L’operazione richiedeva una rigida separazione dei ruoli. Il capo banda era Pietro Trovato, naturale attitudine per il comando e abile calcolatore. A Totò Triolo, incursore, ottime capacità di osservazione, il compito di preparare l’operazione. L’esecuzione materiale dell’azione era prerogativa di Ciccio Sprini, sfrontato e agile combattente.

 

Operazione in codice “Wolf”: i preparativi.

Pietro stilò la lista del materiale occorrente, Totò si occupò del reperimento:

venti metri di spago grosso resistente, di quelli che si usano per legare i pacchi;

ferramenta varia, ovvero chiodi, morsetti, viti ad anello, viti a gancio;

attrezzatura pesante, tenaglia, pinza e martello;

un secchio di plastica.

 

Riunione preparatoria alle ore 16. Quartier generale, il garage di Ciccio Sprini.

La saracinesca metallica era abbassata a tre quarti, in modo da lasciare lo spazio sufficiente per consentire il ricambio dell’aria, densa di miscela al tre percento, che si respirava all’interno del locale.

Totò Triolo, seduto sulla Vespa Special di Ciccio, ascoltava attento le istruzioni impartite da Pietro.

«Il secchio dovrà essere pieno».

Totò tentennò: «Ma è impossibile! Dove la vado a trovare tutta quell’Acquasanta?»

«Non sarà difficile», ribadì Pietro, «Don Spaddina la tiene in sacrestia, dentro l’armadio dove conserva le ostie, l’ho visto io con i miei occhi mentre la conservava, è in un grosso bottiglione di vetro, di quelli che si usano per l’olio».

«E se mi dovesse scoprire? Il sacrestano è capace di rompermi la testa a bastonate», si preoccupò Totò.

«E allora che ci stiamo a fare noi, mentre tu t’introduci in sacrestia, noi lo terremo occupato in chiesa, stai tranquillo, tutto filerà liscio».

Totò spalancò disarmato le braccia.

«Amunì», disse risoluto Ciccio Sprini.

 

«Che minchia ci facciamo con il vino?», Pietro non si dava pace, «l’acqua dovevi prendere, non il vino!»

Totò, mortificato, balbettava: «E… e… e… io questa troooovai dedè… dedè… dedentro la diiiiiiii…».

«La dispensa del minchione che sei», lo interruppe ancora più agitato Pietro.

Ciccio Sprini, che aveva tracannato già due bicchieri, cercò di placare gli animi: «Pietro, per me è uguale».

«Ma come uguale, questo è vino», urlò il capobanda.

Ciccio si riempì il terzo bicchiere, lo butto giù quindi cercò di spiegare, a modo suo, il concetto: «Pietro, come si dice?»

Pietro non rispose.

«Acqua e vino del parrino», dichiarò trionfante.

Pietro lo guardò severo ma non replicò. A una minchiata, una minchiata e mezzo, pensò.

 

«Giacalone stai andando a casa?» Petralia aveva pizzicato l’appuntato nel momento di mettere il primo piede in macchina.

«Se permette, sono quasi le sette, dovrei andare a cenare», rispose irritato.

«Se permetti vieni con me, ora», replicò secco Petralia.

Giacalone imprecò in silenzio.

Salirono sulla Campagnola.

«Si può sapere cosa c’è di tanto urgente? Dove dobbiamo andare?», chiese l’appuntato.

«Alla torre di Byrsarone».

«Di nuovo? Con questo scuro?», si lamentò l’appuntato.

«Hai paura? Ci porteremo le torce».

«Io paura?», si risentì l’appuntato, «e di cosa dovrei avere paura?»

«Allora qual è il problema?», domandò Petralia.

«Il problema è che se non abbiamo visto niente di giorno, cosa dovremmo vedere di notte… i fantasmi?»

«Perché no?», ammise il maresciallo.

Giacalone lo guardò in malo modo.

