Quando i processionanti esausti, ma speranzosi, rientrarono nella cattedrale per ricollocare la Santa sul suo altare, trovarono la navata invasa da un intrigo da giungla, con le statue sommerse da una fioritura prodigiosa di orchidee. E nel frastuono dei gracidii corali delle rane nelle acquasantiere, spuntavano dagli interstizi del pavimento ciuffi di piante endemiche.
La gabbia dell’allodola pencolava vuota, mentre dal trittico dorato che sovrastava l’altare maggiore s’erano involati gli Angeli Implumi, ed una pioggerella finissima e fitta, odorosa di resina, permeava dalla volta a cupola.
Fu uno strano miracolo quello a cui si assistette quel venerdì 17: dentro la cattedrale pioveva, all’esterno, invece, neppure uno sfilacciamento di nube, né un alito di vento, a scalfire il calore assassino dell’aria.
Don Apollinare, in preda ad un’ira confusa quanto incontrollabile, puntò il dito accusatore contro Giustina Nepanto e gli stolidi che avevano voluto, a tutti i costi, quella loro inammissibile complicità, quel delittuoso mischiare il sacro col profano, l’occhio di Dio e la sfera di cristallo, (seppur, a onor del vero, la veggente mai ne aveva fatto uso), astuzie nocive che avevano ottenuto come risultato quello sberleffo divino.
Si sbracciava, Don Apollinare, gesticolando dal pulpito fiorito di gelsomini, mentre profetizzava, con enfasi apostolica, alimentando lo shock collettivo, la minaccia del castigo di una catastrofe ancor più grande..
Nello smarrimento generale, Giustina Nepanto, era riuscita a non farsi emotivamente condizionare dall’assurdità dell’evento e a cercare, invece, la causa che lo aveva generato. Allora rivide Victor Galeno, così come le era apparso quel pomeriggio di venerdì 17, con lo sguardo crepuscolare dei sonnambuli, avvolto in una fredda aurea boreale odorosa di resine.
Di nuovo cercò un collegamento tra la visione onirica del dissotterramento dell’asso di bastoni che, nel linguaggio delle carte, rappresenta la forza di volontà, la creazione e la crescita, e l’apparizione improvvisa di quell’esule solitario.
Non rispose, come era sua consuetudine, alle invettive del prete, d’altronde lei aveva preso parte al rito della processione solo per accontentare la comunità, ma per nulla convinta di quella iniziativa, e limitandosi a far dondolare l’aspersorio che lei stessa aveva riempito con innocua acqua decantata e sale marino.
Non aveva colpa di nulla, quindi, ma spiegarlo non sarebbe servito, non era quello il momento adatto alle rivelazioni perché l’intero paese si apprestava a celebrare, con la perdita della ragione, quel diabolico prodigio, con l’interno della cattedrale invasa da una giungla fiabesca, sferzata da una pioggia battente, con le vetrate illuminate dalle luci rosse dei lampi e le navate percosse dal rimbombo del tuono, mentre fuori, all’aperto, l’aria che sapeva di fuoco toglieva il respiro.
Pure immaginava, Giustina Nepanto, che tra non molto sarebbe iniziata la caccia alla strega, perché gli animi incrudeliti dal disonesto j’accuse del prete, e fuorviati dalla beffa di quel miracolo inopportuno, avrebbero ben presto avuto necessità di un capro espiatorio e, di sicuro, la vittima sacrificale non sarebbe stata Lucrina, santa, seppur dotata di un sarcasmo micidiale.
Doveva ritrovare lo straniero prima che l’intera comunità smarrisse del tutto la ragione.
Victor Galeno, afflitto dal morbo pernicioso dei sonnambuli che lo costringeva ad una solitaria vita da errante, aveva cercato invano di assopirsi, riposandosi da se stesso e dall’afflizione di quel suo stato congenito che non gli concedeva tregua, costringendolo ad una vita spossante, vissuta ad occhi aperti.
La fredda nebbia che lo avvolgeva contribuiva a mantenerlo desto e percettivo, in una perenne condizione di all’erta, con i sensi organizzati a schivare un sempre probabile pericolo.
Quegli stessi sensi che ora lo avvertivano che qualcuno stava fiutando il suo odore.