Era ormai l’imbrunire quando Sergio accostò la sua macchina davanti al bar “Il tramonto d’oro”. Lei adorava i tramonti, pensò. E lui aveva bisogno di una pausa. Non ce la faceva a rimettersi in macchina dopo una giornata del genere. Trecento chilometri lo separavano da quella che aveva imparato a chiamare casa. Non era propriamente stanco e ancora non si accorgeva di essere spossato.

Tergiversava, ecco quello che in realtà stava facendo senza rendersene propriamente conto: mettere in moto e partire avrebbe voluto dire lasciarsi tutto alle spalle, come aveva fatto tanti anni prima.

Controllò l’orologio senza far veramente caso all’ora, sospirò e procedette alle operazioni di manovra. C’era abbastanza spazio tra la panda rossa e la Renault Clio grigia, eppure sbagliò e gli toccò uscire per rientrare meglio, sterzando al momento giusto. Per fortuna non c’era molto viavai di macchine e nessuno si arrabbiò per il banale errore.

Scese dalla macchina con la lentezza e la fatica di chi ha affrontato una giornata difficile e a testa bassa attraversò la strada per raggiungere l’ingresso del locale che aveva intravisto guidando. Dando le spalle all’auto schiacciò il tasto con il simbolo del lucchetto chiuso sulla chiave. Il “plin plon” emesso gli risvegliò un ricordo: quando la chiusura automatica era un extra che aggiungeva costi all’acquisto di un’auto, lei ne imitava il suono girando la chiave e sorrideva, di quel suo sorriso complice anche con le cose del mondo che la circondavano. Lo stesso faceva quando doveva parcheggiare, imitando i sensori di parcheggio, velocizzando e acuendo il pin pin pin più che si avvicinava al parabrezza delle altre macchine.

Non prendeva proprio mai nulla sul serio, pensò, e lui era arrivato a detestare quella forma di ironia inarrestabile, che tanto lo aveva sorpreso e divertito all’inizio della loro storia.

Scosse la testa e varcò la soglia: ormai era più che convinto che si era meritato almeno una coca cola prima di ripartire, visto che bere alcol non era prudente.

 

Appena entrò pensò che il locale fosse una di quelle chicche che solo lei sapeva scoprire: le finestre avevano le vetrate decorate, come nelle chiese, solo che al posto di immagini sacre mostravano tramonti più o meno stilizzati e variopinti. Certo, non era una scelta che premiava la luminosità, però era di sicuro impatto.

Notò che c’erano solo altri tre avventori: una coppia seduta a un tavolino sulla destra subito dopo l’entrata, e un signore, appollaiato su uno sgabello al bancone. Avevano tutti i bicchieri praticamente vuoti.

Optò anche lui per il bancone, per sentirsi meno solo, lasciando però due sgabelli tra lui e l’altro occupante.

«Buonasera», fece il barista, un uomo di mezza età che però a Sergio non pareva troppo annoiato dalla vita. Sergio lo scrutò prima di rispondere e si convinse che aveva un volto amico.

«Buonasera. Siete in chiusura?» chiese.

«Fra mezz’ora, non si preoccupi. Il mercoledì mi prendo la serata libera, se possiamo dire così. Cosa posso servirle?». Sergio rimase un po’ come ad osservare la figura davanti a sé. Potevano essere coetanei, forse era solo un po’ più giovane di lui, e lo invidiò, per il lavoro che faceva e col quale pareva trovarsi a suo agio. Lui, che alle 18:00 usciva dall’ufficio, invidiava un signore sconosciuto le cui serate non terminavano mai prima di chissà che ora. Lui, che a lavoro incontrava sempre la solita gente, invidiava il susseguirsi di facce e vite che si incrociavano in questo bar di periferia in cui era capitato quasi per caso. Poteva avere anche lui aspettative personali o era solo spettatore e ascoltatore delle storie altrui?

«Sarei entrato per una coca cola, credo», disse, indugiando un po’ troppo sul “credo”.

«Mi scusi?»

«No, mi scusi lei, è che non sono più sicuro di nulla. Una coca cola, senza ghiaccio e con una fettina di limone…se non è di troppo disturbo».

«Temevo peggio! – sorrise il barista facendo l’occhiolino – Anche se direi piuttosto elaborato per un indeciso».

