A torto o a ragione, in gran segreto o alla luce del sole, ciascun lettore ha i suoi idoli. Non faccio eccezione, com’è ovvio e, non meno ovvio, quei due o tre (forse) affezionati lettori di questa mia pseudo rubrica se ne saranno di certo accorti da soli. Conosco persone che, nei vari ambiti artistici, riescono (e proprio non so come facciano, anzi non esito a dire che m’insospettiscono) a venerare uno ed uno solo idolo. Un solo pittore, un solo cantante, un solo musicista, un solo scrittore e così via. Gli altri per loro son monnezza o poco più.
Personalmente ho difficoltà a condividere un simile atteggiamento. Anzi, ma qui chiudo il lato polemico della questione, di fronte a simili persone provo la stessa insopprimibile paura che m’ispira ogni fondamentalista, che sia cristiano, musulmano, indù o banale ed ottuso seguace d’un qualche partito politico. È la varietà che, a mio avviso, arricchisce la vita con la bellezza. E, come promesso, non vado oltre.
L’incontro con John Irving
Questo per dire che da lettore, come chiunque, vivo grandi amori ed innamoramenti fulminati. Alcuni durano nel tempo, altri s’attenuano, qualcuno (pochi, ma capita) svaniscono via via con gli anni. Uno di quelli che nel mio universo di lettore ha resistito nel tempo è John Irving. Giusto nel momento in cui m’accingo a raccontare com’è nato questo “rapporto” m’accorgo che c’è una sorta di ripetizione: anche qui tutto comincia con un film, ovvero “Le regole della casa del sidro”. M’affretto a dirlo (o a ridirlo, se già lo avessi fatto): difficilmente resto soddisfatto della versione cinematografica d’un libro. Troppo è il divario con cui mi ritrovo puntualmente a fare i conti, laddove inevitabilmente i vincoli del set cinematografico rendono difficile, se non impossibile, ad un pur ottimo sceneggiatore, trasporre in immagini la complessità di quanto la scrittura è capace di descrivere e, soprattutto, evocare. Com’è di prassi, questa regola ha pur sempre le sue debite eccezioni, ma non è il caso che sto citando.
Intanto m’avvicino con estrema difficoltà ad un film di cui ho letto il libro, per principio. Ma con la Casa del sidro in realtà, non sapevo neppure che esistesse un libro. Coltivo però un ulteriore vizio: ogniqualvolta un film mi piace, se posso riservo una seria occhiata ai titoli di coda per vedere se per caso c’è una origine libresca. Così in effetti fu: ignoravo chi fosse questo benedetto signore dalle cui pagine era stato tratto il film, ma questo non m’impedì di compralo e leggerlo.
Forse è banale aggiungere che il libro era enormemente più bello del film, che anzi il film, come quasi sempre accade, altro non aveva fatto che “spiluccare” qualcosa dell’ampio e complesso patrimonio narrativo. E capii pure (infine!) che diavolo c’entravano le “regole della casa del sidro”, cosa che nel film non avevo trovato (o m’era sfuggito). Una storia affascinante, ricca, complessa ed anche intensa di significati sociali. Debbo precisare che il film, soprattutto nei personaggi principali, il dottore (un ineguagliabile Michel Caine) e la bellissima protagonista (una splendida Charlize Theron), era stato capace di cogliere la sostanza più intima di quei personaggi, ma la ricchezza della fabula narrativa di Irving era una autentica rivelazione.
Di lì, il passo a tuffarmi nella produzione di questo autore fu di fatto breve. E scoprii subito che il suo romanzo di esordio, Il mondo secondo Garp, non solo era altrettanto spettacolare della Casa del sidro ma che, anch’esso, era stato tradotto in linguaggio cinematografico e con due attori niente male direi (Robin Williams e Glenn Close). E che, udite, udite, avevo visto ed apprezzato qualche anno prima ignorando totalmente che fosse un libro. Un signor libro, anzi, da cui ricordo benissimo quanto fu doloroso separarsi alla fine, tanta era la sua capacità di affascinare.
