CONFIDENZE PATERNE
Concetto Scalavino s’era reso conto d’aver ecceduto quando aveva visto Mimì Messinese terribilmente sbiancare e flettere le ginocchia e, se di riflesso non l’avesse prontamente sostenuto, di  certo sarebbe stramazzato a terra.
Mimì Messinese, la fisionomia stravolta, boccheggiava in carenza di aria e di parole, tant’è che il commerciante aveva temuto un attacco di cuore, e già manovrava a slacciargli il colletto quando l’altro, svincolandosi da quel contatto, lo aveva respinto con le sue deboli forze.
Il buon senso lo aveva indotto a rispettar la distanza imposta e nel frattempo elaborare una strategia per uscire dal cul de sac in cui s’era andato a cacciare.
Mimì Messinese s’era accasciato su una sedia, il volto coperto dalle mani e le spalle scosse da singhiozzi, rattrappito su se stesso, imbambolato, incapace di una parola o di un gesto di rabbia, tant’è che Concetto Scalavino s’era già avviato alla porta convinto d’aver compromesso non solo il suo piano ma pure i rapporti col suo più illustre cliente, quando questi, invece, inaspettatamente gli aveva chiesto di rimanere.

Che suo figlio non riscuotesse simpatia lo sapeva: troppo timido e troppo insicuro, non riusciva a mostrarsi nel verso giusto, tant’è che spesso aveva dovuto presenziare, in sua vece, anche ad eventi importanti, come ultimamente era accaduto con monsignor Galimberti, l’inviato di Sua Santità, perché Giandomenico era stato colto da una febbre improvvisa, causata dall’ansia e da quella sua sensibilità così esasperata.

– Sensibilità d’artista. –
Aveva sottolineato, con solennità, l’altro.

– D’artista, lo sappiamo io e voi, ma il popolo no. Per la gente Giandomenico è un arrogante, uno schizzinoso, ed ora, dalle vostre parole, anche un depravato. Ma, se  fosse stato vero, Sua Santità gli avrebbe forse commissionato un incarico così prestigioso?-
A quest’accorato interrogativo, Concetto Scalavino, aveva scosso il capo in segno di diniego e ribattuto con convinzione: chiacchiere maldicenti a cui non dovete prestare orecchio. Il popolo si sa è per natura invidioso e se prende in antipatia diventa anche maligno. Don Mimì, Giandomenico è un grande artista, e dovete essere fiero di lui. E’ questa l’unica verità in cui dovete credere. –

– Fiero lo sono, ma so anche che un talento come il suo avrebbe abbisognato di spalle più forti e di un carattere più prepotente. –
L’altro aveva sospirato afflitto

– Una moglie, Don Mimì, è quello che ci vuole per Giandomenico. Una giovane accorta e di carattere,  capace di fare i suoi interessi e di sostenerlo. Ricca, perché un artista deve occuparsi solo della sua arte e non essere afflitto da quisquilie, e problemucci materiali, come qualsiasi altro mortale. E bella, perché la bellezza ispira poesia e un artista vive di poesia. Una moglie metterebbe a posto molte cose. La nascita di un figlio, poi, farebbe zittire le malelingue e donerebbe serenità al nostro artista. –
Aveva controbattuto, deciso, Concetto Scalavino.

– Una moglie…ma chi? Giandomenico non ha mai palesato l’intenzione di sposarsi né mostrato interesse per nessuna delle giovani di nostra conoscenza. E’ così chiuso. Impenetrabile come un riccio.-
Aveva ribadito sconfortato il Messinese

– Eppure ci sono donne capaci di trasformare gli aculei del riccio in dita gentili. La mia figlia più giovane, ad esempio, appartiene alla specie. Odora di femmina, Don Mimì, un profumo da risvegliare i sensi ad un morto, ed un caratterino da far rigar dritto i vivi. –
Gli aveva rivelato con un sorriso.
– E’ una confidenza, questa mia, che solo a voi mi permetto di fare, da padre a padre, dettata dalla stima incondizionata che nutro per voi e per la vostra famiglia, e per Giandomenico in particolare, che merita il meglio del meglio. Ed è proprio quello che oggi, tramite voi, gli sto offrendo. –
Aveva concluso la sua arringa finale con una mano sul cuore, a testimoniare l’onestà delle sue affermazioni.

Mimì Messinese, ancora frastornato, aveva però trovato il coraggio di chiedere: ma voi cosa ci guadagnate in tutto questo?

– L’onore grande d’apparentarmi con voi! –
Aveva risposto, con convinzione, Concetto Scalavino.

Per il commerciante le cose si stavano avviando nella giusta direzione dal momento che il Messinese non  solo non aveva rifiutato la sua proposta ma, anzi, se ne era dimostrato perfino grato.
Sapeva, Concetto Scalavino, di averlo ora in pugno e che neppure serviva stringere troppo la presa, e così, molto accortamente, aveva disserrato le dita e aperto il palmo affinché l’altro si sentisse fiducioso e a proprio agio. Confortato.

Mani capaci, con le quali aveva materialmente costruito il suo impero e sul quale, finalmente, avrebbe fondato la sua dinastia attraverso il matrimonio morganatico tra la sua piccola “regina in miniatura” e il giovane artista ieratico.
Unione, i cui discendenti, avrebbe avuto il suo sangue e il suo cognome.
Clausola, questa, che era stata accettata dal Messinese che nutriva altro genere di sensibilità, e quella di insignire i futuri  discendenti anche del cognome materno, gli era sembrato un innocente egocentrismo, che l’usanza del cognome doppio, triplo o a cascata, era un vezzo in uso in molte famiglie di rango a testimoniare il lustro delle parentele acquisite.