Gli porse il bicchiere con il limone e la lattina. Sergio la toccò per sentire se fosse abbastanza fredda: un’altra vecchia abitudine ereditata da lei e che si stupì di rispolverare dai ricordi.

«Non va bene? Ci vuole lo stesso un po’ di ghiaccio?» domandò il barista osservando il gesto.

«No, non si preoccupi, va benissimo: fredda al punto giusto e il ghiaccio la sgaserebbe» si sorprese a rispondere.

«È un intenditore o un fanatico? Se posso permettermi, eh…»

Sergio sorrise, cercando le parole giuste: «non lo so, forse solo un vecchio nostalgico».

«Così vecchio non mi sembra! Altrimenti sta dando del vecchio anche a me e non glielo permetto, dopo neanche cinque minuti che ci conosciamo!». Rise. Sempre la battuta pronta: quanto doveva essere faticoso, essere barista?

«Mi scusi, non intendevo dire quello…» si limitò a dire Sergio.

«E basta con le scuse, che me ne ha già fatte troppe da quando è entrato. Lei non è di queste parti, vero? Voglio dire, del quartiere. Non l’ho mai vista».

«Sono abruzzese».

«È qui per lavoro o per piacere?»

«Nessuna delle due». Non sapeva cosa aggiungere e il barista parve averlo capito.

«Non la disturbo ulteriormente: si goda la sua coca cola finché è fredda».

Sergio lo guardò allontanarsi per pulire la macchinetta del caffè e poi rivolse uno sguardo all’uomo seduto due sgabelli più in là, che non aveva mai dato cenno di interessarsi alla loro conversazione e rimaneva immerso nei suoi pensieri. Si versò la Coca nel bicchiere e osservò le bollicine salire in superficie per poi scomparire.

«Sono venuto a Roma per un funerale», disse.

Il barista si voltò e sul suo viso si era disegnata l’espressione di chi partecipa a un dolore. Sergio si chiese se nel loro bagaglio di esperienze acquisite sul luogo di lavoro ci fosse anche questa capacità di empatia estemporanea.

«Mi spiace – fece lui – Qualcuno di vicino?».

«Non proprio…cioè anche. Lorenzo Gatti, il giornalista. Ne avrà sentito parlare…».

La notizia in effetti era comparsa sui maggiori quotidiani e anche al telegiornale. Così ne era venuto a conoscenza anche Sergio, mentre faceva colazione con la tv in sottofondo.

«Lo conosceva così bene, se posso permettermi? Ha affrontato un viaggio e poi mi pare un po’ provato. Un caro amico? Un collega?».

Sergio scosse la testa e sorrise per quello che stava per dire. «Non so perché lo racconto proprio a lei…» disse, pensando che era davvero una battuta da film che non credeva mai di pronunciare.

«Un classico! – ribattè prontamente il barista, abituato a quella battuta – Sono tutt’orecchi. E le faccio compagnia con una birra, se permette».

Sergio attese che il barista si versasse la birra e alzò il suo bicchiere di coca cola per un cin cin: «Alla salute! …e ai gesti disperati».

«Alla salute e ai gesti disperati» ripeté il barista.

«E ai pensieri impuri», bisbigliò quasi a sé stesso. Poi continuò. «Non lo conoscevo affatto, ma per poco non sono stato invitato al suo matrimonio. Era il cognato di una mia ex fiamma…si dice ancora così?»

«Non importa come si dice, se si capisce. E si capisce».

«Sono venuto per rivedere lei, pensi che sciocco arrivista. Ho approfittato del funerale di un tizio famoso per rivedere la mia ex fiamma. Faccio o non faccio schifo?». Il tono di Sergio era da chi non cerca assoluzione.

«A me non mi fa schifo più niente, tantomeno la sincerità. E le storie d’amore mi affascinano ancora, nonostante ne abbia sentite d’ogni».

«Allora le racconto la mia, che ci sarà un motivo perché mi son fermato proprio qui. Eravamo giovani, eravamo innamorati, ma non abbastanza da».

Non era un tono da punti sospensivi.

«Abbastanza da cosa?» chiese allora il barista.

