Io parlo con i morti. No, non sono una veggente, non li vedo e neppure ho la sensazione che siano da qualche parte fluttuanti intorno a me come fantasmi. Non li vedo, ma ci parlo. Non sono una strega ma una pioniera delle comunicazioni dell’oltre. Quelli con i quali ho rapporti verbali più frequenti sono mia madre e il mio ex marito. Forse perché tra di noi ci ancora molte cose da chiarire e per questo non ci siamo detti veramente addio. Mia madre sono ormai tanti anni che è venuta a mancare, ma con lei non riesco a venirne a capo proprio come quando era in vita, praticamente siamo sempre al punto di partenza, ferme sulle nostre posizioni seppure io sono disposta a rivedere le mie, lei, invece, non lo è altrettanto: con me o contro di me. In sintesi, questo il suo pensiero. Ed ancora il suo modus vivendi, (se mi è concessa l’ironia) che neppure la morte è riuscita a modificare. Col mio ex marito le cose, invece, vanno molto meglio, che se avessimo trovato questa stessa intesa quando eravamo insieme di sicuro non ci saremmo lasciati. Anche se, a onor del vero, lo visualizzo sempre in un contesto antecedente il nostro divorzio, e con un sottofondo di romanticismo un po’ barocco che né io né lui abbiamo mai avuto. Ma ora andiamo d’accordo, e questo è quanto.
Fino a qualche tempo fa erano queste le mie abituali frequentazioni con l’oltre: mia mamma, il mio ex marito e Zia Vincenza, una zia materna che noi chiamavamo Zi Zia, figura strana e affascinante. Gotica. La rivedo antica, in una scenografia di cassettiere d’epoca e quadri di santi alle pareti, mente si spazzola i capelli seduta sul bordo del letto. Era ritenuta stravagante per non definirla pazza. Ma tutte le donne della mia famiglia un po’ di pazzia l’hanno sempre coltivata. Zi Zia mi appare nel riquadro della sua stanza intenta a farsi la treccia, oppure già pettinata e vestita di scuro. Con lei però non c’è scambio di parole. Ero bambina e Vincenza, invece, era già avanti con gli anni, così non abbiamo mai stabilito un contatto vero se non quello formale dei baci e degli abbracci.
Va be’, questa premessa era per chiarire che la mia frequentazione col mondo dei morti è limitata all’ambito della famiglia e a Mimmo, un amico fraterno recentemente scomparso.
Famiglia. Appunto!
Fino al giorno in cui è comparso anche lui: Gabriel.
Era già da un pezzo che sedevo davanti al computer in attesa dell’ispirazione che dopo giorni di amnesia desse l’imput alle mie dita per scrivere anche solo un breve paragrafo, sia pure da cancellare l’attimo dopo, salvando un solo rigo, rappresentativo, però, della fine della mia agonia cerebrale e l’inizio del mio viaggio verso un mondo ancora nebuloso ma non più irraggiungibile, tutto da scoprire.
Persa nella nebbia dei miraggi, in attesa di quella lucina al neon che misericordiosa mi guidasse verso un qualche luogo, prima che io cedessi alla disperazione del naufrago che, nel silenzio totale e nel deserto del paesaggio, d’un tratto realizza di essere completamente solo. Un attacco di panico, comunque, non me lo sarei fatto mancare..
«L’ispirazione non da preavvisi.»
La frase era risuonata dentro la mia testa ma anche fuori, nella stanza. Istintivamente mi sono girata a guardare, consapevole che non avrei visto nessuno ma pur certa della presenza di uno sconosciuto con un accento spagnolo. Lui poteva vedermi (i paradossi non sono solo nella vita ma anche nella morte, così chi ha chiuso gli occhi vede ciò che noi ad occhi aperti non vediamo) mentre io, invece, non potevo nemmeno visualizzarlo dal momento che mi era sconosciuto. Estraneo ad ogni mio ricordo.
«Chi c’è nella stanza? Ci conosciamo?» Chiedo, inutilmente esplorando il vuoto intorno
«Una bella domanda: tecnicamente non ci conosciamo se per conoscenza s’intende l’aver avuto un qualche tipo di contatto fisico, ma se invece ne ipotizziamo di virtuali direi che lei mi conosce molto bene mentre io, invece, fino a qualche istante fa ignoravo la sua esistenza.» E dopo un attimo di riflessione, aggiunge «A ben pensarci, una situazione totalmente squilibrata a suo favore, che poteva sentirsi autorizzata ad immaginare e scrivere qualsiasi cosa su di me senza che io lo sapessi e potessi contrastarla. Come spesso accade post mortem. Ma per mia fortuna la sua opinione su di me è sempre stata altissima. O almeno così mi è stato riferito.» La voce è rilassata, e sull’ultima frase perfino divertita.
