Decise che quello era l’ultimo. In verità all’inizio non aveva per nulla chiaro il perché di questa decisione e, almeno a voler dar retta a consuetudini e canoni sociali, la stessa affermazione era difficile da giustificare. E nemmeno c’era una ragione, se vogliamo dar retta al pensiero comune, che giustificasse una scelta così drastica.
Di certo chiunque l’avrebbe considerato un vaneggiamento da vecchio ormai fuori di testa. Tuttavia rientrava nell’orbita delle sue facoltà prendere questo tipo di decisione. In fondo era da sempre che c’era chi aveva il potere di decidere addirittura di mettere fine ai suoi giorni terreni, no? È vero che la morale religiosa, quale che fosse – ed anche quella civile, se vogliamo – proibivano una scelta così estrema, sostenendo che l’essere umano non può disporre liberamente dei suoi giorni in quanto questi apparterrebbero o a un qualche creatore o a chi ti controlla, sia esso un re, un imperatore, un duce o un qualsivoglia tiranno nel quotidiano esistere. Nonostante ciò è tutt’altro che trascurabile il numero di quelli che sfuggono a questa regola e decidono di dare un taglio alla propria vita. Accettando con ciò di trasgredire un imperativo categorico e di affrontarne le conseguenze che vengono definite terribili e spietate.
Addirittura c’è stato un tempo in cui si negava la sepoltura in terra consacrata – e il relativo perdono dei peccati – a chi si fosse macchiato di una tale infamità. Oggi di fatto siamo un po’ più elastici e ragionevoli sulla questione: forse in virtù di una qualche spinta a laicizzare il quotidiano o, volendo, per merito di quella vaga idea “anarchica” (ma solo nella forma, non certo nella sostanza) che pare serpeggiare fra la gente ch’è sì desiderosa di essere “comandata” ma, al tempo stesso, non disdegna di farsi protagonista di qualche sana ribellione.
Insomma, sia come sia, aveva deciso che quello era l’ultimo. Non necessariamente l’ultimo giorno della sua vita – che anzi era convinto di avere ancora una abbondante e sana voglia di vivere – ma il suo ultimo racconto. Poi avrebbe deciso per il resto.
Era stanco di inventare personaggi, di dar loro vita, di farsi responsabile dei loro destini, delle loro scelte, talvolta delle loro miserie, spesso delle loro sofferenze ed umiliazioni. Anche quando cercava – e non era per nulla facile – di mettere sulla carta storie allegre, divertenti, con un sano e buon finale di prammatica, in fondo la sua restava un’operazione subdola ed equivoca. Aveva diritto di far vivere quelle anime? Quand’anche fosse stato così – e quasi sempre c’era nelle sue storie almeno un pizzico di verità preso a prestito dal mondo reale – il suo restava un abuso gratuito e ingiustificato. Nessun gli aveva assegnato in alcun modo quel diritto.
La cosa buffa era che talvolta per fare quello che forse poteva anche essere definito “lavoro”, veniva addirittura pagato. La gente trovava normale questo fatto, ma lui no. Ricordava ancora lo sconcerto con cui aveva guardato l’assegno fattogli avere da una rivista che aveva così “ricompensato” la sua fatica, ovvero il primo parto che aveva visto la luce su quelle pagine ed era stato dato in pasto ad ignoti sconosciuti lettori. Che, evidentemente, avevano gradito ma lui era rimasto egualmente scombussolato. Al punto che quei soldi non l’aveva mai incassati, benché all’epoca ne avesse un bisogno quasi disperato. Con l’assegno aveva addirittura fatto un quadro, che aveva sistemato in bella mostra dietro la sua scrivania di lavoro. Tutti sostenevano che lo avesse fatto perché voleva sottolineare che quello era stato l’inizio di una splendida carriera letteraria. Ma si sbagliavano, e alla grande: in realtà lui aveva in qualche modo provato vergogna, visto che gli pareva di aver voluto mettersi allo stesso livello di un qualche dio, capace di dare la vita a suo piacimento.
E allora, domanda più che la logica, perché l’aveva fatto? Perché aveva scritto quelle quattro pagine scarse? Un demone, non c’era altra risposta, lo aveva spinto a farlo e continuava a tormentarlo perché prendesse carta e penna (all’epoca in realtà aveva già cominciato a usare il computer) e non lo mollava finché non era soddisfatto della sua (del demonio, sia ben chiaro) opera.