«Abbastanza da lasciare io l’Abruzzo e lei Roma». Sergio fece una pausa e il barista pensò fosse opportuno incentivare il racconto con una domanda.

«Siete stati molto tempo insieme?»

Sergio guardò il bicchiere, poi lui, poi sorrise di un ghigno conclusivo: «sa che penso che non lo siamo mai stati?»

«Ma se mi ha detto che era stato invitato al matrimonio della sorella…o ho capito male io?».

«Lei non sa cosa mi è successo oggi…» mormorò, quasi cambiando discorso, scordandosi di quel che stava raccontando.  «Ha presente quando, scusi il gioco di parole, presente e passato si mescolano e non ci si capisce più niente? Lei era bella eh, ma di quelle belle veramente, di quelle che lo sono nelle smorfie, nei gesti, nei modi di fare e di essere. E la ragazzina oggi…».

Sergio era tornato a guardare il bicchiere e non accennava a continuare, come se si fosse inceppato il nastro su un fermo immagine.

«Senta, perché non facciamo che mi racconta tutto dall’inizio?».

«Quale inizio?»

«Dal funerale. O da prima…non lo so. L’ha incontrata? La vecchia fiamma intendo».

«Mina? No. Ero venuto apposta. Sì, insomma, mi dispiace per il morto, ma non è che facesse proprio parte della mia vita. Non mi mancherà, ecco. È che…mi giudicherebbe male se le dicessi che ho sfruttato l’occasione? Sa, l’avevo cercata su Facebook eh, ho anche digitato il suo nome su Google, ma niente. Non sapevo neanche avesse una figlia…».

«Aspetti, mi faccia capire, da quanto non la vedeva e sentiva?».

Sergio parve non dar peso a quella domanda: «così però non sarebbe l’inizio. Lei sta partendo dalla fine».

«Ok, mi scusi, è che non ci sto capendo molto…»

«Sapesse io!» e rise, davanti allo sguardo sbigottito del barista. «Sa che oggi sono stato al mare? In motorino? Alla mia età? Vuole che partiamo dall’inizio, allora partiamo dall’inizio di questa assurda giornata. A mia moglie ho detto che avevo nostalgia di Roma. Si arriva a un’età, nelle relazioni, in cui non c’è manco più bisogno di dare tante spiegazioni. Anche se ora si sta facendo tardi e magari si starà anche preoccupando». Abbassò gli occhi di nuovo, poi continuò. «È una brava donna ed io a modo mio l’ho amata e la amo ancora. Però ci sono altri amori che restano, anche quando tutto passa».

«Non si deve giustificare, eh. Tutti noi abbiamo amato le nostre mogli e, a modo nostro, le amiamo ancora. È che poi la vita è la vita, e non ci si capisce più niente. Se avessimo fatto, se avessimo detto, chissà come sarebbe stato,…».

Sergio lo interruppe, che quel discorso lo aveva già stufato. «Mina l’ho incontrata su un autobus. Una tratta lunga, da Napoli mi pare. Eravamo seduti vicino e abbiamo chiacchierato dall’inizio alla fine».  Fece una pausa. «Sa? – disse poi guardandolo negli occhi – in tutti i film e serie tv i protagonisti si ricordano dopo anni quello che si sono detti la prima volta che si sono incontrati. Io non mi ricordavo un accidenti neanche il giorno dopo!». Rise. «Comunque, lei scendeva a Roma, io dovevo proseguire, ma sono sceso con lei. E da allora non me la sono più tolta dalla testa».

«Quanti anni avevate? Cioè, lei era già sposato?».

«Oh no, eravamo due ragazzini! Una ventina d’anni o giù di lì. Squattrinati al punto giusto da viaggiare in bus e sconsiderati abbastanza da pensare solo a stare bene. Ricordo che chiamai mia madre per dirle che sarei tornato il giorno dopo e dormii da lei, in camera sua e della sorella, con quest’ultima che ci ha aiutato a non farci scoprire dai loro genitori».

«Cioè, è entrato in casa di nascosto ed è uscito la mattina presto?».

«Esattamente come nei film! Che tanto è dalla realtà che attingono. È che c’era qualcosa fra noi…non era solo chimica. No, c’era sintonia. Potevamo spaccare il mondo. Invece abbiamo spaccato solo noi stessi».

