Non erano i lampi nel cielo che squarciavano la notte, né il rumore delle granate che esplodevano facendo tremare anche i denti, o il fruscio delle schegge che spazzavano la terra violentata mille e mille volte.
Era il fango, che aveva riempito la trincea, o meglio, il buco, e fuoriusciva ogni volta che un proiettile d’artiglieria o un missile esplodeva troppo vicino, spremendo la terra come fosse una spugna.

I primi tempi era diverso, all’inizio ogni tanto tiravi fuori la testa per guardarti intorno, rapidamente, s’intende, appena uno sguardo, poi… poi non era stato tanto il fatto che il mio compagno si era visto portare via metà faccia da una scheggia vagante, quanto che era inutile: ogni notte era la stessa cosa, un martellamento continuo fatto di rumori e lampi, in attesa che uno di questi finalmente facesse centro nella tua buca. Poi, di giorno, tutto si calmava, e sentivi il ronzio dei droni che scandagliavano il campo di battaglia, e qualche sparo isolato di imbecilli che provavano ad abbatterli. Gli elicotteri no, a quelli sparavano soltanto nei filmati per la televisione, perché se un pilota s’incazzava ci metteva un attimo a puntare su dove era partito il colpo e… BANG!

Passavo la notte rannicchiato in fondo alla mia buca, e faceva freddo, sì, un freddo cane, ma ero anche anestetizzato dalla morte e dalla noia, aspettando il mio momento. A volte immaginavo un nemico che spuntava sopra di me, mi guardava negli occhi e poi lasciava partire una raffica. Solo una raffica. Avrei potuto colpirlo prima io, forse, ma dietro a lui ce ne sarebbero stati altri, e altri ancora.
Non è vero, sapete, che la speranza è l’ultima cosa a morire: la mia era già morta, solo, aspettavo e mi immaginavo mille volte la scena, notte dopo notte, anche se non succedeva mai.
Il nemico era lontano, dicevano, il nemico si stava ritirando, no, ci aveva aggirato. Dov’era il nemico? Sentivo solo le cannonate e il sibilo dei missili e dei proiettili. Poi, la botta.

Non è vero niente, sapete, non è vero che aspetto la morte. Ogni istante esco con il pensiero dalla buca e mi immagino di tornare alla vita normale. Poi penso che anche lì ci sarà la fregatura, che gli imboscati avranno preso tutti i posti migliori, ma no, mi dico, impossibile: è morta tanta gente, tutta della mia età, che di lavoro ce ne deve essere per forza. Ci sarà un Paese intero da ricostruire. Poi penso che arriveranno gli stranieri con i loro soldi, gli stessi che hanno fornito le armi e provocato questa guerra, e io e gli altri saremo solo manovalanza, carne da cannone. Carne da cannone, già: e cosa siamo adesso?
Un rumore improvviso desta la mia attenzione e mi strappa ai miei pensieri. È un fruscio, un annaspare. Un animale? No, non ci sono animali tanto stupidi da rimanere in questa terra. Deve essere un uomo… Imbraccio il fucile, che è lordo di fango e mi scivola tra le mani, e lo punto tremando verso l’orlo della buca, dove mi sembra di sentire un rumore. Aguzzo lo sguardo e cerco di vedere dove sta il nemico alla luce dei lampi dell’artiglieria. Eccolo, no… è solo un’ombra. Ma aspetta…
Due mani spuntano dall’orlo e sembrano nuotare nel fango, trascinandosi dietro le spalle e una testa che cerca disperatamente di capire dove si trova. Non riesce a scendere nella buca, è completamente buio e non ne vede il fondo. Allora lo afferro per le mani e tiro, tiro forte. L’uomo mi frana improvvisamente addosso, sprofonda nel fango che è in fondo alla buca, sputa, tossisce, poi si rende conto della mia presenza.
«Gr…grazie» dice, poi sviene.

Cerco di tirarlo su prendendolo per la giubba, ma cristo come pesa! Ci rinuncio e l’adagio di nuovo nel fango, appoggiandolo alla parete della buca, in modo che non corra il rischio di finire con la testa sott’acqua e annegare. Stremato, mi appoggio dall’altra parte, ma non vado lontano: la mia buca è poco più che una latrina, sarà tre metri di diametro. Bene, mi sono detto cento volte, più è piccola e meno è probabile che una bomba di mortaio la centri e ci esploda dentro! Forse. Almeno, mi sembra logico. Lo guardo, è una maschera di fango. Provo a toglierlo dagli occhi e dalla bocca, ma le mie mani non sono meno sporche. Fanculo, penso, tanto tra poco saremo tutti morti!