«Cammina… cammina… so io cosa dobbiamo vedere di notte», lo esortò Petralia.

 

Quando il vento è di scirocco si intuisce senza dover necessariamente consultare strumenti o meteorologi. Per via di quella sua particolare consistenza terrosa e viva, densa di polvere e lamenti. Perché, più che un vento, lo scirocco è un vero e proprio combattimento, il braccio dell’Africa che reclama la sua isola.

Quella sera, quel vento aveva principiato a tirare leggero. Petralia conosceva bene quella sensazione: di tremito piacevole sulla pelle. E sapeva pure che via via quella sensazione si sarebbe trasformata in fastidio, con l’aumentare dell’intensità, fino a farsi violenza.

Lui e lo scirocco, in un conflitto intimo.

Il vento che avrebbe soffiato per giorni e giorni, coprendo il cielo con dune di sabbia pronte a scaricarsi in tempesta.

E lui che si sarebbe incazzato in crescendo, granello dopo granello, sfidato da ventate dritte agli occhi, ostinato a non cedere il passo.

Quello s’ingrossava e lui sperava nella pioggia che, alla fine, sporca, per pace d’entrambi arrivava.

 

Giacalone si spinse fin dove poteva seguire le tracce della trazzera sull’erba alta. Poi fermò la macchina.

Scesero. Petralia, si carezzò le braccia.

«Sta iniziando a tirare vento di scirocco, vento dannoso», sentenziò Giacalone.

«Già, pazienza», ammise Petralia, «dobbiamo raggiungere i piedi della rocca, nei pressi del punto mediano del bastione», ordinò mettendosi in cammino.

L’appuntato s’accodò. «Come comanda, mi può dire cosa cerchiamo?», domandò.

«Un varco», rispose il maresciallo.

«Un varco? Nella roccia? Ne è sicuro?», dubitò Giacalone.

«No».

«Minchia», si lamentò l’appuntato.

«Minchia lo dico io, nel senso che sarebbe il caso che la smettessi di romperla… amunì, muto e cammina».

Non fu cosa facile. Il buio, il vento, l’erba spinosa ad altezza d’albero, i resti traballanti di muretti a secco e via discorrendo. Finché, con gran fatica, arrivarono a toccare la parete verticale della rocca, camminando malamente sul letto di ciottoli che la rasentava.

Un improvviso bagliore della luna piena nascente rischiarì la possente sagoma di roccia.

«Giacalone, dividiamoci, io andrò a destra, tu a sinistra, controlla bene, mi raccomando». Si separarono.

Petralia avanzò radente alla rocca, per dieci, venti, trenta metri, niente. Si fermò: «Giacalone, Giacalone… hai trovato qualcosa?», urlò.

«No, niente», rispose l’appuntato.

Continuarono, fino a che: «Maresciallo, qui… venga», urlò Giacalone.

Petralia lo raggiunse.

«Lo sente il fischio?»

Petralia girò l’orecchio destro verso la parete, in un punto dove la folta vegetazione copriva interamente la roccia. «Sì… e sembra provenire dall’interno», annuì. Prese un bastone di legno e iniziò a battere: toc, pieno, toc, pieno, toc, pieno. Vuoto. «Qui, c’è un varco», dichiarò soddisfatto, «aveva ragione quel povero disgraziato».

«Chi?» Chiese Giacalone.

«Niente, niente, una cosa mia…», rispose evasivo.

Il vento aumentava.

«Te la senti di entrare?», chiese all’appuntato.

Giacalone per risposta inizio ad assestare dei calci sulla vegetazione così da aprire un passaggio.

«Prego, dopo di lei», propose al maresciallo.

 

Entrarono, uno dietro l’altro. Il cammino procedeva in leggera salita insinuandosi lungo il contatto tra due crinali di roccia. In alcuni punti erano evidenti le tracce di picconate per rendere più agevole il passaggio.