«Ma poi, mi faccia capire, è ripartito e da allora non l’ha più rivista?»

«Ma se le ho detto che stavo per essere invitato al matrimonio della sorella! Sono qui per il funerale del cognato, se non si ricorda», lo prese in giro, alzando il bicchiere per un nuovo brindisi: «al defunto!»

«Già, scusi, mi ero perso: al defunto! E alla vedova!»

«E alla vedova!». Sergio abbassò gli occhi: «era veramente triste oggi. E io non ero neanche qui per consolarla, ma per approfittare dell’occasione…» disse scuotendo il capo in segno di auto disapprovazione.

«Beh…capita di fare cose egoistiche. È andata così male?»

«Laura, la sorella, all’inizio non mi ha quasi riconosciuto. Poi deve essere stato il sorriso, o lo sguardo, non lo so. Mi ha abbracciato, quasi felice di rivedermi. Le ho fatto le condoglianze, ma ero imbarazzato. Mi guardavo intorno e non riuscivo a tenere una conversazione. Poverina, è toccato a lei cercare di aiutare me. Mi ha chiesto cosa ci facessi a Roma, se mi fossi trasferito, domande di circostanza. Poi le si è avvicinata una ragazzina e a me stava per prendere un coccolone». Una risata semi isterica terminò quel flusso di parole. «Era bellissima, capisce? Era uguale a lei, a come me la ricordavo. Come se non fossero passati tanti anni, come si rimane belli solo nei ricordi. Ma lei era lì, reale, davanti a me. Ha messo un braccio sotto quello di Laura e ha detto “zia, papà è già in macchina”. E non era la sua voce».

«…la figlia?» azzardò il barista.

«Silvia, si chiama Silvia».

«E Mina? Dov’era Mina?»

«Ho trovato il coraggio di chiederlo a Laura, quando me l’ha presentata. Sergio, lei è Silvia, la figlia di Mina, mi ha detto, e mi ha sorriso. Piacere, ho risposto, sono Sergio, un vecchio amico di mamma e zia. E Silvia mi ha sorriso, felice di vedermi. Sei quel Sergio? Mi ha chiesto».

«Cioè ti conosceva? Mina le aveva parlato di te?» chiese il barista con enfasi.

«Ehi ehi ehi, sei un romanticone anche tu? Effettivamente sapeva chi io fossi. Mi ha abbracciato e poi è andata via, lasciando me e Laura in un certo silenzioso imbarazzo. Ho detto: è bellissima. E poi non so che tono ho tirato fuori, ma non riuscivo a controllare la voce. E… Mina?, ho chiesto. Laura è sbiancata. Come, non lo sai? Mina è morta ormai quattro anni fa».

«Morta? E non lo sapeva?»

«Che figura di merda!», disse scuotendo il capo, «dovevo consolare io la vedova, e invece era la vedova a cercare di consolare me». Si mise a ridere quasi nervosamente: «Sai che mi ha dovuto sorreggere? Mi ha fatto sedere su una panca mentre io balbettavo “morta? Non ne sapevo niente. Mina, la mia Mina, morta. Ma come è possibile?”».

«Cioè, aspetti, alla vedova ha detto “la mia Mina?” anche se era una vita che non la vedeva e se si è sposato e presumo anche lei? E come ha reagito?».

«Mi ha raccontato della malattia, mi ha detto quanto fosse stato doloroso per tutti, quanto mancasse a tutti. Specialmente a Silvia».

«E del papà di Silvia che ha detto?».

«Niente. Laura è sempre stata di un’intelligenza superiore alla media».

«Ma, mi scusi…lei mi ha detto che è andato in motorino al mare, oggi. Ma così? Ha sbroccato, se mi capisce?».

«Eh sì, ho sbroccato, credo di sì. Ma non sono andato da solo. Con Silvia. Mi ha raggiunto fuori dalla chiesa. Mi ha detto “andiamo al mare a parlare di lei”, ed era fresca e bella come la madre a vent’anni: impossibile dirle di no. Ha indossato il casco e ne ha preso un altro dal baule dietro. Mi ha chiesto se volessi guidare io. Lei ci crede che non ho mai guidato un motorino in vita mia?».

«E lo ha fatto oggi?»