Soltanto allora si decideva a lasciarlo libero dall’incantesimo e gli permetteva di essere un normale umano qualunque. A questo punto qualcuno potrebbe a ragione obiettare che non stava scritto da nessuna parte che quella “cosa” partorita sotto il dominio del maligno dovesse essere resa di pubblico dominio. Vero anche questo. E non aveva giustificazione alcuna se non forse il fatto che, almeno quella citata prima volta, era stato solo a titolo sperimentale che aveva inviato il racconto alla rivista. Il suo obiettivo vero era capire se quella sorta di maledizione era fine a se stessa oppure no, e se, semmai, se facesse anzi parte di un piano più ampio e meschino.
Aveva così scoperto che sì, c’era un vero piano dietro e che lui era impotente in proposito. Per quanto tentasse, non riusciva a sfilarsene via e, quasi a ulteriore conferma dell’ineluttabilità, erano arrivati i romanzi ed il fiume di denaro che gli era piovuto addosso con la gente che faceva la fila nelle librerie per accaparrarsi le pagine pubblicate dall’editore. Non s’era mai visto nulla del genere, il mondo intero ne parlava e lui, all’inizio soprattutto era stato travolto dagli eventi. Ignaro che, una volta che hai assaporato quella sorta di ebbrezza diventa poi difficile – come per qualsivoglia droga che si rispetti – farne a meno.
La conseguenza era stata che non aveva più avuto una vita sua: passava il suo tempo inseguendo le acrobazie e le assurdità dei suoi personaggi che, come non bastasse, erano persino saltati fuori dalle righe stampate per diventare esseri umani in carne ed ossa che attori fichissimi e attrici da infarto avevano portato sullo schermo rendendo così ancora più visionario il suo incubo quotidiano.
Era andato avanti a questo modo per anni: altri avevano scelto al posto suo ogni cosa della sua vita. Addirittura lo avevano costretto al matrimonio prima e dalla separazione poi per ben tre volte, gli avevano fatto mettere al mondo una nutrita schiera di figli, lo avevano forzato a mantenere splendide amanti viziate, sovente tossicodipendenti, cocainomani, costretto a viaggiare nei posti più incredibili della terra, lanciato in avventure e situazioni improbabili, amato ed odiato, blandito e vezzeggiato, invidiato e solleticato, senza che mai avesse avuto modo e forza di ribellarsi.
Una cosa sola non erano riusciti a fare, sebbene ci avessero provato in tutti i modi: impedirgli di invecchiare. Lui era la loro gallina dalle uova d’oro e non potevano permettergli che si lasciasse andare all’istinto di mandarli tutti all’inferno. Controllavano ogni angolo ed ogni secondo della sua esistenza, non c’erano posti dove potesse rifugiarsi e non aveva modo di muoversi se non portandosi appresso carta e penna o, sempre più frequente con il passare degli anni, un bel portatile e, laddove in casi estremi ciò non era possibile, un perfetto registratore digitale, sempre pronto a tenere solida traccia dei mille inganni che le sue meningi senza sosta partorivano.
A nessuno fregava una beneamata mazza che non ne potesse più, che fosse stanco fino alla nausea. Nemmeno i suoi tanti figli, alcuni dei quali ormai grandi e lanciati nell’esistenza mondana, ma pur sempre viziati dalla bella vita che lui aveva permesso che vivessero, nonché pressati da quelle avide arpie di madri sue ex mogli, avevano quel briciolo di cuore che forse, in virtù del loro essere “figli”, ci si poteva anche aspettare. Tutti da lui volevano una cosa sola: soldi. E lui aveva un solo modo per trovarli: scrivere.
Ma ora aveva deciso. Il suo ultimo lavoro era stato concepito con un intento preciso: era un racconto molto lungo nel quale visto che gli anni avevano affinato la sua perizia letteraria all’inverosimile, aveva avuto la capacità di riunire tutti i personaggi da lui creati nel tempo, con il bagaglio delle loro storie personalità e tutti li aveva distrutti, uno a uno, umiliandoli e facendo loro fare una morte meschina e vergognosa. Tale che nessuno di loro potesse in alcun modo essere riesumato e tornare sulla cresta dell’onda.
Era stata una liberazione immensa, impossibile da descrivere, totalmente vissuta all’insegna del sollievo e allorché aveva aggiunto la fatidica parola “fine” e chiuso l’ultima revisione, salvato il file e speditone copia a tutti i maggiori editori con tanto di liberatoria autenticata per la pubblicazione, s’era sentito un uomo felice.
Solo allora aveva trovato saggio prendere l’altra decisione (o forse era stato il demone a farlo): s’era scolato il bicchiere che aveva preparato nel momento stesso in cui aveva dato il via all’impegnativa operazione. È vero quello che dicono: il cianuro è amaro, cattivo, disgustoso ed ha un vago aroma di mandorle. Ma ci vuole un attimo perché vada giù, dopodiché arriva quasi subito il paradiso.