In certi momenti la terra trema di più, le esplosioni si susseguono più frequentI, o forse sono solo più forti, non so. La notte continua ad essere illuminata dalle esplosioni. Qui è sempre notte, ma è normale, è inverno, e poi è meglio così: sarebbe più difficile morire in primavera, penso. Che idiota!
Devo aver parlato ad alta voce, perché vedo che lui si agita, si sveglia. Ci sono esplosioni che mi fanno battere i denti dalla violenza e lui si sveglia per una frase detta ad alta voce! Incredibile!
Vedo che apre gli occhi, si passa una mano per ripulirsi la faccia, poi la bocca. Tossisce, si guarda la mano quando uno schianto illumina la buca. Lo so cosa stai guardando, se c’è del sangue.
Riappoggia il capo contro la terra, è stremato, le braccia lungo i fianchi. Solo allora si accorge di me, forse si ricorda che l’ho aiutato. Sì, sorride. Sorrido anch’io, almeno credo, anche se non ha senso.
«Tutto ok?» dico.
Lui risponde con un filo di voce: «Mi sembra di sì.» Poi: «Grazie.»
Alzo le spalle.
«Mi hai tirato giù tu nella buca?»
Accenno di sì con la testa. A questo punto ci vorrebbe una sigaretta, ma non fumo. Fa male. Mi viene da ridere, lui se ne accorge.
«Che c’è?» chiede.
«Niente. Volevo offrirti una sigaretta, ma non fumo, e sai perché?»
«Perché fa venire il cancro». Non era difficile. Ride anche lui.
«Come sembra diverso tutto quando si sta per morire, vero?» dico.
«Io credevo di essere già morto.»
«Cosa ci facevi là fuori?»
Lui si guarda un po’ intorno: «Non lo so» dice, «mi ci sono trovato e poi non sapevo più dove andare.»
Già. Questo è il motivo per cui non lascio mai la mia buca.
«Hai da mangiare?» chiedo.
Si tasta la giacca, poi allarga le braccia. Il gesto è chiaro. Tiro fuori una barretta di cioccolato e la pulisco dal fango.
«Tieni» dico.
Lui la prende, la scarta e se la mette in bocca tutta intera, come un bambino che ha paura che gliela portino via.
«Fame?»
Ha la bocca piena. Scuote la testa: «No, cioè, sì. È che credevo che non avrei mai più mangiato.»
Vedrai che tra un po’ ti accorgerai di avere fame! Penso. Il mio zaino è quasi vuoto: tutto quello che avevo fregato in magazzino è andato, ma tanto, chi pensa che saremo vivi domani o dopo?
«Hai visto dei tank?» chiedo, tanto per dire qualcosa.
«No, ma ho sentito il rombo dei motori. Almeno credo, c’è tanto rumore che…»
Chissà se un carro armato passerebbe sopra la nostra buca senza sfondarla. Non credo, le pareti crollerebbero e ci seppellirebbe nel fango. Meglio una bomba allora, almeno sarebbe questione di un secondo. Poi penso alle membra che ho visto sparse sul terreno. Quelli che parlano bene della guerra, eroica, santa… hanno mai visto in quanti pezzi finisce un uomo? Quanto può trascinarsi nel fango un ragazzo di vent’anni con il ventre squarciato, le budella sanguinanti che cerca di rimettersi dentro la pancia?
«È terribile…» dice lui. Sembra che stia per piangere, ed è un buon segno.
«Vorrei che chi mi ha mandato qui fosse là fuori con noi» dico.
«Stai tranquillo che quelli stanno al sicuro, al caldo, in televisione…»
«E sono degli eroi, dei salvatori della patria: gli dedicheranno monumenti…»
«E li riempiranno di soldi» dice, «mentre io se tornerò a casa dovrò cercarmi un lavoro per dare da mangiare alla mia famiglia.» Fa una pausa. «Se…».
«Sei sposato?» chiedo.
«Sì, da due anni. Ho una bambina di sei mesi… Chissà…»
Mi mordo le labbra. Che cazzo di domanda che ho fatto! Con uno sforzo mi tiro su e mi avvicino a lui. Lo abbraccio, un po’ goffamente, come si fa tra uomini. Lui si lascia andare e piange, prima piano e poi sempre più forte. Comincia a piovere, mentre un velo grigio all’orizzonte annuncia l’alba.
«Sai cosa mi viene in mente?» mi dice.
«Che cosa?»
«Ricordi quel film di Mel Brooks? Quando attacca a piovere?»
«Frankenstein Junior?»
«Sì, quando stanno scavando e Gene Wilder dice al gobbo “Che lavoro schifoso”»
«E lui: “Potrebbe andare peggio”. “E come?”»
«”Potrebbe piovere!” E giù l’uragano!»
Ci mettiamo a ridere come due scemi, mentre l’acqua ci lava il fango dagli occhi e dalla faccia. E dalle divise. Diventiamo entrambi seri: le nostre uniformi sono diverse.
«Senti» dico dopo alcuni lunghi istanti, «a me non frega un cazzo se sei russo o ucraino. O cinese. Quei figli di puttana che mi hanno mandato a morire in questo merdaio, quelli li ammazzerei volentieri, ma contro di te non ho proprio niente!»
Lui mi guarda. È lo stesso ragazzo a cui ho asciugato le lacrime qualche istante prima.
«Siamo fratelli» mi dice, «fratelli di guerra.»
«E di morte.»
«Dio! Speriamo di no!». Poi ha un’idea: «Scambiamoci le giacche!» mi dice, «così avremo metà divisa dell’uno e metà dell’altro, e chiunque verrà a trovarci non saprà cosa fare!»
È un’idea pazza, ma faccio come mi ha detto.
Sempre che non sia un missile o una bomba, a trovarci, penso, e so che è la stessa cosa che pensa anche lui.