«Ma se non conosco neanche una strada! No, mi sono lasciato guidare. E, se glielo devo dire, il contatto in motorino è un’emozione che va provata almeno una volta nella vita!».

Il barista lo guardò con un sorriso benevolo.

«Sì, lo so, mi prende in giro perché sono un vecchio e parlo come un adolescente. È che per lei magari è stato la normalità».

«Eh, il motorino in due è sempre stato una scusa per i primi approcci, i primi allungamenti di mano, i primi abbracci…»

«Non mi fraintenda, eh! È una ragazzina, ed è la figlia di Mina. Potrebbe essere mia figlia!». Rise. «Sa che ho fatto anche i calcoli?»

«Eh, nei film succede sempre», lo prese in giro in barista.

«Esatto. Ma era impossibile: io e Mina ci siamo lasciati molto prima che incontrasse il padre di Silvia. Ma per attimi, brevi attimi, quando il sole ci carezzava e il vento aveva smesso di essere fastidioso, in quei brevi momenti io sono tornato un ragazzino alla fermata del bus e Silvia non era Silvia, ma sua madre alla sua età o pochi anni in più».

«Quindi tutto sommato è andata bene? Nonostante la brutta notizia intendo».

«Eh, se lo sapessi non sarei qui a bere una coca cola e con la paura di guardare il telefonino per non sapere cosa dire a mia moglie!».

«Già. Che avete fatto, se posso? Cosa vi siete raccontati? E come vi siete rimasti?»

«Niente più?!», sorrise Sergio.

«Scusi, è che so’ curioso» si affrettò a giustificarsi.

«Mi sa che le faccio fare tempo pieno anche oggi» disse Sergio indicando con un gesto del capo i tavoli ormai tutti vuoti. «Ma quando se ne sono andati?»

«E che cavolo, non lo so! Ero tutto preso da lei!». Diede un colpo di straccio al bancone come a scacciare il pensiero di essere stato fregato.
«Spero per lei abbiano pagato al momento dell’ordine. A proposito, quanto le devo?»

«Ma che me frega! Dopo, dopo. Mi dica del mare».

«Il mare…il mare era bello assai. Silvia voleva andare lì perché quando parla della mamma vuole farlo nel suo posto speciale, accanto al rumore delle onde. È lì che si rifugia quando sente la sua mancanza. Non deve essere facile, così giovane. Mi ha detto: mamma mi ha parlato di te. Quando si è ammalata ha deciso di regalarmi il meglio della sua vita, perché avessi qualcosa di lei di prima che io ci fossi. E il tuo papà, ho chiesto, lui sa che sei qui con me? Sa chi sono? Lei ha annuito. Certo, non hai scelto il giorno migliore per venire, ma visto che c’eri ho chiesto a papà se potevo conoscerti meglio: non volevo cercarti su Facebook».

«E il papà era d’accordo?»

«Sa, deve essere proprio un brav’uomo. Laura poteva fermarsi solo con uno così».

«In che senso fermarsi?»

«Eh, mo’ sembra che quelli della mia età nostra, o più o meno la nostra, senza offesa – sorrise strizzando un occhio – abbiano avuto un solo amore e se lo siano portati all’altare, ma Mina e io eravamo anime affini, seppur spaventate. Quando ci siamo incontrati lei si stava lasciando col fidanzatino storico, io mi ero lasciato da poco ma ero pronto a rinnamorarmi. E di una come lei era facile. Ci siamo frequentati per anni, a intermittenza, senza mai dare veramente un senso a quella relazione. Lo sapevano tutti, quello che ci legava, ma era un rincorrersi sleale. Diceva sempre che non era pronta, ma una volta mi ha quasi chiesto di farle da “+1” al matrimonio della sorella».

«Ah, giusto, lo aveva accennato all’inizio. Col giornalista morto».

«Alla sua! E che riposi in pace» disse Sergio alzando un bicchiere ormai vuoto.

«Alla sua!» avvicinò il boccale il barista. «Ne vuole un’altra?»

«Oh no, che poi chi comanda la mia vescica nel viaggio di ritorno? A proposito, posso usare il bagno?»

«In fondo a destra, come nei film» rise il barista indicando la direzione.

