Mio padre non conobbe i suoi genitori. La madre morì mentre lui veniva alla luce. Invece il padre non volle assumersi nessuna responsabilità nei suoi confronti e fuggì in America. Così zia Luisa e zia Lina, le sorelle della nonna che erano di origini napoletane e avevano un gran cuore, decisero di adottarlo. Andarono a vivere tutti e tre in via Luigi Palmieri a Napoli, un piccolo appartamento all’ultimo piano di un antico palazzo un di stile vagamente ottocentesco che nell’arredamento un po’ bohémien rispecchiava la personalità delle due donne. Nel quartiere le chiamavano i doie pazze. E in effetti ne combinavano di tutti i colori. Zia Luisa dava in escandescenze per un nonnulla e urlava al vento:”Puozze passà nu guaio!”.
Zia Lina si perdeva le mutande nei bar che con disinvoltura infilava in borsetta, ignara di tutti i presenti che se la ridevano con gusto. La sera, poi, si vestiva con eleganza, si truccava e si acconciava i capelli perché era convinta che l’annunciatrice televisiva potesse vederla. Così quando sullo schermo compariva la presentatrice, lei si prodigava in saluti dicendo: “Buonasera signorina.”
Insomma: le zie erano dei soggetti molto stravaganti con i capelli tinti di nero corvino, gli occhi bistrati dello stesso colore e la bocca dipinta sempre di un rosso fiammante. Per non parlare dell’abbigliamento. Anche d’inverno vestivano esclusivamente capi di colore rosa, azzurro e bianco. Durante i primi anni di vita di mio padre, le zie si dimostrarono molto accoglienti e premurose, ma con il tempo mio padre si rese conto che il loro atteggiamento nascondeva un rovescio della medaglia. Presto lui si sentì soffocare dal loro affetto perché le zie non gli permisero di andare a scuola mettendogli un maestro privato e ostacolavano le sue amicizie, sia maschili che femminili.

Preferivano tenerselo stretto sotto le proprie gonne. Così da ragazzo l’unico svago di mio padre erano gli uccelli, soprattutto i canarini e i pappagalli. Tutto il giorno puliva le loro gabbie, distribuiva l’acqua e il mangime. E nella stagione adatta li faceva anche accoppiare. E quando i nuovi piccoli rompevano le uova venendo alla luce, mio padre provava una grande soddisfazione, soprattutto nell’osservare i colori del loro piumaggio dati dai diversi accoppiamenti che mio padre si divertiva a fare. Questi uccelli, anche se chiusi nelle loro gabbiette gli davano un senso di libertà. Quella che lui non aveva. Una mattina mentre era uscito per fare la spesa, l’unica ora d’aria che gli era concessa, in un negozio di animali fu attirato da un grosso pappagallo dal piumaggio di mille colori sgargianti che appollaiato sul suo trespolo faceva un verso in dialetto napoletano: “Chiavica, chià”.

Mio padre provò una grande simpatia per quest’uccello e, con i soldi avanzati dalla spesa, lo acquistò. Anche alle zie il pappagallo piacque molto e decisero di chiamarlo Peppiniello.
Ben presto il pappagallo divenne la maggiore attrazione della famiglia. Con il suo verso: “Chiavica, chià”

Peppiniello divertiva mio padre e le zie che non facevano altro che ridere a crepapelle per l’intera giornata.
Grazie a lui, l’atmosfera in casa era di gran lunga migliorata e le zie riuscirono anche a socializzare un po’ di più. Quasi tutte le vicine, ogni giorno, venivano a trovare Peppiniello e poi si intrattenevano a parlare con le zie che offrivano caffè e dolciumi in gran quantità. E intanto gli anni passarono. A mio padre non bastò più avere l’interesse per gli uccelli, pur amandoli ancora molto. Adesso, mio padre, quando usciva per fare la spesa, si guardava intorno alla ricerca di un’anima gemella. Una mattina all’uscita di una scuola media femminile di piazza Dante a Napoli, fu attratto da una donna dai capelli color rame, ondulati e lunghi sulle spalle. Si avvicinò e rimase a bocca aperta di fronte ai suoi occhi verdi su un viso perfettamente ovale di Madonna. Lei si guardava intorno, così mio padre le disse:
“Signora, cerca sua figlia?”

