PASQUALE
Sono passati più di dieci anni dalla tua morte, papà, ma quando ti penso un velo di tristezza e malinconia mi riempie il cuore, le immagini della tua vita danzano nella mia mente e le parole premono per uscire. Queste parole hanno costruito una storia, la tua storia, papà, che custodisco nel cassetto della memoria, e restituisce immagini che si rincorrono veloci all’inizio, poi, come alla moviola, rallentano e mostrano quella strada…
La percorrevi due volte al giorno: sterrata, stretta, piena di avvallamenti e spesso solcata da rigagnoli. Era costeggiata da sparute case di pietra grigia, dura come la tua vita, attaccate una all’altra.
Quella sera una leggera nebbiolina aleggiava nell’aria impedendo una visuale nitida. I grigi, i marroni e i beige annunciavano l’inverno. Eravate in due: tu quarantenne e già vecchio e Mario, il tuo piccolo di appena otto anni, fin d’allora maturo. Le gambe stanche, le spalle curve per proteggersi dal freddo umido della sera, la testa china, riparata da un cappello di lana che non impediva al freddo e alla pioggia di penetrare nelle ossa: un leggero tremito vi scuoteva come il vento le fronde alte. Gli occhi bassi guardavano la strada di cui conoscevate ogni minuscolo sasso, ogni buca. Dopo ogni pioggia il fango rallentava il vostro passo arrancante nella poltiglia che vi infradiciava.
Bramavate tornare a casa per accoccolarvi davanti al fuoco acceso nel piccolo camino che scaldava soprattutto i cuori. Appena arrivavi, tua moglie, Filomena, portava in tavola la minestra di legumi cotta per ore, con pazienza, nella “pignata”, sulla brace tenuta scostata dal fuoco vivo.
Poi finalmente andavi a letto, distendevi il corpo e la mente e potevi riposare; non ti accorgevi certo di quanto fosse sottile lo strato di lana poggiato sulle assi di legno.
Come se i fotogrammi scorressero all’indietro, ti ritrovi bambino; la tua vita era già segnata …
Quanto dolore per la morte di tuo padre. Eri ancora così piccolo!
La senti ancora adesso la mano dello zio Bruno che stringeva la tua quando ti prese con sé insieme a Mariuzza, tua sorella, per togliere a Carmela il compito gravoso di mantenere una famiglia di otto fratelli.
Imparasti a chinare il capo e ad accettare la vita spietata di allora. Dovevi guadagnarti ogni piccolo dono che la terra dava e lavorare, lavorare i campi del conte, proprietario di tutto il circondario. Dava lavoro per una miseria, si poteva sperare solo in un raro atto di bontà. Per fortuna la terra era generosa nell’elargire i suoi frutti, che erano i migliori che si potessero desiderare. Ce lo dicevi sempre che i nostri pomodori erano i più saporiti.
Quanto amavi quella terra!
Ma ora le immagini diventano più crudeli…
Nelle tue orecchie rimbombano i colpi dei cannoni, rivedi la tua baracca nel campo di concentramento e senti la fame che ti attanaglia lo stomaco. Com’era invitante quella buccia di patata! Ti chinasti a raccoglierla e un dolore sordo alla nuca ti sconquassò la mente. Quanta crudeltà negli occhi di quel tedesco. Lì conoscesti la malvagità degli uomini. Poi il miracolo del ritorno a casa, il dolore per la morte di Carolina, la tua fidanzata. Volevi costruire il tuo futuro insieme a lei, ma se n’era andata abbandonandoti.
Non lasciasti quella famiglia che ti aveva adottato come un figlio, e ritrovasti l’amore nella sorella più piccola di lei, poi il matrimonio e finalmente l’assegnazione delle terre.
Un’immagine felice, nitida, appare all’improvviso…
Eccola: la tua terra! Quanto la amavi! Era la prima volta che possedevi qualcosa. Ne prendesti una manciata tra due pietre e la lasciasti scorrere tra le dita: marrone scuro, bella, grassa, odorava di mare e di sole. Quel piccolo appezzamento te l’eri guadagnato, avevi lottato duramente per strapparlo alle grinfie dei proprietari terrieri. E con te i tuoi cognati, Pasquale, Antonio, Salvatore e Raffaele, e tutto il paese.
Vi guidava il fratello di tua suocera “U Trugghio”: la vittoria era scontata, lui non si arrendeva davanti a nulla.
Anche le donne erano con voi. Ricordi tua suocera Teresina? E sua sorella quando, coltelli alla mano, avevano punito gli scagnozzi del conte che meditavano vendetta contro di voi, tagliuzzandoli con le punte? Lo avevano fatto per salvare voi uomini, per impedirvi di commettere un crimine ancora più grave.