Sergio si alzò e il barista ne approfittò per mettere via i bicchieri e passare un colpo di straccio sul bancone. Quando tornò davanti al suo posto c’era un piattino con qualche pizzetta e tramezzino e un bicchiere di coca cola con una fettina di limone.

«Mi è venuta fame e sono avanzate queste cose: meglio che buttarle» anticipò qualsiasi domanda il barista.

«Grazie, molto gentile. Ma è anche ora che mi rimetta in viaggio».

«Aspetti, mi dica solo com’è finita. Perché non è andato al matrimonio? Perché vi siete persi?».

«Al matrimonio non mi ha mai invitato. Era tentata, perché in quel periodo ci vedevamo e sentivamo di più. Sapeva esattamente come e quando prendermi. Non mi lasciava mai modo di allontanarmi veramente, che sapeva come riacchiapparmi. E io facevo lo stesso con lei. Come un sesto senso, aspettavamo che le relazioni che via via intraprendevamo perdessero di significato, per fare una telefonata, e zac, ci ricadevamo. La sorella aveva conosciuto questo giornalista e fecero un bel matrimonio in costiera amalfitana. Sarebbe stato bello parteciparvi, ma sarebbe stato troppo ufficiale. Mina non se la sentì».

«Ma non ho capito: se vi cercavate di continuo, perché non siete mai stati insieme?»

«Eh, mi fa la domanda alla quale avrei voluto anche io una risposta. Ma non ce l’ho, e molto probabilmente non ce l’avrò mai. Ero quello giusto al momento sbagliato?! Non credo, perché di momenti ne avevamo avuti tanti». Sergio si adombrò e prese il bicchiere in mano, facendo oscillare il liquido al suo interno. O forse ci è stato negato un momento in più, pensò.

«La distanza?», interruppe il barista i suoi pensieri. Sergio alzò lo sguardo dal bicchiere e sul viso gli si compose una smorfia a forma di sorriso. Esitò, poi rispose.

«Sì, mi pareva una buona scusa. Ma io avrei anche cercato lavoro a Roma, se avessi percepito più certezze in lei».

«Allora le puzzava l’alito!» rise il barista

«Sì, deve essere stata un’altra scusa del genere! Alle scuse banali!»

«Alle scuse banali!» gli fece eco il barista.

«Fatto sta che a un certo punto io ho mollato».

«Così, senza preavviso?».

«Eh, magari, manco li conto più i preavvisi! Ma quella volta penso di non aver detto niente. Credo lo sapessimo entrambi. Gliel’ho detto: eravamo anime affini. Le parole a noi servivano a ridere o a rovinare tutto: le decisioni serie le abbiamo sempre prese in silenzio».

«E che cosa è successo?».

«Niente: non ci siamo più cercati. Abbiamo fatto la nostra vita. Lei ha incontrato il padre di Silvia».

«Il brav’uomo».

«Il brav’uomo, esatto. È scomparsa da ovunque. Niente più telefonate, niente più messaggi, niente più riacchiappi. Mina è scomparsa dalla mia vita ma non dai miei pensieri. Ma Silvia mi ha detto che non lo ha fatto per nascondersi da me: semplicemente era troppo impegnata a viversi la vita che si era scelta. Era diventata madre, ed è stato come se iniziasse un capitolo a parte. Ma non ti ha mai dimenticato, ci ha tenuto a dirmi Silvia. Pensi che sapeva cose che io non ricordavo più. Episodi che le erano rimasti impressi. E io che pensavo di aver tutto a fuoco nella memoria, che illuso!»

Sergio fece un’altra pausa, di quelle che difficilmente si trova il coraggio di interrompere. Poi, come parlando a sé, ma guardando comunque verso il barista, continuò: «Ora mi chiedo, e mi dica lei se son matto a pensare ancora a queste cose, se ci fossimo rivisti, come avrei completato i suoi vuoti e lei i miei».

«Vuoti?»

«Di memoria, di memoria. Ognuno di noi fa tesoro di alcuni ricordi, a discapito di altri, ma ci se ne rende conto solo quando ci si confronta. Silvia mi ha regalato alcuni ricordi da rispolverare e mi ha anche lasciato il suo numero: ci tiene che rimaniamo in contatto. Vorrebbe conoscere i miei figli, ma io non sono stato bravo come Mina, io non parlo mai di lei. Mi tremerebbe la voce, mi…sgamerebbero, se si dice così».

