Non sempre appare ciò che è.
Non sempre ciò che è appare.
Vite vissute negli eccessi, quelle di Mariana Malavento, così come quella di Oliviero Piscopo.
E motivazioni se ne possono pur trovare per giustificare tutto quel protagonismo e quel gran chiasso, che l’intelligenza scaltra degli eccentrici troppo spesso trova supporto nelle analisi, e nell’avvallo delle teorie degli psicologi, motivo per cui, alla fine, si è in grado di confessarsi e d’assolversi autonomamente, senza l’intermediazione di un prete o di uno strizzacervelli.
Questo almanaccava il commissario Guerrino Sangemini, facendo il punto della situazione in base ai chiarimenti, o supposti tali, di Mariana Malavento.
Tutto, però, stonava, in questa maledetta storia: la vittima, le parti in causa ed il presunto colpevole
Sul cadavere di Jacopo Imperiale, tra il collo ed il mento, erano state rilevate nitide tracce di saliva appartenenti, senza alcuna ombra di dubbio, ad Oliviero Piscopo, così come sue erano le impronte digitali riscontrate sul manico del coltello.
Gli unici addebiti di presunzione di colpevolezza coinvolgevano, in maniera diretta, solo lui.
Sarebbe stato in grado, l’ex attore, di congegnare la storia della sua accidentale caduta sul corpo del poeta ancora, forse, agonizzante, per spiegare le evidentissime tracce da lui lasciate sul suo cadavere?
Ma una intelligenza così acuta, da inventarsi una trama d’una siffatta logica, da sollevare comunque dubbi sulla sua colpevolezza, avrebbe anche pensato di cancellare le impronte della sua colpevolezza.
Sfumature così sottili che non sembravano appartenere al carattere di Oliviero Piscopo, noto alla polizia per storie di droga e di prostituzione, che viveva alle spalle di ricche signore annoiate.
La vita di Oliviero Piscopo era stata minuziosamente passata al setaccio, ma dalle indagini effettuate non risultava nessun legame, nessun contatto, né con il morto né con il suo entourage.
Perché quindi avrebbe dovuto ucciderlo?
Si poteva formulare, però, l’ipotesi che quella notte il gigolò, reduce da una festa borderline, sconvolto dall’alcol e dalle droghe, avesse incontrato il poeta e, assalito da un raptus improvviso, forse scaturito da un banale diverbio o da una puerile provocazione, lo avesse assassinato.
Ma cosa ci faceva Jacopo Imperiale nei viali del parco comunale, già chiuso a quell’ora?
Ma neppure lo aveva convinto troppo nemmeno Mariana Malavento che aveva spontaneamente confessato, con parole di fuoco, il disprezzo e l’odio per il genero, gettando ombre inquietanti sulla sua immagine di uomo e di letterato, nelle tante interviste rilasciate ai mass media, cosicché quando il commissario Sangemini le aveva chiesto chiarimenti sull’incongruenza tra quelle diffamazioni pubbliche al fulmicotone e quelle invece pacatissime, rilasciate in questura, ecco che saltava fuori una spiegazione da trattato di psicologia: l’esplosione del risentimento di una madre contro l’uomo che aveva irretito la figlia adolescente.
Di Mariana Malavento, sul cadavere del genero, non v’era nemmeno un capello e, seppur ci fosse stato, quella donna straordinaria, col suo sorriso più seducente, avrebbe ben potuto obiettare: capelli sempre se ne perdono, commissario, niente di più facile che mi sia caduto mentre gli spazzolavo la giacca.
Non sempre appare ciò che è.
Non sempre è ciò che appare.
Questa la prima regola a cui un buon investigatore deve sempre attenersi.
Verità apparenti. Verità accertate.