Percorsa una trentina di metri, una vecchia porta in ferro bloccò il loro cammino.

«Sorpresa!», esclamò Giacalone, «e ora che facciamo?»

Petralia s’accertò della solidità della porta battendovi vigorosamente sopra il palmo della mano. «È sigillata», osservò, «torniamo indietro, domani ne parleremo con Don Ciccio, lui sicuramente saprà come aprirla».

«Sì», concordò Giacalone, «maresciallo, guardi quel catenaccio».

Petralia s’abbasso. «Uhm, un lucchetto molto particolare», vi puntò la torcia, «è incisa una data, il cinque febbraio 1968, e che minchia significa!», esclamò.

 

Operazione in codice “Wolf”: l’attacco.

Chiusi all’interno del garage i tre stavano ripassando il piano: l’ennesima lezione organizzativa impartita da Pietro, il capobanda, ai due compari, Totò e Ciccio.

«Quindi, riepiloghiamo, Totò appenderà il secchio, mentre Ciccio si occuperà di stendere bene le corde, appena avrete finito correrete dietro la cantoniera, dove ci sarò io ad aspettarvi».

«Bello, fresco e pettinato», osservò Ciccio.

«Che vorresti dire?», s’irritò Pietro.

«Che tu ordini e noi ci mettiamo il culo», precisò Totò.

«E tu che vorresti metterci? Sentiamo», replicò Pietro.

«I…iiii….iiii», balbettò.

«Ecco, iiii il minchione che sei», lo riprese Pietro, «e tu, Ciccio finiscila di bere, cretino».

 

La notte è complice del vento. Nell’oscurità lo lascia comandare e lui soffia e alza la voce quanto vuole. Sbatte, ribatte, struscia continuamente e fischia. Fischia forte.

Ad Acquamara, vento e notte, si favorivano ancora di più, nel rimbombare e vorticare nelle strade strette in improvvise folate come pugni in faccia.

Sospendere il secchio dalla pensilina in ferro non fu cosa facile, per l’eccessivo dondolamento causato dal vento, tanto che Pietro dovette architettare un piccolo adeguamento al progetto originario aggiungendo un ulteriore punto di fissaggio. Tirato da sopra e da sotto, il secchio sembrava reggere abbastanza bene agli impeti del vento.

Finito l’archibugio, s’appostarono dietro la cantoniera e, meno nove, spuntò un cane di mannìra, malandato, che arrancava adiacente al muro, muso e coda abbassati. Meno otto, e cominciò a suonare la campana dell’Annunciazione. Meno sette, meno sei.

Meno cinque, un’ombra si proiettò sulla luce del lampione. Meno quattro, un’altra ombra si delineò sul tessuto di una tenda.

Meno tre, due, uno: le otto, la campana suonò l’ultimo rintocco.

Pietro tirò forte la corda attaccata al batacchio del portone di Giusino Spatola, sospetto lupunaro.

Ton, ton, ton.

S’accese una luce.

Ton, ton, ton.

«Chi è?», urlò un uomo.

Ton, ton, ton.

«Arrivo, arrivo, ma chi è?»

Ton, ton, ton.

Aprì.

In quel preciso momento, Ciccio Sprini manovrò la seconda corda e il secchio iniziò a ondeggiare.

Giusino Spatola, in pantofole e pigiama, dritto sull’uscio, non riusciva a capacitarsi.

«Chi è?», continuava a urlare guardandosi intorno.

Una fortissima raffica di vento strappò la corda, il secchiò volò via. Volò, volò lontano dallo Spatola, verso l’ombra che frattempo s’era fatta uomo. Lo prese in pieno volto.

«Minchia!», fece Pietro accortosi dell’oltraggio, «picciotti, amunì, scappiamo».

Giusino Spatola, ancora confuso, impacciato come una marionetta, iniziò a raggomitolare la corda. «Vastasi! Domani vi denuncio a tutti, vastasi!», urlava al vento.