«Si dice così, se si capisce. E si capisce. Le fanno tana!», rise il barista. E sorrise anche Sergio, ripentendo la battuta: «mi fanno tana!»

«Sa cosa mi ha detto Silvia prima di salutarci?», continuò, tramutando il sorriso in una curva pensierosa delle labbra, ma sempre arcuate verso l’alto: «Mi ha abbracciato come solo sua madre sapeva fare, questo deve averlo ereditato proprio da lei, a lungo. Quando si è staccata era come diventata più grande, un’adulta. Forse era proprio Mina adulta a parlarmi. Mi ha detto, così, secca: non l’ha mai tradito».

«Non l’ha mai tradito», ripeté il barista. «Ma il marito, dice? …In che senso, scusi?».

«Non lo so in che senso, forse me lo ha detto per farmi perdere la speranza, ché anche i rimpianti si nutrono di speranza, non solo i sogni. Come a dire, anche se non fosse morta, non sarebbe andata altrimenti. Credo nel senso che io c’ero, ero stato importante e non mi aveva dimenticato. Ma lei la sua scelta l’aveva fatta senza ripensamenti. Che finché c’era lui, non avrebbe modificato una virgola della sua vita. Mica come me!». Sergio si fece nuovamente pensieroso. «Mica come me. – ripetè e posò le mani sul bancone, distendendo le braccia per allontanarsi dalla seduta – Beh, ora è meglio che riprenda la strada di casa. Quanto le devo?»

«Niente, però aspetti, solo un’ultima domanda, se mi permette. Voglio dire…non lo so eh, ma a me sembra che in fondo sia andata bene. È andato al mare, ha conosciuto la figlia, ha saputo di essere stato importante e che comunque, ecco, non ci sarebbe più stato spazio per lei. Allora, a cosa pensa? Perché non riesce a tornare a casa?».

«Già, bella domanda. Davvero una bella domanda. Me lo chiedo da quando ho parcheggiato la macchina qui davanti. È che c’è un pensiero che non mi tolgo dalla testa, e lo scaccio bevendo e parlando con lei. E mi sento una gran brutta persona».

«Quale?»

«Già, quale? È che mi vergogno anche a dirlo a me, si figuri a lei! Mi chiedo, e non posso farci niente, ecco, mi chiedo…come sarebbe andata se, invece di lei, anni fa fosse morto lui?».

Calò un attimo di silenzio, nel quale i due si guardarono come a decifrare cosa passasse veramente nella testa dell’altro. Poi il barista distese la sua figura allargando la cassa toracica, come a prendere fiato. Sul suo volto era scomparsa l’aria dell’ascoltatore passivo, quella che metteva in automatico per non ferire i suoi clienti. Aveva capito, negli anni, che le persone da lui cercavano un rifugio ma nessun consiglio, un’assoluzione ma nessuna penitenza. Però, pensò, c’è sempre un però.

«Senta – disse passandosi lo straccio da una mano all’altra, per tenersi impegnato, che a prendere delle posizioni non era abituato – certe cose non si dicono! Si pensano, eh, a voja se ce scappa di pensarle, ma ci dobbiamo mettere un filtro, ai nostri pensieri. Siamo adulti…come si chiama, che non lo so?».

«Sergio, mi chiamo Sergio».

«Senta, Sergio, io sono Mario. E potrei essere quel marito lì, il padre di Silvia».

«Il brav’uomo».

«Il brav’uomo, esatto. E potrebbe esserlo anche lei, che lascia sua moglie a casa per rincorrere chimere. Perché io ascolto tutti, e uno sfogo ce po’ sta. Però poi, dopo ‘na birra, o una coca cola nel suo caso, uno i pezzettini del puzzle li deve rimettere a posto, prima d’alzasse».

Sergio sorrise, non si aspettava quel contropiede ma non lo disturbava: «mi sa che l’ho fatta inalberare, Mario: le è uscito un po’ di romano».

«Eh, mi scusi…sempre con rispetto eh! È che noi romani siamo belli e buoni, ma c’avemo anche deji assiomi, chiamiamoli così. E la morte non si augura a nessuno. E se vole ce n’ho pure n’artro che potrebbe fare al caso suo, ‘na banalità, ma quanto è vera: se doveva esse, era».