Se per Concetto Scalavino l’unione tra Rebecca e Giandomenico significava l’inizio della realizzazione del suo sogno di grandezza, per Mimì Messinese, invece, sarebbe stata la fine delle maldicenze su suo figlio. Non s’era pienamente reso conto, fino a quel momento, di quanta stanchezza ed amarezza aveva accumulato nel corso degli anni per via degli inganni consapevolmente subiti, delle ipocrisie accettate, dei bisbigli e dei silenzi repentini, delle strette di mano fuggevoli e delle occhiate irridenti.
Ora, finalmente, tutto questo sarebbe cessato.

Con questa certezza s’era avviato verso casa, a passo spedito e le spalle erette, di nuovo in sintonia col mondo, che gli pareva di esser rinato e avrebbe spontaneamente, lui così schivo, condiviso quella sua emozione con chiunque, che pur era così evidente quel suo inedito stato di grazia, leggibile sulla sua bocca che non smetteva il sorriso, e nel piglio deciso con cui affrontava la strada.
Mimì Messinese captava gli sguardi, frontali e trasversali, in modo nuovo, tant’è che nessuno, tra quelli incrociati, gli era parso canzonatorio o irrispettoso o, peggio ancora, di disprezzo.
Gli sembrava che la Sicilia intera fosse al corrente dell’imminente matrimonio, che è risaputo che le notizie corrono, anche quelle non ancora annunciate, figuriamoci questa sua già formalizzata nei dettagli.
Così non si sarebbe affatto meravigliato se qualcuno lo avesse fermato per congratularsi delle nozze future.

Mentre un rinato Mimì Messinese, soavemente imbaldanzito, s’avviava celere verso casa per compartecipare i suoi alla lieta novella, Concetto Scalavino, invece, volutamente ritardava  il rientro, inoltrandosi su stradine secondarie e poco frequentate, per avere il tempo d’imbastire argomentazioni convincenti da poter far digerire ad entrambe le figlie quella sua decisione, presagendo che non sarebbe bastato il pugno di ferro per imporsi ma che avrebbe piuttosto dovuto predisporsi alla pazienza, per far sembrare gustosa quella pietanza che solo il cuoco trovava appetibile.


UN SEGRETO DI FAMIGLIA
Rientrando aveva invece trovato lo scompiglio, con la moglie che, eludendo la sorveglianza di Gemma, aveva scalato un alberello tra i cui rami s’era appollaiata, con il retino in mano, per la consueta caccia alle stelle.
Legato alla catena, e rischiando a tratti lo strangolamento, il cane lascivo abbaiava impotente e rabbioso, con acuti lancinanti e prolungati, che avevano richiamato un manipolo di cani randagi che premevano alla cancellata con la forza disperata dei loro muscoli denutriti.
Quel trambusto aveva finanche attirato l’attenzione della serva sordomuta che sbirciava dall’uscio della cucina, mentre Rebecca, la gonna avvolta sui fianchi, s’apprestava con agilità d’acrobata a scalare l’alberello dove la pazza s’era rintanata con l’intento di assaltare entrambi i carri dell’Orsa.
Gemma, nel frattempo, s’era munita di uno specchio attraverso cui convogliava i fragili raggi del sole al tramonto fra le intercapedini dei rami più bassi con lo scopo di creare l’illusione di stelle cadenti, e indurre la madre a scendere dall’albero.
E ben aveva assolto al compito quell’ingannevole luminescenza,  che già la pazza si predisponeva alla discesa, incurante dei graffi inflitti dalle fronde, impavida ed incosciente, non si curava a saggiare la consistenza dei rami a cui s’affidava nella discesa, cieca al pericolo e sorda alle voci che da basso l’incitavano di fare attenzione, indirizzandola, come se lei fosse dotata di una qualche ragionevolezza.
Nell’eccitazione del gioco aveva però mancato la presa di un ramo, e di certo sarebbe precipitata se Rebecca non l’avesse prontamente afferrata per un braccio.
…e ancora, sospesa nel vuoto, continuava a scalciare e a reclamare, con voce di bimba, il retino che aveva perduto.

La muta dei cani randagi, che mai aveva smesso di ringhiare, aveva impedito ai curiosi d’avvicinarsi al cancello.
Una fortuna questa, che lo scandalo della moglie vaneggiante, appesa nuda a un ramo, assolutamente doveva rimanere circoscritto al perimetro interno del giardino.
Tranne  le due figlie, e la serva sordomuta, non c’erano altri testimoni oculari.
Non era questo il momento che quel segreto famigliare divenisse pubblico.
Non ora, con un matrimonio imminente e la gloria a portata di mano.
Questo rifletteva assistendo alla scena all’esterno dello steccato, Concetto Scalavino mentre Gemma, con una coperta in mano, correva a prestare soccorso alla madre e alla sorella.
Oltretutto questa vicenda gli forniva lo spunto per mettere al corrente le figlie del suo progetto, e senza far ricorso alla diplomazia, riguardo al ruolo che da quel momento avrebbero dovuto rivestire.