a loro, eravamo dei bravi bambini (anzi, diciamolo pure: degli sfigati…) ma avevamo qualcosa in comune: qualcuno ci aveva fottuto. Ci aspettavamo grandi cose, dal nostro futuro, e invece sarebbero arrivati dei casini. La vita è sempre così… ma un po’ è legato anche al nostro tempo. Gli Anni Novanta hanno anticipato questi Due Punto Zero, un periodo di grande solitudine, di moralismi morbosi, di vite frenetiche e insensate, sempre all’insegna del magico web, anus mundi digitale… e nel collage di Trainspotting (le varie storie sono per così dire “incollate” l’una all’altra, come una serie di racconti, incredibilmente armoniosi) quel periodo rimane a fuoco perfettamente, come in una medaglia fatta di merda e oro. Ancora oggi mi chiedo come ci sia riuscito, Irvine Welsh, ma se ci penso, mi basta frugare nella memoria. Ricordo un giorno di qualche anno fa, a Genova, con Welsh ospite al Ducale. Eccolo – una specie di hooligan, folle e simpaticissimo. Testa rasata, pantaloni verdi corti, alle scarpe un paio di Dr. Martens, una birra e via… lui non recitava quel mondo, lui era quel mondo, ed ecco perché le sue pagine sono autentiche, mentre oggi a vedere certi “scrittori” sembra quasi di incontrare un Ceo, anzi, uno “startupper”. Occhialetti e barbetta, pose da “giovane”, ma sempre con grande attenzione al Mercato, alla Tendenza, al Liberalismo e Politicamente Corretto… tutto un profluvio di avverbi, di aggettivi, di frasette simpatiche – “ah lo sapete, io scrivo su un Mac”, “l’ispirazione mi è venuta da un viaggio a Londra”, “ah ah, quella è una roba che lo fa impazzire, il mio editor”, “pensavo facesse schifo, il mio libro, e invece: no, mi fa, tu sei matto! Questo è un capolavoro! Quasi non ci credevo, e invece, lo sapete quanto ha venduto…”, “d’altronde, come ha detto Serra su Repubblica, è uno dei tipici non-luoghi, alla Marc Augè” – in bella vista la tazzona di Starbucks, l’iPhone d’ordinanza… la camicia bianca poi è un must, lo dice l’Agente… perché va bene, lo scrittore è buono, si batte per i più deboli, ma la coolness, ok?, non dimentichiamo la coolness… oggi ti perdonano tutto, ma non l’essere povero. E allora, come direbbe Irvine Welsh: vaffanculo. “In questo ambiente non ci sono amici, solo contatti”. O se proprio cerchi qualcuno, devi andare a prenderti un libro. Trainspotting è quello che ti serve. Per ricordarti che c’è stato un periodo, anni fa, che si era in mille, e se si faceva una cazzata, beh, era anche un modo di essere liberi… anche se poi significava cadere, e farsi parecchio male…