«Non possiamo formalizzare le presentazioni?» Chiedo ansiosa di avere conferma dell’inverosimile ipotesi che si è fatta strada nella mia mente.
«Gabriel Garcia Marquez, senora.»
Pronuncia il suo nome con un sorriso nella voce.
Sono impallidita e poi arrossita. Le mani sulla bocca e gli occhi sgranati: la mimica della sorpresa che sta per erompere in gioia incontenibile. Selvaggia. Ma io non so esternare in quel modo. Non sono una che si lascia andare…be’, non con chiunque, e ancor meno davanti al mio dio che, neppure invocato, è sceso dal suo Olimpo a soccorrermi. Portarmi conforto. Di questo miracolo non ne parlerà nessuno e sono certa che se lo raccontassi nessuno ci crederebbe.
«Gabriel Garcia Marquez» Ripeto il suo nome estasiata. Una volta, due, tre.
«Si, senora, sono proprio io. » Mi rassicura in tono gentile.
«Ho letto tutti i suoi libri. Proprio tutti.» L’enfasi con cui pronuncio queste banalità reca traccia del mio tumulto interiore.«Ma la sua biografia…quella ancora no, e ne sono davvero mortificata.»
«La prossima volta che torno gliela racconterò io la mia biografia ma non sarà autorizzata a parlarne né a scriverne, tanto meno reinterpretarla. Insomma…non ne potrà fare neppure l’uso indiretto di una storia verosimile dove alla fine si specifica che ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.»
L’avvertimento è solenne. E severo.
Annuisco estasiata, disposta a giurare sulla mia vita, quella di mio figlio e quella dei miei gatti, che neppure sotto tortura rivelerei mai le sue confidenze, mentre nell’affanno delle emozioni cerco qualcosa di non troppo scontato con cui replicare. La prima cosa che mi viene in mente è quella di chiedergli se ha letto qualcosa di mio. O se sa che anche io scrivo. Ma non ne ho il coraggio. Assolutamente sfrontata quando scrivo, nella vita reale sono una persona piuttosto timida.
La domanda che invece gli pongo è: «Gabriel…perché proprio io? »
« Perché lei, senora, ama esprimersi nel tempo verbale dell’imperfetto, e non riesce a correggersi. Non può farne a meno, perché l’imperfetto è un tempo mentale incerto, non ben definito, che provoca disordine. Un tempo informe, che esprime la durata di un evento ma non stabilisce il momento preciso in cui è accaduto. E’ un tempo eterogeneo e instabile. Rappresentativo. Fluttuante, così come sono i ricordi. E i ricordi non necessitano della precisione per essere veri. L’imperfetto è il tempo di chi parla coi morti: è l’imperfetto che mi ha portato a lei.»
Queste rivelazioni, fatte in modo garbato, educata ironia e un meraviglioso accento spagnolo, mi hanno gettato nel caos più eccitante.
Come faccio a pensare se fatico perfino a respirare?
Il mio dio è sceso sulla terra, mi ha parlato, ha perfino letto i miei racconti.
Un breve attimo di silenzio, quello che precede l’imminente congedo, mentre ci si prepara ai saluti.
Frasi ovvie, di circostanza. Ma lui è Gabriel Garcia Marquez, un uomo fuori dal comune, e così ancora mi sorprende: «La prossima volta mi piacerebbe avere una sua opinione sul mio nuovo romanzo. La trama un po’ la riguarda: è la storia di una donna che parla coi morti e racconta di loro nel tempo dell’imperfetto. Ci vede qualche analogia con lei?» Ride del mio stupore. Una risata genuina. Cordiale. Nessuna presa in giro quando mi dice: «La mia ispirazione l’ho appena trovata, sono sicuro che anche lei troverà la sua.»
«Mi perdoni, Gabriel, ma lei come può scrivere se è…» Non termino la frase perché risuonerebbe ingiuriosa come una bestemmia.
«Come faccio a scrivere se sono morto?» Conclude per me con un sorriso, che se non posso vedere posso però intuire «Perché il destino di uno scrittore è di continuare a scrivere. Per sempre.»