Correvano veloci quegli anni, quando i pomeriggi erano partite di pallone nel campetto dietro casa, tutto terra e pietre, che come si alzava il vento dovevi chiudere gli occhi, e se giocavi in porta non sapevi come fare, e quando cadevi le ginocchia si tingevano di sangue, e non c’era acqua ossigenata o alcol, ma al massimo un fazzoletto bagnato stretto forte, che alla caduta successiva diventava tutt’uno con la terra. E battaglie cruente con le cerbottane, e le fionde, i cacciafruste fatti con il frascio, il frassino che cercavano nel torrente, e grossi elastici legati alla meglio, che se arrivavano in faccia erano dolori.
Piccoli autentici delinquenti, ma con la luce negli occhi e il sole sulla pelle sempre sporca, che le madri lavavano una volta alla settimana nella tinozza, ed erano pochi ad avere il bagno in casa.

Vita di corsa, sempre con il cuore in gola, giornate cominciate con il caffelatte della mattina e finite con Carosello, che poi…

Quando l’ultima della magiche porte si era chiusa, Raffaele andava dal nonno. I genitori erano seduti davanti alla televisione, rapiti da uno di quegli sceneggiati in bianco e nero, lentissimi, ma era la modernità, lo spettacolo portato nelle case, e nessuno poteva immaginare che fosse il mostro attraverso cui alla gente veniva rubata l’identità, il senso di appartenenza, l’immaginazione, tutto.
Ma Raffaele era troppo piccolo per questi pensieri, come era troppo piccolo per essere rapito da quel feticcio: lui andava nella camera antica del nonno, dove tra il letto di noce scuro e l’armadio con lo specchio c’era una minuscola scrivania e una sedia a dondolo, sulla quale il vecchio a volte leggeva e altre volte si assopiva. Allora Raffaele faceva finta di avere la tosse, e il nonno si risvegliava sempre, e insieme leggevano le storie fantastiche di Salgari; Sandokan e i pirati della Malesia, l’astuto Yanez, la Perla di Labuan… tutto un mondo fantastico da ricreare con la fantasia.
Un giorno, però, il nonno non stava dormendo né leggendo. Raffaele lo vide curvo sulla scrivania, intento a vergare parole su un quaderno a righe. Proprio come faceva lui a scuola. Incuriosito, si avvicinò di soppiatto e fece il solito colpo di tosse, ma il nonno era troppo preso da quello che faceva e non lo sentì. Il bambino avvertì il suo impegno e tacque, accontentandosi di osservarlo affascinato. Solo quando ebbe finito il vecchio alzò il capo, fissò qualche istante il quaderno e si accorse della presenza di Raffaele.

«Ciao!» gli disse «è tanto che sei qui?».
«Un po’» rispose il bambino. Poi, incuriosito, allungò il collo sul quaderno.
«Cosa stai facendo?».
«Scrivo» disse il vecchio, sorridendo.
Raffaele guardò ancora i segni sulle righe sottili, e poi il nonno.
«Perché?».
Il nonno si raddrizzò sulla sedia, almeno per quanto glielo permetteva la schiena, e tirò un lungo sospiro.
«Perché devo raccontare» rispose.
«Raccontare cosa?».
«Quello che vedo».
Il bambino si guardò intorno, la stanza in penombra, i mobili: tutto era come sempre.
«Io non vedo niente!» protestò.
«Oh sì che vedi!» rise il vecchio «solo che non guardi nel posto giusto».
«E dove dovrei guardare?»
Il nonno battè lievemente le dita sulla sua fronte:
«Qui, devi guardare. Guarda con gli occhi della mente: non vedi mari sconfinati? Tigri, elefanti, eroi che combattono?»
Raffaele lo guardò sconcertato.
«Prova a chiudere gli occhi!» insistette il vecchio.
Il bambino li chiuse e piano piano le immagini dei protagonisti delle storie che aveva letto con il nonno cominciarono a popolare i suoi pensieri.
«Adesso li vedi?»
«Sì!» rispose felice.
«Ecco, adesso se vuoi puoi scrivere quello che vedi. Non devi inventare niente, solo lasciare libera la mente e raccontare le immagini che scorrono, che siano le avventure di un romanzo, un sogno o una tua fantasia. E’ semplice, non credi? Fai così e non rimarrai mai senza idee».
Raffaele era rimasto a bocca aperta, affascinato da quel nuovo gioco inventato dal nonno. Non sapeva, allora, che a quel gioco avrebbe giocato per tutta la vita.

Annalisa si avvicinò in punta di piedi al nonno. Vide che stava scrivendo sulla tastiera del computer, battendo i tasti con due dita. Lei, che da sempre usava soltanto il tablet non capiva cosa ci trovasse il nonno in quello scomodo oggetto, ma i caratteri sullo schermo la incuriosirono. Tante parole, fitte fitte, e neanche una figura.
«Cosa stai facendo?» gli chiese.
Il vecchio sobbalzò, vide la nipote e sorrise.
«Sto scrivendo».
«E cosa scrivi?».
«Scrivo quello che vedo» rispose il nonno.
«Ma io non vedo niente!».
Un pensiero, un antico ricordo passò come un fulmine nella mente dell’anziano.
Prese la nipote sulla ginocchia e la mise davanti allo schermo.
«E’ perché non guardi nel posto giusto» spiegò «adesso ti insegno come si fa».

Da quel giorno Annalisa cominciò a passare sempre più spesso le serate con il nonno Raffaele invece che davanti alla Play o alla televisione. I suoi genitori in un primo momento ne furono sollevati, poi cominciarono a preoccuparsi quando videro che la loro figlia invece di stare con loro davanti ai quiz televisivi cercando di indovinare le risposte preferiva passare ore a scrivere, infine si abituarono a quella stranezza: in fondo non dava fastidio e prendeva finalmente bei voti a scuola. Solo non capivano bene cosa stesse facendo. Scriveva, d’accordo, ma perché?