La scogliera.

SeaVille.
Un paesino di poche anime situato a nord di Dublino e distante da esso circa venti chilometri.
Giunti al crocevia  tra le città di Evon e di Small Light, la cappella  votiva dedicata a S.Patrizio ed un filare di nuvoloni  grigi avrebbe indicato il percorso da compiere.

Incrociando le dita e affidandosi al proprio  mezzo di trasporto che dovrà reggere l’asperità della strada, il viaggiatore dovrà presto confidare nella buona sorte o nella fede.
La mancanza di protezioni dallo strapiombo su entrambi i lati, potrebbe indurre  ad avere  un approccio diretto  con quello lassù.

Quella che definirei  più una mulattiera che una strada, era assai pericolosa da affrontare.
Le trascorse amministrazioni cittadine avevano fatto di questa insignificante strada un continuo vessillo usato come slogan propagandistico.

Sembra ancora di sentire borbottare l’onorevole laburista Don Laurie, tutto impettito nel suo vestito grigio, con quei baffoni a manubrio e i capelli impomatati.

“Apriremo al mondo questa nostra cittadina per tanti anni bistratta, con la costruzione di una nuova strada . . .   che porterà  benefici economici a tutta la nostra popolazione”.

Ebbene questo non avvenne mai.
Credo sia stata una fortuna.
Il racchiudere in una specie di scrigno questo piccolo paese fuori dal mondo esterno, si è rivelato un segno di lungimiranza.

Direi di più.
Un segno di stima verso i suoi concittadini, come si dovesse gelosamente custodire qualcosa di intimo ed una propria integrità   culturale.

Amore.

Sì, direi amore, proprio come è questa storia.

Un amore vissuto con gli occhi della gioventù.
Impetuoso e nello stesso tempo drammatico.
Tenero e altrettanto crudele.
Pieno di sogni e speranze, presi a schiaffi dalla realtà.

Meredith e Connor.
I nomi dei ragazzi che vissero questa storia.
Una storia vissuta in un paese quasi dimenticato dal mondo; un paese piccolo e non paragonabile certo alla grande città, ma dove i sentimenti avevano raggiunto l’apoteosi.
Dove il vento raccoglieva le frasi appena sussurrate e le spargeva al mondo.
Dove il mare imponente con le sue fragorose onde comunicava loro che bisognava lottare per conquistare.
Dove i gabbiani giocavano a rincorrersi in una sorta di incontro amoroso.

Era l’inizio dell’inverno.
Il sole pallido aveva appena fatto capolino dalla nubi costanti che avvolgevano il mare.
Con la mia cartelletta della scuola, affrontavo alle prime luci del giorno la stradina che mi avrebbe portato a prendere il bus per la città.

Quella mattina incrociai una automobile straniera.
Si dirigeva sbuffante verso la salita che porta alla casa del vecchio Sonny, morto poco tempo prima.
Passandomi accanto, sul retro, notai un giovane con il viso appoggiato al vetro: sembrava stesse andando ad un funerale.
Uno sguardo triste che non potei non notare e che mi colpì molto.
Inoltre emerse anche quella sorta di curiosità “femminile”, che portava a chiedermi chi fosse mai.

Finita la scuola, tornai di tutta fretta a casa.
La notizia dell’arrivo di nuovi abitanti a SeaVille doveva aver già  fatto il giro tra le comari in una battibaleno.

Varcai la soglia di casa, quasi non aprendo la porta.
Lanciai lo zainetto verso l’angolo del piccolo soggiorno con tale forza che il contenuto ne fuoriuscì  tutto.
Nello stesso istante del lancio le urla di mia madre arrivarono al cielo.
– Meredith . . .   quante volte!! –

Bastò un abbraccio per chetarla, anche se quella agitata ero solo io.

-Mamma, mamma dimmi tutto.-

-Tutto cosa figlia mia, prendi fiato.-

-Tutto mamma, chi sono, da dove vengono, cosa hanno intenzione di fare.-

-Ah, adesso ho capito.
Parli della famiglia Sirius arrivata stamani?
Siediti, bevi un bicchiere di latte con foglie di menta ed ascolta.
Appena entrati in paese, le voci erano già circolate di gran carriera.
Dovevi vedere le signore Fliam e Stienbeck, che ancora con i bigodini in testa e delle ciabattine davvero molto intraprendenti venivano a bussare alla nostra porta, riversando addosso fiumi di parole.
In sintesi, la famiglia Sirius è arrivata qui in paese da Londra.
Il capofamiglia è stato mandato qui per un periodo non precisato per degli studi naturalistici, per conto di una famosa Università.-

-Si, ma il ragazzo?-

-Quale ragazzo?- rispose mia madre.