Quegli adorabili personaggi complessi
Tra l’altro, in questa opera prima, Irving anticipava, più ancora che nella casa del sidro, una delle caratteristiche che più contraddistinguono i suoi personaggi, ovvero una certa “picaresca” e pittoresca consistenza. Non è un caso infatti che il ruolo di protagonista fosse assegnato al compianto Robin Williams ch’è sempre stato un attore in grado d’impersonare personaggi piuttosto complessi ed assai poco lineari.
Ora è evidente che ci vorrebbe ben altro spazio (e qualità critiche) per entrare nel dettaglio di tutta l’opera di Irving e dei suoi personaggi ma, ove più, ove meno, il mondo che racconta è fatto di personaggi molto particolari, persino al limite, se vogliamo, del paranoico e del border line, certo capaci di interpretare la vita in maniera assolutamente personale ed affascinante, almeno per il sottoscritto.
Uno story-teller che ama i suoi racconti
Ma quanto più m’ammalia di questo autore è la sensazione che provo leggendolo, di trovarmi attorno ad un fuoco (magari in un campeggio tipicamente americano, immerso nei boschi solitari delle Montagne Rocciose) e di ascoltare uno story-teller affascinante e che ti ruba l’anima più e peggio d’un pifferaio magico. Irving, a mio avviso, è un narratore nato, che quando ti racconta la sua favola lo fa con la sapienza di chi ama raccontare e venera le sue storie. Andando poi a leggere la vita di questo scrittore, ti rendi conto che c’è molto di autobiografico nella sua opera. Per esempio, a più riprese nei suoi lavori si incontrano degli sportivi che praticano la lotta libera e non è casuale visto che John Irving è stato un grande appassionato di questa disciplina olimpica. Così come son frequenti i suoi richiami all’Europa dove lui a vissuto per certi periodi e della cui cultura la sua opera (pur coi limiti connessi con la questione “traduzione”) è fortemente intrisa.
È e resta uno scrittore tipicamente americano, col suo fortissimo senso della vita di frontiera ed i personaggi presi a prestito da una dimensione a volte lontana dal nostro modello culturale, immersi in una visione della vita e dei valori in cui non sempre è possibile riconoscersi. Ma se volete sognare, se volete lasciarvi trasportare in avventure tipicamente “made in US”, allora dovete avvicinarvi alle sue pagine.
Ebbene sì, io che leggo di tatuaggi!
Forse il mio entusiasmo è eccessivo, lo ammetto. Recentemente ho saputo che ha pubblicato un altro romanzo e sto per compralo. Per il resto ho letto tutto di lui e sono riuscito a lasciarmi coinvolgere persino da “In cerca di te”, una storia in cui tutto è imperniato sul mondo dei tatuaggi, pratica che personalmente trovo assolutamente ridicola e… lasciamo perdere, dovreste avermi capito.
Eppure con Irving anche quel mondo m’è sembrato diverso e ricco d’un suo “significante”: continuo a pensare che così com’è attualmente praticata il tattoo sia una stupida e sovente volgare moda senza senso, tipica di una società consumistica, banalmente edonistica e “pecoreccia”. Ma può avere una sua strana dignità, figlia di momenti particolari ed ambienti specifici (quello marinaro, ad esempio) ed essere espressione d’un linguaggio e d’una cultura.
Se ho trovato dunque questo accomodamento “ideologico” lo debbo ad Irving che, per inciso, durate la ricerca per scrivere il citato romanzo, arrivò a farsi tatuare la foglia d’acero simbolo del Canada, di cui sua moglie è cittadina. Lo debbo alla sua bravura ed alla sua versatilità innata di narratore. Non penso che mi farò mai un tatuaggio, ma ora so che ci può anche essere una cultura in proposito che, ribadisco, poco o niente ha a che fare con certe mode infantili d’oggi.
E che, come le regole della casa del sidro, possono nascondere mondi ammalianti.