“No, cerco mia sorella, la piccola di casa”

“E’ quella bambina, all’angolo della strada?”

“Sì, non so come ringraziarla”

“Come si chiama?”

“Enzo, e lei?”

“Anna”

Appena la sorella si avvicinò, anche lei molto bella, la invitò al bar a consumare qualcosa. Si sedettero all’aperto perché era una bella giornata di primavera. Mia madre prese un cappuccino, mentre la sorella già un gelato. Così nei giorni seguenti, mio padre andava sempre all’uscita della scuola di piazza Dante e piano piano lui e mia madre si raccontarono tutta la loro vita e andarono avanti così per tre anni. Alle zie la presentò subito e rimase meravigliato perché entrò immediatamente nelle loro grazie. Le facevano sempre tante moine. La lodavano per la sua dolcezza e la sua bellezza. La invitavano sempre a mangiare con loro, a prendere un caffè o un dolce, si sedevano in salotto a parlare con lei e, appena sole, tra loro, bisbigliavano:
“E’ stato proprio bravo il nostro Enzuccio. Che dici, Lui’? Ha trovato proprio una brava guagliona.
Annarella, è un bisciù”.

A mia madre le zie erano simpatiche ma proprio non tollerava Peppiniello. Diceva che sporcava e faceva tanta confusione, con quel suo versaccio. Forse era anche un po’ gelosa di tutte le attenzioni di cui lo colmava mio padre. Così quando mia madre si sposò e andò ad abitare nella casa di via Luigi Palmieri, si ribellò. Un giorno disse che mio padre doveva scegliere:
“O lei, o Peppiniello e i suoi uccelli sporcaccioni”

Così mio padre, per la pace familiare, trovò un amatore e donò i suoi uccelli. Nei mesi seguenti, però, cadde in uno stato di grave depressione, anche a causa della perdita delle zie che morirono una dietro l’altra. Forse anche loro avevano sentito la mancanza di Peppiniello che era riuscito a dare un nuovo volto alla famiglia. Presto mia madre non potè più vedere mio padre in quelle condizioni, così decise di regalargli un cane. Andò al canile municipale e scelse un alano meticcio. Il suo pelo era grigio, tutto pezzato di bianco. A mio padre piacque e lo chiamarono Boby. Il cane si affezionò subito a mio padre. Ma quando uscivano era Boby a portare a spasso il mio povero papà. Correva e lo trascinava e il mio genitore urlava:
“Pistaaaaa”

Un giorno una signora si fermò e disse a mio padre: “Ma lei è matto, questo cane è molto pericoloso”.

Difatti, una mattina, mentre mio padre stava attraversando la strada con Boby che correva come al solito, per un pelo non finì sotto una macchina. Quando tornò a casa spiegò a mia madre quello che era successo e insieme decisero di mandare via Boby, trovando per lui un nuovo padrone. Dopo poco tempo, ancora una volta, mio padre cadde in depressione. Così mia madre pensò di regalargli un gatto, un animale più tranquillo. Andò dalla gattara della zona e le spiegò il suo problema. La gattara molto compiaciuta le disse:
“Prendi quella a pelo bianco, si chiama Camay, è una ciaciona”

Ma mia madre e mio padre presto si resero conto che Camay era invece molto vivace. D’estate svegliava i miei genitori leccandogli i piedi e loro morivano dal ridere per il solletico. Inoltre, impazziva per i calzini. Appena ne trovava uno in giro, camminava lungo tutta la casa facendo uno strano miagolio. Ma la cosa peggiore era la sera. Quando ci rilassavamo sul divano la gatta non faceva altro che affilare i suoi artigli sul tessuto delle nostre poltrone che in breve tempo furono distrutte. E poi faceva tante pete del tutto simili a quelle di un essere umano. Era impossibile starle vicino. Così per quest’ultimo motivo, in breve tempo mia madre riportò Camay dalla gattara e si decise a regalare a mio padre un altro pappagallo parlante. Mio padre era al settimo cielo e tutto il giorno nel salottino soleggiato con noi intorno, cercava di insegnare al nuovo Pepppiniello, il tipico verso: “Chiavica, chià”

Ma una mattina l’uccello rispose: “Si chiavica tu”

E noi tutti scoppiammo a ridere di cuore. E le nostre giornate, da allora, trascorsero allegre grazie al nuovo Peppiniello.