-Ah sì, quel ragazzo!
Il suo nome è Connor.
Ha 16 anni, quindi due più di te e frequenterà la scuola in città proprio come te.-

Il mio volto, illuminato dalla gioia, venne subito notato da mia madre che su quelle cose aveva la vista di un’aquila.
Ma non mi disse nulla, assecondandomi.

I giorni seguenti furono tutti scossi da battiti del cuore accelerati.
Il viso di quel ragazzo mi aveva sconvolta.
Non riuscivo a non pensarci.

Quel martedì mattina partii di casa in tutta fretta perché già in ritardo.
A metà percorso, sulla curva del Corvo nero, le nostre figure si incrociarono.
Lui proveniente da destra, io da sinistra.
Abbassai lo sguardo dalla vergogna.
Strinsi al petto la mia cartelletta e aumentai il passo.
Ma una voce gentile mi disse.

-Tu devi essere Meredith.-

-Sì-, risposi -Ma come fai a sapere il mio nome?-

-Beh, è facile, ho contato a Seaville circa 125 anime.
Di queste la maggior parte è sopra i 75 anni e noi ragazzi siamo davvero pochi.
Inoltre ti ho notato.-

Il rossore ormai stava invadendo tutto il mio viso, ma con piglio deciso domandai perché avesse notato proprio me.

-La tua riservatezza e nel contempo  la tua freschezza-, rispose.

Il suo linguaggio da cittadino mi piaceva.
Le nostre mani quel giorno si strinsero, nel lieve attimo delle presentazioni.
Vi  confesso che lavai la mia mano solo il giorno dopo.

I giorni a seguire furono un rincorrersi di emozioni ed un crescendo di ore passate con Connor.
Percorrevamo la strada chiacchierando talmente tanto e di tutto, che non ci si accorgeva del tempo che scorreva.
Poteva piovere, nevicare, tempestare, avere il vento che ti spostava dalla posizione eretta.

Niente.

Il mondo, era sì  intorno a noi, ma come semplice elemento decorativo.

Passarono i mesi, ed i primi segnali che la primavera era alle porte erano evidenti.
Soppiantammo presto le pesanti casacche scolastiche con divise estremamente più leggere e graziose.
Le mie gambe lunghe e ossute, ma dritte, vanto di mia madre, furono oggetto dello  sguardo di Connor.
Ne fui felice.

L’ultimo giorno di scuola, al nostro ritorno, lunga la famigerata via che portava a Seaville, le nostre mani si unirono.
Le braccia iniziarono a dondolare e un istante dopo le labbra si posarono l’una sopra l’altra.
Chiusi gli occhi.
Fu un bacio breve. Ma aveva suggellato il nostro amore. O almeno riconosciuto.

Le corse sulle nostre biciclette sgangherate, nella discesa che portava ai piedi della scogliera, erano memorabili.
La sfida a chi arrivava ultimo, era ogni volta lanciata.
Il pegno da pagare andava sempre a finire nella solita, effervescente, travolgente maniera.
Baci appassionati.

Quando percorrevo quella discesa con i miei capelli rossi e ricci toccati dal vento e le gambe in aria non appoggiate ai pedali, sembrava fosse una felice salita verso il cielo ed il sole, dove il pedalare fosse superfluo e vincere ancora meno.

Quando quel giorno mi prese la mano e solo con lo sguardo mi convinse a seguirlo, in quel prato sembrava che i fiori ci facessero spazio per passare e gli stessi gabbiani si allontanassero per riguardo.

Alla vecchia quercia di Evon conoscemmo i nostri corpi con sorprendente naturalezza.
Fu veramente magico.
Pensai di essere la donna più felice del mondo e di possedere il tesoro più grande al mondo, come neanche un sultano avesse mai potuto avere.

I miei progetti per il futuro con quel ragazzo stavano maturando giorno dopo giorno.
Vedevo già una casa tutta nostra, piena di ragazzini urlanti che si nascondevano dietro la mia gonna o tra le gambe del papà.

