TRA LUCI ED OMBRE: BIOGRAFIA DI UN GIOVANE ARTISTA
La cena s’era protratta per il tempo stabilito dalla buona creanza, neppure un minuto di più, poi i due invitati s’erano congedati con la promessa di ricambiare “la squisita ospitalità”e la porta di casa Scalavino s’era richiusa alle loro spalle.

Sulla via del ritorno, padre e figlio camminavano affiancati, schermati dalla notte, assorti nei propri pensieri, in un silenzio che per entrambi aveva il sapore dei sensi di colpa. La serata s’era in ultimo rivelata disastrosa e Mimì non riusciva a perdonarsi di aver coinvolto, contro il suo volere, Giandomenico, per assecondare i desideri di Concetto Scalavino, che però, ad essere onesto, erano anche i suoi, perché agognava la serenità per quel figlio così tormentato: una stella destinata a brillare solitaria al centro di un cielo deserto. Un’immagine che gli faceva male e così avrebbe preferito vedere il suo Giandomenico configurato nel vasto firmamento come una stella infinitamente più piccola, meno luminosa, attorniata, però, da miriadi di altre stelle.
E lo scopo di quella cena, per Mimì, era appunto quello di offrirgli l’opportunità d’incontrare la stella più bella e irraggiungibile.

Dopo un lungo tratto di strada quel silenzio s’era fatto per lui insopportabile, perché lo percepiva diverso da tutti gli altri silenzi di cui sovente erano costellate le loro conversazioni.
Un silenzio ostile che tracciava, per la prima volta nel loro rapporto, una distanza.
Sentendosi colpevole aveva provato a giustificarsi. E a giustificare.
– Ti chiedo scusa per come sono andate le cose. Non era negli accordi di questa cena parlare di matrimonio. Scalavino ha agito senza il mio consenso e d’impulso. La sua unica giustificazione è che sinceramente ti ammira e vede in te quel figlio tanto desiderato e mai avuto. –

– Le scuse dovreste farle a Rebecca perché nessuna motivazione può giustificare l’umiliazione che le è stata inflitta. Umiliazione di cui siamo stati entrambi compartecipi: io col mio tacere e voi con il vostro accondiscendere. –
Aveva replicato, coinciso e amaro, Giandomenico, chiudendosi a qualsiasi altra obiezione.
Per la prima volta provava rancore verso il padre che teneramente amava, per averlo obbligato a quella pantomima. E verso se stesso, che in nome di quell’affetto, aveva acconsentito.
Quante cose stupide, folli, paradossali, si fanno per amore! Quante, e quali prove si affrontano in suo nome anche quando, consapevoli dei nostri limiti, si ha la certezza di uscirne sconfitti.

Ed era con quei limiti che Giandomenico, nella solitudine della sua camera, si predisponeva a fare i conti, maledicendo la sua mancanza di spirito e la timidezza endemica che lo portava a balbettare, poi ad arrossire e, in ultimo, ad isolarsi. Si disprezzava per essere goffo, insicuro, privo di quelle attrattive che destano l’interesse in una donna e dopo aver conosciuto Rebecca ancora più amaramente se ne doleva, perché immensamente gli era piaciuta. Lo sguardo dell’artista aveva catturato lo splendore dei suoi capelli e dell’incarnato; il bagliore scuro degli occhi; la flessuosità del collo e dei movimenti.
Lo sguardo dell’uomo, invece, aveva percepito che in Rebecca tutto era spontaneo, vero. Incontaminato
Non vi era nulla in lei di lezioso, artefatto, programmato ai fini della seduzione
…neppure quel suo profumo terso di foresta che s’era imposto ai suoi sensi, ammaliante come un incantesimo d’altri tempi.
Incantesimo che lo aveva travolto in un turbinio di emozioni e sentimenti nuovi e magnifici, impetuosi ed intensi, che incoerenti volgevano da quell’euforia alla disperazione, nella certezza che Rebecca mai si sarebbe potuta innamorare di lui, privo com’era di qualsiasi attrattiva fisica, scuro e taciturno. Indecifrabile. Era rimasto nel suo angolo, impassibile e silenzioso,  quando il padre di lei, in quel discutibile modo gliel’aveva offerta in sposa. Un silenzio che Rebecca di sicuro aveva interpretato come di rifiuto o di muto consenso.
Di disprezzo o di condiscendenza.
Ad ogni modo un silenzio riprovevole.