Oliviero Piscopo, con l’ostinazione dell’innocente, andava ripetendo sempre la stessa versione della sua storia, senza cambiarla di una virgola. Sta di fatto che con questo ritorno, seppur negativo, di notorietà vennero ritrasmessi i suoi vecchi film, ed una certa critica chiosò perfino, in tono benevolo, di una piacevole riscoperta delle sue sottovalutate capacità d’attore, cucendogli addosso il ruolo scontato, ma sempre di gran presa, dell’ eroe fascinoso e maledetto. Un regista molto famoso, schieratosi dalla parte degli innocentisti, (per convinzione sincera o per opportunismo?) gli propose, qualora fosse uscito da questa brutta storia, la parte di protagonista in un suo film. Così , ecco la faccia di Oliviero Piscopo campeggiare sulle prime pagine dei giornali ed affacciarsi dallo schermo televisivo, e da quello più ampio del cinema. Lettere d’amore e proposte di matrimonio gli piovvero addosso come manna imprevista, ed un’ avvocatessa di fama, la cui incommensurabile bruttezza era pari solo alla sua straordinaria bravura, gli offrì il suo patrocinio gratuito. Puntando, contro ogni pronostico, all’assoluzione piena per il suo assistito: un’indiscutibile affermazione di sé stessa, una intelligente rivalsa per le troppe volte in cui la sua poca avvenenza era stata posta in primo piano a svantaggio del suo immenso talento.
Ma tanto più le luci s’accendevano abbaglianti su questo caso, tanto più Helga si ritirava nell’ombra, totalmente schermata dalla madre che l’aveva resa inaccessibile a chiunque, minacciando querele dal momento che la ragazza era ancora minorenne, ed appellandosi a tutti gli emendamenti, quelli della Giustizia, quelli della Costituzione e quelli, non scritti, della Coscienza.
Helga rappresentava un punto interrogativo anche per il commissario Sangemini, che di donne aveva pure una discreta esperienza, però del genere adulto, ma di adolescenti no, di quelle era assolutamente all’oscuro.
Nulla sapeva della loro vita complicata.
Helga si nascondeva, come un topolino, nel suo pertugio iper protetto, lontana dai clamori e dai flash, di nuovo preda dell’anoressia e del mutismo claustrale, sorvegliata da quella portentosa madre che imponeva la sua presenza anche durante gli interrogatori.
Donna incredibile, questa Mariana Malavento, che non interferiva né con una parola né con un ragguaglio, ma che, come il commissario Sangemini ben intuiva, era lei a dirigere la scena.
Helga Malavento, invece, priva di trucco e con quella frangia infantile calata sugli occhi, sembrava ancor più giovane dei suoi, appena compiuti, diciassette anni.
Una cosina minuta, da cullare come una bambola stretta al petto.
Una bambina da cavalluccio a dondolo, da vestire con abiti di merletto rosa.
Che aveva da spartire, questa piccolina, col mondo austero della letteratura?
Perché gli era stata data in pasto?
Il grande poeta, Jacopo Imperiale, a secco d’ispirazione, attingeva dalle tettine esigue e dalle gambe esili di questa adolescente gli ultimi versi di una vena poetica ormai in esaurimento.
Rifletteva così, Guerrino Sangemini, che per gli intellettuali non aveva mai provato grande simpatia, seppur qualche libro lo avesse letto ma che, forse per via del suo carattere e del suo lavoro, era più vicino all’universo dei filosofi e dei matematici, dal momento che la funzione investigativa richiedeva capacità d’analisi e di deduzione.
La verità…cos’è la verità?
Si chiedeva, al momento smarrito, in corsa anche lui, e suo malgrado, su quella rutilante giostra mediatica.
Verità apparenti. Verità accertate.
Vera la storia raccontata da Mariana Malavento, coi toni del rancore ma anche di una genuina disperazione
Vera la storia di Oliviero Piscopo, seppur qui non ci siano testimoni a favore.
Vera anche la storia raccontata al telefono, ed in due parole, dall’anonimo balbuziente, basata su ciò che ha visto o immaginato di vedere.
Vera, infine, la pugnalata mortale che ha ucciso Jacopo Imperiale, e che il commissario Sangemini, se potesse, vorrebbe volentieri poter attribuire, come atto estremo di giustizia, ad Erato, musa della poesia, stufa di esser presa per i fondelli.