Vedevo la mia mamma finalmente divenire nonna e far schiattare di invidia tutte le comari del paese, anche se non lo penso veramente ma forse un pochino si.

Ma ero ancora troppo giovane. Non sapevo che la vita mi avrebbe messo di fronte ad una sfida che dovevo sostenere.
L’estate stava ormai volgendo al termine e Connor quel giorno mi disse che sarebbe dovuto partire per Dublino.
Suo padre aveva bisogno di lui per circa una settimana.

Io non ne fui certo felice.
Il sol pensiero di separarmi da lui mi faceva venire la neve in pancia.
Mio malgrado capii la situazione.
Ci salutammo quella mattina di fine agosto, quando il sole non aveva fatto ancora capolino da dietro la linea dell’orizzonte.
Il vento era ancora fresco, ma sentivo il calore del suo corpo attraverso la giacca  che mi tranquillizzò.

Ci fu un susseguirsi di telefonate giornaliere.
Nel pomeriggio tardo correvo al pub di John, l’unico che aveva il telefono pubblico.
Lì le parole e le promesse venivano abbondantemente profuse.
Precipitai nello sconforto, quando quel giovedì Connor mi disse, abbassando la voce, quasi vergognandosene che la sua permanenza a Dublino si sarebbe prolungata.
Suo padre aveva deciso che lui si sarebbe fermato da sua sorella e avrebbe frequentato lì l’anno scolastico.
Questa scelta non fu motivata, e accettata malvolentieri da Connor.

Mi si raggelò il sangue.
Quando l’avrei rivisto?
Quando avrei ancora potuto abbracciarlo?
Quando avrei potuto posare le mie labbra sulla sue?

Mia madre mi vide tornare a casa e capì subito.
Mi avvolse nel suo abbraccio e confortandomi mi disse solo poche parole che riaccesero la speranza.
– Vedi Meredith, io ho capito l’importanza di un amore perso, quando papà è stato chiamato dal signore. Quindi dico a te: combatti, non mollare.
Vuoi veramente bene a questo ragazzo?
Allora parlagli”.-

La mattina dopo presi la corriera per Dublino, quella delle sei.
Solo pochi viaggiatori, ma se erano come me, con un tale carico di speranza, l’autobus si era già riempito.
Arrivai sotto casa sua.
Non ebbi la forza di suonare il campanello.

Attesi un po’, appena distante dalla casa. Sapevo che doveva uscire prima o poi.
Eccolo.
Feci per avvicinarmi, ma una macchina sbucò all’improvviso fermandosi davanti a lui.
Una ragazza della sua età si avvicinò a lui e lo baciò.
Lui salì e partirono insieme.
Lo sgretolarsi di una montagna avrebbe causato meno danni di ciò che quella scena aveva provocato nella mia anima.
La mia mente faceva a cazzotti col mio cuore, c’era ancora una porticina aperta per la speranza?
Girovagai per la città come inebetita.
Molte ore dopo mi ritrovai davanti a casa sua, come se avessi percorso un cerchio maledetto, che mi aveva riportato dove non sarei mai voluta tornare.

Una voce mi chiamò.
-Meredith sei tu?
Cosa fai qui, potevi avvertirmi.-
Mi voltai con  le poche forze che mi erano rimaste. Mi sentivo triste e ferita e gli lanciai uno sguardo talmente carico di odio che ne rimasi sorpresa anch’io.

Connor capì al volo.
– Sì, è vero, avrei dovuto parlartene. Lei si chiama Jenny.-

-Taci, sta zitto, non voglio sapere il suo nome.
Voglio solo sapere il perché.
Perché mi fai questo?
Perché calpesti il mio amore?
Perché ho visto in te un angelo e trovo invece un maligno?
Addio Connor-.

Il ragazzo invano cercò di stringerle il braccio, un ceffone incontrò il suo viso.

Ripresi la corriera.
Questa volta il viso malinconico incollato al vetro era il mio.
Scesi al crocevia, ma non mi diressi subito a casa.
Presi la discesa che portava alla scogliera.

Volevo ancora una volta vedere i luoghi che avevano fatto di me una donna.
Anche il mare sembrava rabbioso, tanto forte si rifrangevano le onde sugli scogli.
Mi girai come se fossi chiamata.
Alle mie spalle la scogliera mi guardava dall’alto del suo essere.

-Sì -, pensai.
Per amore.
Sì, per lui l’avrei scalata a mani nude.