Ma quel silenzio era stato di riguardo verso il padre che con lo Scalavino vantava una lunga e solida collaborazione commerciale, e che la sua risposta istintiva, avrebbe potuto mettere in crisi. Un sodalizio che funzionava da decenni perché il mercante, il più grande importatore di legname dalle Americhe, era da sempre un sincero ammiratore della famiglia Messinese e della la sua progenie di raffinatissimi, rinomati mastri ebanisti, eccellenze di livello nazionale ed internazionale, perché i  due figli maggiori di Mimì, avevano fondato a Parigi un laboratorio sperimentale, di grande rilevanza europea, precursore delle future scuole di arti applicate.
Concetto Scalavino, il più grande importatore di legname dalle Americhe e dall’Africa,  era il fornitore esclusivo per le attività della famiglia Messinese, di cui Mimì era l’amministratore unico.
Un rapporto privilegiato, quello tra Mimì e Concetto, e che lui, quella sera, con una risposta istintiva avrebbe potuto mettere in crisi. Suo padre stava invecchiando e l’ultima cosa che voleva era quella di complicargli la vita, soprattutto dopo la sua decisione di prendere i voti.
Decisione che Mimì non osteggiava ma neppure approvava, e quella cena era stato il suo estremo tentativo per dissuaderlo. L’incontro con Rebecca avrebbe potuto indurlo ad un ripensamento e, forse, perfino ad una visione diversa di se stesso.
Una riconciliazione con la sua immagine intima. E quella pubblica
…perché Giandomenico Messinese, l’astro luminoso,”non solo un raffinato mastro falegname ma un genio che coniuga nell’ebanisteria  l’arte della scultura, quella  dell’ingegneria e della pittura, perché è lui stesso, sofisticato paesaggista, a realizzare gli originali dipinti dei suoi arredi”,  il genio riconosciuto, non era affatto amato dalla sua gente.

Quel giovane pallido, dagli occhi color del mare e dalle lunghe ciglia femminee, più somigliante ad una abate che ad un artista, blindato nella corazza del suo pastrano nero e di quel rigido riserbo che gli era valsa l’etichetta di misantropo. La sua natura solitaria, e la totale mancanza di protagonismo, lo avevano indotto a fuggire i riflettori e rifugiarsi nella sua bottega d’artigiano, frequentata da giovani apprendisti desiderosi d’apprendere le sue raffinate tecniche d’ebanista. E dal momento che Giandomenico non era mai stato visto in compagnia di una donna, e in quella sua bottega ci trascorreva spesso anche la notte, erano fiorite illazioni maligne riguardo la sua propensione sessuale.

Eh, l’illustrissimo maestro anche stanotte… lavora!

Insinuavano, dandosi di gomito, i nottambuli che transitavano nella stretta viuzza dove era ubicato il laboratorio dell’ebanista, da cui anche a tarda ora trapelava la luce.
Quelle congetture irriguardose erano così assurte a verità incontrovertibili, creando un incolmabile divario fra lui e la sua gente che pur era costretta, per via di quel suo genio nazionalmente conclamato, a riconoscerlo rappresentativo di tutti loro, quando invece era di disprezzo il sentimento dominante nei suoi confronti. Giandomenico Messinese: un intruso. Un alieno, perché neppure le sue caratteristiche fisiche combaciavano con quelle loro. Sulla base di questo disconoscimento anche l’onestà di sua madre, era stata messa in dubbio, perché lui, chiaro di occhi e di capelli, non somigliava a nessuno dei suoi fratelli.
Mimì aveva sorriso di quelle chiacchiere mormorate, che proprio quel figlio dagli occhi chiarissimi e dall’incarnato pallido, così diverso dalla razza bruna dei Messinese, era quello che più gli somigliava.  Quel figlio enigmatico, luminoso ed oscuro, era quello che sentiva più suo.
All’inizio s’era provato a spiegare che nella famiglia di sua moglie scorreva sangue normanno, ma aveva presto scoperto che quella verità, pura e semplice, veniva invece screditata con ferocia, come una giustificazione puerile a mascherare l’adulterio, estrema difesa per salvare l’onore e la faccia davanti all’opinione pubblica. Mimì, allora, s’era imposto di tirar dritto per la sua strada e non prestare più orecchio alle calunnie che alle sue spalle, e a scapito di ogni plausibile obiezione, si sarebbero continuate a sussurrare.
Tutt’ora nel presente così come era stato nel passato.

UN UOMO LEALE
Della fama nebulosa del giovane artista Rebecca non sapeva quasi nulla, ma seppure fosse stata a conoscenza di quei supposti particolari scabrosi che ne alimentavano la leggenda, il suo giudizio su Giandomenico Messinese non sarebbe cambiato, perché l’aver vissuto in solitudine la maggior parte della sua giovanissima vita l’aveva preservata dalla trappola dei pregiudizi.
In quel giovane taciturno e che facilmente arrossiva, Rebecca aveva ravvisato i sintomi di una sensibilità estrema, un animo nobile e un carattere superiore, che s’affermavano nello sguardo piuttosto che nelle parole. Un uomo leale che mai si sarebbe reso complice di una prevaricazione.
…questo, Rebecca, aveva visto in Giandomenico.
Questo avrebbe raccontato a Gemma, delegata quella sera a far da custode alla loro madre che aveva trovato nella follia la sua libertà.