La tangenziale di Mestre alle tre di notte era completamente vuota, solo qualche macchina che probabilmente tornava da qualche locale notturno della riviera Jesolana.

Correvano, scappavano, pieni di adrenalina con il cuore che sembrava esplodere, dentro quella fiat Punto la paura si respirava assieme al fumo delle sigarette che stava fumando.

Come al solito arrivati all’imbocco della castellana, si sentivano invincibili e sicuri e cominciavano a fantasticare su cosa avrebbero fatto con i soldi guadagnati in questa ultima rapina.

Ogni volta guadagnavano la prima pagina de “La Nuova delle tre Venezie”, che descriveva maniacalmente i dettagli della rapina, con morbosa attenzione si soffermava su particolari violenti o scabrosi, alcune volte alquanto fantasiosi. Le tabaccherie bersaglio avevano sempre il locale adibito ai video poker, il colpo avveniva di solito nel tardo pomeriggio prima che i proprietari portassero via l’incasso della giornata. La moto da fuoristrada, rubata nella notte, si piazzava davanti all’ingresso dell’esercizio, il passeggero scendeva ed entrava, senza togliersi il casco e revolver alla mano, puntava direttamente alla cassa minacciando chi stava dietro il bancone, urlando e minacciandolo. Ogni volta gli astantirimanevano atterriti e confusi, come se qualcuno li avesse colpiti in testa con un manganello. Nessuno osava fiatare, tanta era la durezza della voce del rapinatore e la risolutezza dei gesti, ad ogni rapina sembrava che proiettasse nella stanza un’ombra che avvolgeva tutto e tutti in un torpore che non permetteva nessuna reazione. Durante uno dei colpi il marito della proprietaria di una tabaccheria fu colpito al naso con il calcio della pistola così forte da procurargli un trauma cranico.

Come sempre svuotava la cassa, in un zainetto, rubava eventuali portafogli dei clienti frastornati, usciva e risaliva sulla moto, che sfrecciava per il centro del paese, scomparendo per le vie di campagna.

In quei momenti Remo, aggrappato al cugino, pensava che mai avrebbe fatto la fine del padre che in paese si appostavadietro alle macchine, per farsi investire mentre facevano retromarcia per uscire dal parcheggio, per truffarel’assicurazione.

Di solito lasciavano la moto in qualche fosso, di località remote, magari protetti dalla nebbia che in alcune sere di inverno e autunno si faceva molto fitta. Katyusha, gli faceva trovare la macchina parcheggiata a pochi metri, saltavano dentro e si dirigevano verso casa. Prima imboccavano la statale quattordici e poi la tangenziale, per poi uscire nel quartiere Cipressina del comune di Venezia.

Katyusha abitava al settimo piano di uno stabile, costruito negli anni sessanta per ospitare i dipendenti dell’aeroporto Marco Polo, gli appartamenti ora erano tutti stati riscattati da addetti ai bagagli, stewart e hostess di terra per lo più pensionati. In alcuni casi erano affittati, infatti il proprietario del tri-locale in cui abitava Katyusha era un addetto alla sicurezza a riposo, che ora abitava nelle campagne del trevigiano.

Appena entravano, sovreccitati ed euforici, si mettevano a contare le banconote. Subito dopo Ivan e Katyusha andavano nella camera da letto, per tutta la notte, Remo sprofondava nella poltrona davanti alla TV in cucina, toglieva il volume e cominciava a bere grappa bianca, che bruciava l’adrenalina ed estingueva qualsiasi tipo di eccitazione.

***

Remo come al solito si svegliò alle sei, ogni volta in bagno veniva aggredito dalla sua immagine allo specchio, la testa gli girava, solo l’acqua fredda in faccia lo risollevava. Dopo la colazione usciva e alle sette entrava in fabbrica e per otto ore montava gli ugelli sui termosifoni. Sempre lo stesso lavoro, ripetuto migliaia di volte. Nelle ore lavorative i pensieri correvano, da quando sua moglie era andata via portando con se Jennifer, la loro figlia di nove anni, Remo avrebbe voluto solo lavorare e rapinare i tabaccai con suo cugino Ivan.

Pensava a tutto in quelle lunghe giornate, al futuro che la vita gli avrebbe riservato, al passato, quando cominciò ad andare in giro con quella famiglia proprietaria di un tagadà e i primi furti di motorini nei paesi. Rifletteva sulle vite distrutte e perse della sua famiglia, il padre truffatore che si ritagliava in paese dei finti ruoli nell’amministrazione comunale. La sorella irriconoscibile dopo gli interventi di chirurgia estetica, giustificati alla madre, unica vera lavoratrice della famiglia,con un candido “..sono per lavoro…”.

Pensava a Jennifer, chissà che sta facendo, chissà dov’è e se va bene a scuola. Ma soprattutto si chiedeva se, venivachiamata stracciona come succedeva a lui e ad Ivan a Fossalunga. A scuola i compagni, di certo dopo averlo sentito a casa nei discorsi dei genitori, prima gli chiedevano che lavoro facesse il padre e poi sibilavano “..vedi non lo sai, siete dei ladri straccioni…”. Lui non piangeva e non diceva nulla nemmeno a casa, a scuola andava bene ed anche alle superiori aveva buoni voti soprattutto in materie tecniche e scientifiche, che si facevano al professionale.

Sulla scia dei pensieri finiva il turno e poi andava a casa, ormai vuota, come sempre si sedeva nella grossa poltrona in sala e beveva grappa fino ad addormentarsi. Solo quando suo cugino lo aspettava davanti al cancello, significava che c’era un “lavoro” da fare.

