A quei tempi negli anni trenta, Maria orfana di genitori uscita da un orfanotrofio, era già sposa a soli diciannove anni.
Non riusciva a concepire un figlio, e per questo in casa era maltrattata dal marito e da una suocera malefica, e tutto il paese l’additava.

Lei ormai era rassegnata, anche se allora una diagnosi medica era ben lontana. La sua mente fluttuava in un mondo solo suo. La notte inquieta non dormiva e vagava per la casa al buio, anche se in casa sapevano del suo soffrire, nessuno dolcemente la riportava alla realtà.
Incominciò ad allontanarsi fuori al buio, si aggirava per la campagna nuda. Solo allora per evitare ulteriori chiacchiere in paese, la famiglia decise per lei.
Urgeva un manicomio.

Maria si ritrovò catapultata in una stanza con sbarre infinite. Anche il suo giaciglio di ferro,
era una gabbia.
Si aggiravano per le stanze inservienti, che sembravano secondini di carceri.

La sua prima cura dentro quel luogo, furono le docce fredde: la mattina veniva prelevata e condotta da quei loschi individui in una stanza piena di vasche in metallo. Lì si compiva il rito. Serviva per calmare i comportamenti dei pazienti. Il suo corpo invece rispondeva tutt’altro, la sua mente urlava, non bastava.
Iniziarono a iniettargli dosi di insulina, per indurla in ipoglicemia e rendere il suo corpo in stato comatoso, inerme.

Maria non era pazza, lei sentiva i passi di quegli aguzzini che si avvicinavano e il suo tremore aumentava, sotto quella camicia bianca che la teneva prigioniera.
Urlava in silenzio quel dolore e così immobile a turno abusavano di lei.

Solo alcuni giorni si sentiva sollevata, era il turno di due inservienti donne, anche loro sembravano dure nei modi, ma erano pur sempre donne.
In fondo non la maltrattavano, a Maria sembrava solo che l’accudissero.

Anna, una delle due riusciva anche a farla parlare, Maria allora cominciò a raccontare la sua vita di madre negata. Anna aveva capito che non era nata tarata, ma solo fatta divenire così da gente incosciente, senza scrupoli.

Una mattina Anna trovò Maria nel suo letto sommersa da vomito, i conati continuavano. Fece due conti con la mente, mestruazioni assenti da due mesi, il pensiero la ricondusse ai suoi colleghi inservienti, conoscendoli bene.
Maria era incinta.

Con le sue braccia possenti tirò su Maria da quello sporco disastro che ormai la sommergeva, la portò verso le docce, cominciò a lavarla. Sotto quell’acqua gelida Maria sentiva il tepore delle mani di Anna, come carezze.
Anna conosceva bene come funzionasse la mente di una donna che come lei non aveva potuto avere figli e con tranquillità cominciò a parlargli, “Tu non sei pazza, farò del tutto per farti uscire di qui.”

Una notte Anna si intrufolò nella stanza di Maria, aveva portato con se degli abiti, la vestì, e per mano la condusse fuori, Maria in silenzio la seguiva. Intanto pensava a quel periodo, dove la morte per lei sembrava l’unica amica a cui aggrapparsi. Sotto una pioggia battente Anna la condusse nella sua casa, dove ad attendere c’era suo marito, che accolse con un abbraccio Maria, come una figlia. La figlia che non avevano mai avuto.