«se doveva andare, andava. –  ripetè Sergio oscillando la testa in senso affermativo  – Me lo sono ripetuto tante volte».

«E mo’ una de più, che ce sta!».

«la definitiva, come dicono i giovani».

«La definitiva, che semo diversamente giovani anche noi! Senta, dia retta a me. A me lei pare una brava persona, una de’ core, come si dice da noi. L’ha detto anche lei che c’ha una bella moglie a casa che l’aspetta, che l’ha amata e che l’ama ancora. A tutti je so’ pijiati i cinque minuti. C’ho anche io una mia Mina che ogni tanto fa toc toc nella testa, che crede d’esse il primo? E poi c’ho ‘na Giulia, a casa, che ha vinto. Ha vinto tutto, capisce? Perché in amore, scusi ‘startra banalità, vince chi resta. Chi fugge se stanca, come è stanco lei adesso, che prende una Coca Cola per potersi mettere alla guida ma se fosse rimasto in Abruzzo, al paese suo, ora magari se sarebbe gustato una bella birra ghiacciata e tornato a casa avrebbe fatto l’amore con sua moglie».

«Lisa, si chiama Lisa. E non se la meritava questa cosa. Alla sua età, cosa ancora deve passare per sentirsi sicura…».

«Mo’ non rincominci con le pippe mentali! Ah Sergio, c’ha ‘nantra opportunità, stasera: un viaggio in macchina in solitaria. Per metabolizzare. Lo sfrutti. Ma si ricordi sempre dove sta tornando. Si appartiene a dove si torna, non a dove si fugge. E mo’ la smetto de fa’ Oshio!». E detto questo prese commiato con una strizzatina d’occhio e si mise a rovistare in un cassetto.

Sergio lo osservò un poco. Entrando gli aveva invidiato il lavoro, la lontananza da casa, l’interazione con i clienti, ma non aveva mai pensato come potesse essere difficile annullarsi come persona per soddisfare il cliente. Limitarsi a rispondere o aiutare ad aprirsi con le domande giuste, apparendo interessato ma mai giudicante. Che fatica!, pensò.

«Mario…»

«Mi dica!»

«Che ce l’ha un bacio Perugina? Lo vorrei portare alla mia Lisa»

Mario sollevò la testa dal cassetto e sorrise: «nel tubo accanto alla cassa –  e glielo indicò con un cenno veloce del capo – offre la casa!»

Sergiò si alzò e si diresse verso il tubo dei baci. Accanto vide un bicchiere con qualche spicciolo. Sfilò il portafogli dalla giacca e vi inserì una banconota. «Per la consulenza», disse rivolto a Mario, che si era già immerso nelle attività di pulizia  pre-chiusura.

«E questo – continuò mostrando il cioccolatino – è l’ultimo pezzo di puzzle. Grazie Mario!». Poi esitò, sorrise, e disse «ho sempre voluto più bene a…»

«Uguale!», dissero all’unisono, terminando la citazione da “Non ci resta che piangere”.

«Un fiorino! – continuò Mario – che personaggio sei Sergio!»

«E tu dovevi fare lo psicologo, altro che il barista».

«E che non lo faccio? Solo che resto umile, sempre come dicono i giovani. Buon viaggio, e sia prudente!».

Sergio uscì dal locale sentendosi un po’ più leggero. Cercò nella tasca la chiave della macchina, schiacciò il pulsante del lucchetto aperto e bisbigliò plin plon. Salì in auto e si accinse alle manovre di uscita e sorridendo parlò sopra al dispositivo della macchina: pin pin pinpinpinpinpinpinpinpììì.

Poi sterzò, si immise sulla strada e schiacciò il pulsante del telefono. Il suono del segnale di chiamata si diffuse nell’auto. «Lisa, ciao, volevo solo dirti che sto tornando…».

L’autostrada era sgombra e sentì i pensieri distendersi. Alzò il volume della radio e cantò la canzone che passava. Si sentì di nuovo un ragazzino. Quella giornata era stata più faticosa di un viaggio con la macchina del tempo. Non vedeva l’ora di tornare a casa e mettersi a dormire. Al suo posto.