***

Era una mattina di Febbraio e le campagne erano immerse nella bruma, era tutto ghiacciato. Questa volta Ivan veniva a svegliarlo e non come al solito ad aspettarlo davanti al cancello. Lo fece entrare e gli offrì un caffè, il mal di testa lo sovrastava ma riuscì comunque a seguire il discorso lucidissimo del cugino, che non beveva e non fumava mai. Gli spiegò che l’unica filiale rimasta ad avere una cassaforte era quella di Fossalunga, proprio il paese in cui erano nati e cresciuti e dove tutti li chiamavano straccioni e giostrai. La cassaforte raccoglieva i proventi di tutte le sale slot della zona, che negli ultimi cinque anni si erano decuplicate. Un furgone blindato alle otto di sera partiva da Fossalunga e portava gli incassi a Mestre alla sede centrale della Cassa di risparmio delle Venezie. Era da mesi che Ivan tutte le sere andava andava a bere il caffè al bar della piazza, lui era di ferro, le occhiate che gli dicevano “…giostraio…” non lo toccavano, e si infrangevano su di lui come moscerini spiaccicati sui fanali di una macchina. Ci andava per osservare le guardie private trasportare i sacchi di contante nel furgone, il suo piano era di colpire prima che cominciassero a caricare i soldi nel furgone blindato, stordirli dentro la banca.

Dubbioso Remo lo fece continuare, successivamente avrebbero caricato il danaro nel furgone di Ivan e sarebbero scappati verso solito posto, Ivan spiegò chiaramente che il furgone portavalori non poteva essere rubato, a causa della black-box che come un transponder trasmetteva il segnale alla centrale e che non c’era tempo per disabilitarla. Usandolo avrebbero portato i carabinieri direttamente all’appartamento di Katyusha.

Remo stordito dalla grappa della sera prima, chiese “ma perché hanno scelto la banca di un paese che fatica a vedersi nella carta geografica per tenere tutti quei soldi?”, Ivan rispose: “perché Fossalunga è una sacca da cui nessuno passa mai, ed è nascosto”. Sembrava tutto facile e lineare, come quando rubavano i motorini alle sagre paesane: due minuti di paura e poi a ingozzarsi di patatine e aranciata al bar.

Aspettarono qualche giorno, riuscirono a comprare un fucile a pompa e un kalashnikov, così secondo loro sicuramente le guardie non avrebbero reagito. Tuttavia armi del genere non le avevano mai usate.

Il colpo era fissato per l’ultimo venerdì di Febbraio, tutto era pronto: il pieno al furgone, le armi cariche che facevano paura solo a toccarle e Katyusha era pronta con un’altra macchina in caso di necessità. Si appostarono dietro ad un muro attiguo alla banca, che con un altro muro formava un sorta di piccolo androne dove nessuno poteva vederli, sarebbero scattati fuori appena le guardie entravano nell’anticamera della banca.

Arrivarono nella piazza del paese che come sempre era deserta, parcheggiarono a cento metri dalla banca e si appostarono. Ivan come al solito era impassibile, invece Remo aveva il cuore in gola, pensava che questa volta stavano facendo il passo più lungo della gamba. Quando il furgone blindato arrivò, l’adrenalina cancello ogni pensiero ed agirono senza esitazioni, nella sequenza prestabilita, le guardie vedendosi minacciati con quelle armi non reagirono ed aprirono la banca, disattivarono l’allarme e li condussero alla cassaforte, la aprirono. Con due colpi secchi alla nuca i due metronotte stramazzarono al suolo, Ivan e Remo li spogliarono e si vestirono con le tute dei due malcapitati. Uscirono dalla banca con i quattro sacchi di contante, dopo averli caricati nel doblò corsero via senza esitare. Dopo dieci minuti erano sulla statale 14 in direzione Mestre, come previsto non c’era molto traffico, sfrecciavano muti e colmi di paura verso l’appartamento.

L’impatto con la benna dello scavatore a lato della statale fu violentissimo, il FIAT doblò fu tagliato in due come un panetto di burro, ai lati della strada c’erano degli uomini già pronti a recuperare le borse con i soldi. Senza esitare tre uomini si precipitarono verso quello che rimaneva del furgoncino e presero tre dei quattro sacchi, uno si era squarciato e i soldi volavano da ogni parte. I tre salirono su di un Audi quattro verde, rubata, e a gran velocità si dileguarono nelle campagne.

Nell’ordine arrivarono l’ambulanza, i carabinieri e i pompieri, alcuni di loro trovandosi di fronte uno spettacolo del genere vomitarono presi dall’orrore che si gli si presentava, furono trovati resti umani a centinaia di metri. Del guidatore e del passeggero rimaneva ben poco, c’erano dei resti anche nella borsa squarciata ancora metà piena di soldi.

L’unica a sapere del colpo era Katyusha, che frequentava clandestinamente un avvocato penalista di Venezia. L’avvocato gli pagava l’affitto e le bollette, in cambio di favori sessuali. Lo studio era frequentato in particolare da alcuni componenti di una banda di veneziani, dedita al traffico di armi con i Balcani. L’avvocato avuta l’informazione da Katyusha e fiutato un possibile guadagno, la passò ai malviventi che organizzarono l’imboscata. Katyusha fu trovata, morta dal padrone di casa una settimana dopo, i carabinieri liquidarono il caso come “…suicidio…”.

Remo e Ivan furono sepolti in un’area esterna al cimitero, senza funzione “…tanto erano solo giostrai e ladri…”, così sentenziarono il parroco ed il sindaco.