Sul costone della montagna si staglia la sagoma d’un cavallo al pascolo: ogni tanto sventola la lunga coda, giusto per ricordarmi che non si tratta d’una statua.
È curioso ascoltare le chiacchiere di due viaggiatori di colore mentre fuori, dal finestrino, leggo il nome della stazione: “Sante Marie”. Quale siderale distanza separa le chiacchiere incomprensibili alle mie spalle (potrebbe essere una sorta d’inglese incastonato nella gutturalità dello swahili africano) dal nome curioso di questa stazione… è un paese qui in zona, ma ignoro cosa si nasconda dietro questo nome poco decifrabile. Vien da dire che ci si riferisca a più Marie, sante appunto. Come coniugarlo coi signori qui dietro? Il mondo sta indubbiamente cambiando.
Non che i fenomeni migrativi siano nuovi all’umanità: in fondo la diffusione del Sapiens Sapiens è giocoforza il risultato di molteplici e complesse migrazioni se è vero, come scientificamente provato, che discendiamo tutti una coppia che, 200mila anni fa all’incirca, ha abbandonato la culla africana per andare via via a sostituire dappertutto gli altri ominidi, a loro volta transfughi di precedenti migrazioni iniziate almeno due milioni d’anni prima. Il DNA mitocondriale di quella prima Eva, a quanto pare, pur con tante mutazioni s’è trasmesso di generazione in generazione sino a noi. Meno certo è l’Adamo Y-cromosomiale; come al solito, sul padre le riserve abbondano. Molto probabile che la nostra Eva sia partita con un gruppo di gente, magari alla ricerca di fonti di cibo e che il DNA degli altri “esploratori” si sia via via perso strada facendo. L’Adamo in questione difatti, oltre a non essere certo, neppure pare contemporaneo di Eva, sicché si deve essere inserito nella linea generativa in un secondo momento. Come che siano andate le cose, oggi siamo tutti figli di lei sicuri, di lui forse.
Tutto il resto, cultura, pretese di razza, linguaggi e via dicendo son solo il frutto dei luoghi, degli isolamenti e persino il colore della pelle si lega all’adattamento ai diversi fattori ambientali.
La lunga storia delle migrazioni, com’è ovvio, raramente è stata indolore. Sovente sono state guerre a provocarle. Di certo per quelle odierne, considerate le tecnologie cui siamo pervenuti ed i profondi scompensi tra le varie aree della terra, i “dolori” potrebbero essere ancor peggiori che nel passato.
Imparare ad accettarsi è opera certosina, basata sul buon senso. Bisogna innanzi tutto capire che solo la solidarietà ha permesso a quei nostri lontani progenitori di lasciare una scia di discendenti. Trovando un meccanismo di convivenza s’è potuto stemperare il disagio che derivava dalla competizione alimentare e, al contempo, mettendo assieme le risorse culturali, si son trovate le soluzioni per migliorare la vita e l’esistenza, lo spazio per tutti insomma.
Certo, ci son state persone speciali, capaci di elabora concetti ed idee d’avanguardia. Noi ne ricordiamo i nomi degli ultimi, quelli relativamente recenti. Ma nessuno conosce il nome del primo essere cui è venuto in mente di creare la ruota. Eppure, senza di lui, tutto il resto non sarebbe cominciato. E lo stesso vale per mille altre cose che oggi diamo per scontate, che pensiamo persino banali ed elementari, come quella di piantare in terra un seme per ottenere del cibo. Dalle caverne siamo usciti dandoci una mano l’un l’altro, non in competizione.
Non c’è bisogno d’esser degli storici per capire quante ricadute ci sono state in questo processo evolutivo ed è tutto da dimostrare che oggi si sia al “meglio”: per quello che c’è dato sapere, e sovente il sospetto è fortissimo, possono esserci stati altri apici evolutivi, spariti e di cui s’è persa memoria. Basta guardare le rovine di Machu Picchu o quelle nuragiche in Sardegna, le statue dell’isola di Pasqua o le piramidi di Giza, per rendersi conto che ignoriamo come certe cose sarebbero state realizzate con le povere “presunte” tecnologie dell’epoca.
Senza poi voler andare a dare fastidio a teorie extraterrestri…
Il cavallo sul crinale della montagna, quello sì ch’è l’apice evolutivo di un processo creativo e poi selettivo iniziato milioni d’anni fa. E la montagna stessa che i miei occhi vedono ora sparire mentre il treno riparte, è il risultato di stravolgimenti che possiamo solo immaginare.
Noi siamo appena gli ultimi secondi d’una storia complessa ed ignota. Il materiale di questo treno, l’oro che adorna le mani e le orecchie della ragazza che siede poco più in là, alcune sostanze che fanno di me un essere vivente, sono il frutto di reazioni nucleari innescate qualche miliardo di anni fa nel cuore d’una stella che, invecchiando, è infine esplosa in una stupenda supernova per spargersi in spazi inimmaginabili alle nostre piccole menti. Con le forze misteriose dell’universo poi a ricomporre infine un nuovo ordine, una nuova stella, un sistema solare, una Gaia sulla quale noi siamo comparsi, appunto, da meno d’un minuto.
Abbiamo una sola ed unica carta da spendere in questo gioco così enorme e vitale per noi: l’amore. E non può certo essere il colore della pelle o la difficoltà a capire le nostre diverse lingue che può svilire ciò che siamo. Ma la nostra stupidità, quella sì che può portarci al dramma. Lo ripeto: chissà quante volte è già successo, quanti passi indietro son stati compiuti.
Saremo capaci anche stavolta di ricominciare? La domanda si perde nel tunnel in cui siamo entrati. Il cuore nero della montagna e le luci non funzionanti d’un treno di pendolari, mi isolano in un buio pesto. Come essere immersi nell’inchiostro o in quel nulla che pare essere l’universo là fuori. Ci sono notti che rischiano d’essere troppo profonde, speriamo di non dimenticarlo.