Petralia era oppresso da un’umidità compatta; seduto, continuava a fissare i contorni confusi di tre individui, probabilmente due uomini e una donna, dritti e immobili, allineati, forse appoggiati, al muro di fronte.

Sul tetto, il roteare di un ventilatore a soffitto che strideva producendo un fastidioso suono metallico.

Ancora nel sonno, sommerso in una impercettibile angoscia, avvertì, emergendo, la sua lingua asciugarsi sul palato.

Schiuse appena gli occhi e fissò la sua mano fuori dal letto. Palpeggiò l’aria, atterrò sul marmo del comodino, tamburellò, a zig zag, zig, zag, e agguantò il bicchiere. Era vuoto. Sconfitto, si riaddormentò.

Il ventilatore riprese a cigolare. Sul piano della sua scrivania, una catasta di documenti impediva la vista sul fronte. S’alzò in piedi, allungò il collo, ma niente da fare, non riusciva a vedere oltre.

Sentiva, a malapena sentiva discorrere animatamente, in una successione di parole insensate: padre padore costretto senza limiti entro come se fosse così maresciallo io l’amavo.

Dormiente, percepì un driin, lontano e offuscato.

Petralia ondeggiò, continuando a masticare l’aria con la lingua asciutta. E ancora, uno, due, tre suoni, più decisi. Sobbalzò e alla fine si svegliò, turbato, con una vaga sensazione di pentimento che lo schiacciava sul letto.

Drin, driin, driiin.

«Chi è che rompe la minchia?», s’adirò interamente sudato, avvinghiato nella coperta di lana che la sera prima aveva voluto tenere a letto, per via di quella sua personalissima, inutile accortezza, smania da freddo.

Drin, driin, driiin, di nuovo.

Urlò: «Vengo, vengo», e tra i denti, «spera a Dio non sia una minchiata, altrimenti…». S’alzò, ancora frastornato si vestì sommariamente e, a piedi nudi, principiò a scendere le scale, «altrimenti lo ammanetto, giuro che lo ammanetto al tubo della grondaia fino a Natale, e gli accendo pure le palle», continuava a blaterare.

Aprì.

«E chi altro poteva essere? Giacalone che minchia vuoi alle sei di mattina?», esordì visibilmente alterato.

L’appuntato non si scompose: «Maresciallo, hanno trovato un cadavere».

«Un cadavere? E dove? Chi lo ha trovato?», scaricò.

«A un centinaio di metri dalla torre di Byrsarone, in fondo al dirupo, ai piedi del castello… abbiamo ricevuto una telefonata anonima, appena trenta minuti fa».

«Chi ha preso la telefonata?»

Giacalone allargò le braccia. «Maresciallo, era di turno Marotta».

«Minchia!», sbottò, «speriamo bene… aspettami, mi vesto e andiamo».

Sembrava così, ma di quel cadavere, a un centinaio di metri dalla torre di Byrsarone, nessuna traccia.

Petralia, rientrato dall’inutile sopralluogo, tentò di acquisire la pur minima informazione da Marotta.

«Allora Carmelo, riprendiamo. Cosa ti dissero al telefono?»

Marotta prese fiato. Aprì la bocca e la richiuse. Spalancò gli occhi e riaprì la bocca, poi si portò il pollice all’orecchio destro e cominciò: «Pronto carabinieri? E io, sì i carabinieri siamo. Parlo con il maresciallo Petralia? E io, no, non c’è, e attaccò».

Abbassò la mano, la rialzò, prima s’asciugò la fronte, poi prese nuovamente fiato, riaprì la bocca, quindi riportando il pollice all’orecchio destro: «Driin, driin. Pronto carabinieri? E io, sì, sì i carabinieri siamo.  C’è un cadavere vicino la torre di Byrsarone. E io, miii Maria Santissima. E quello attaccò».

«E la voce era di maschio, giusto?», domandò Giacalone.

«Maschio», confermò Marotta.

«E non ti disse altro?», domandò Petralia.

«Nonsì», rispose Marotta marcando con una rapida alzata di mento, ma poi, «anzi, sì».

«Sì o no?»

«Un’altra cosa mi disse», deglutì, «mi disse che…», esitò ancora, «mi disse che… che… che aveva il culo di fuori», articolò alla fine con un filo di voce.

«Cosa? Che aveva?», s’alterò Petralia.

«Che era con il culo di fuori», chiarì finalmente Marotta.

«Il culo di fuori, ti disse che aveva il culo di fuori», fece divertito Giacalone.

«Sì».

«Va bene… vai, puoi andare», lo congedò il maresciallo.

Marotta uscì.

«Maresciallo, è chiaro, è uno scherzo», affermò Giacalone, «di uno che non aveva niente di meglio da fare se non rompere la minchia, in piena notte».

«Può darsi, a meno che… qualcuno non abbia fatto scomparire il cadavere prima del nostro arrivo».

«E perché fare tutto questo teatro?»

«Per babbìo, per il divertimento di uno che non aveva niente di meglio da fare se non rompere la minchia, in piena notte», tagliò il maresciallo.

Don Ciccio, stanco, dopo aver scalato duecento e passa gradini, si riposava sedendo sempre allo stesso posto da più di vent’anni ovvero dal momento in cui i suoi capelli, da biondo rossiccio, avevano iniziato a diventare crema di ricotta. E se a cinquant’anni la fermata sarebbe durata al massimo una decina di minuti, a settanta sarebbe potuto rimanere lì seduto la mezza mattinata.

Ma anche l’intera di mattinata. Ormai nessun padrone avrebbe preteso i suoi servigi, dall’ozio di una poltrona di vimini, sigaro in bocca, nell’atrio grande del castello.

Dunque, avendo passato ormai gli ottanta, se ne stava beatamente seduto su quella panca di pietra viva, addossata alla residua mezza torre mastra, rinfrancato dal venticello che riemergeva dal budello di scale diretto nelle viscere del castello, carico dell’umido antico delle stanze che un tempo erano le prigioni.

Se ne sarebbe potuto stare lì l’intera giornata. Persino i pochi visitatori si erano fatti ancor più rarefatti: quattro, cinque a settimana, compresi quegli studiosi di cose storiche o d’architettura medievale che si facevano vivi solitamente nei mesi meno affollati.

Come il professor Hans Peter Wailand, accademico tedesco, che aveva preannunciato la visita al castello con una lettera autografa giunta in pieno agosto.

Ragione per cui, Don Ciccio, che proprio quel giorno s’aspettava la visita del professore tedesco, abbreviò il suo riposo per raggiungere la stanza che si era riservato a uso di studiolo. Una piccola camera di pochi metri quadrati stipata di libri fuorché una parete occupata da un puzzle scomposto di fotografie zeppe di facce, ormai anonime, di visitatori di mezzo mondo.

Aveva già sistemato sulla scrivania i libri che avrebbe voluto dare all’eminente professore: testi di autori, perlopiù siciliani, che avevano trattato del castello e delle sue origini.

Quindi si sistemò nella sua vecchia poltrona e, complice l’imbottitura damascata, nell’attesa del professore tedesco, s’addormentò.