Finalmente padrone, avevi lavorato duramente per rendere il campo coltivabile, ti eri spezzato la schiena per rompere le pietre, trasportarle fuori e, da solo, avevi costruito il muretto che cintava il tuo terreno. Con quanta maestria cercavi le pietre giuste e le sovrapponevi una sull’altra: era un’arte la tua e alla fine, con l’ostinazione che ti era propria, lo costruisti il tuo muretto.
Ti guardavo lavorare e vedevo il sudore scorrere lungo la faccia; ogni tanto una smorfia silenziosa deturpava il tuo viso: la tua schiena si faceva sentire. Desideravo aiutarti, ma finivo con l’intralciarti e così me ne stavo zitta e buona cercando di non pesare.
Mario, il tuo primogenito…
Durante l’estate, quando non andava a scuola, lo portavi con te in campagna, gli insegnavi a lavorare la terra, a usare attrezzi pesanti che lasciavano i segni sulle sue piccole mani. Ti doleva il cuore, ma soprattutto sapevi che quella vita non si confaceva al tuo bambino. Le sentivi pulsare le sue inquietudini: i suoi occhi luccicavano quando, nei pochi momenti liberi, sfogliava una rivista o quando gli leggevi i libri. Era una lettura stentata la tua, ma ti permetteva di guardare oltre la vita misera e dura e ti faceva vedere mondi e situazioni inimmaginabili. Tutte le sere ci trovavamo davanti al caminetto, anche lo zio Raffaele, fratello della mamma. Che immagini riuscivi a suscitare con quella lettura! Vedevo i tre moschettieri che combattevano per salvare l’onore della regina, ma un certo punto mi addormentavo, tu posavi il libro, mi prendevi in braccio e mi portavi a letto.
Le immagini sono sfocate: la campagna era solo un sogno.
Ti sei trasferito dal paese alla campagna con la tua famiglia. All’inizio sembrava che tutto andasse bene; riuscivate a farvi bastare ciò che la terra dava. Le donne avevano il loro daffare: i panni da lavare nella grande vasca di pietra, le verdure da raccogliere, le conserve da preparare, gli animali da curare, le mucche da mungere, il formaggio da fare. Gli uomini lavoravano i campi dall’alba al tramonto. Una vita dura, ma serena.
Ognuno aveva un suo compito e tutto funzionava. Mario e il cugino Totò avevano costruito una casetta su uno degli eucalipti che fungevano da confine tra le terre e lì passavano le loro giornate a fantasticare, chissà su cosa.
Come tutti i sogni anche questo finì. Ci fu l’incendio! Ricordo ancora adesso il caldo soffocante di quel maledetto agosto; le fiamme sempre più alte, il fumo che impediva di respirare: un anno di lavoro stava bruciando. Hai potuto salvare solo la casa e l’orto. Faticosamente hai ricominciato tutto da capo, ma la schiena si era spezzata: l’ospedale, il gesso. Per sei lunghi mesi rimanesti imprigionato dentro un busto e alla fine non eri più quello di prima; quindi tornaste al paese.
Lo sguardo afflitto di Filomena, davanti alla porta della vostra casetta, è stato per te un pugno nello stomaco. Le mettesti un braccio attorno alle spalle e le dicesti:
-Andiamo pupa!- Era il tuo modo per sdrammatizzare e alleggerire le situazioni.
Quella porta si chiuse per sempre.
Primo piano su tuo figlio…
Eri abbastanza intelligente per capire che, appena possibile, Mario e anche noi altri figli saremmo andati via. Cercasti di darci ciò che non avevi avuto tu: una vita migliore. Avevi voluto che studiassimo, che aprissimo le menti a nuove prospettive.
Eri preoccupato per Mario.
Il massimo della sua vita era la piazza del paese, dove si riunivano tutti i giovani disoccupati. Il responsabile dell’ufficio di collocamento passava di lì e faceva sempre la solita domanda:
– Ve lo mangiate col cucchiaio? – e un coro dava a lui la solita risposta:
– Non ne abbiamo assaggiato neanche un pochino – (si riferivano al lavoro, che non avevano e che forse non avrebbero mai avuto).
Mario fu il primo ad andare via; fece la scelta della grande città: Milano.
Lui aveva poca voglia di studiare, ma tanto spirito d’intraprendenza e intelligenza da vendere. Mi pare di sentirla la sua voce seria che ti diceva: – Papà vado via, non voglio star qui ad ammuffire. Ho trovato lavoro a Milano.
Furono duri quegli anni, per tuo figlio e per voi. Filomena non si rassegnava a quella partenza, tu eri triste perché sentivi la sua mancanza, ma in cuor tuo sapevi che Mario stava facendo la cosa giusta: cercare la sua strada. Con fatica, ma con le sue forze ce la fece alla fine. L’orologio d’oro, che tenevi nel taschino, che mostravi a tutti con orgoglio, era stato il suo primo regalo. Quando andavi a trovarlo eri fiero di lui, di ciò che aveva realizzato.
Milano: una cartolina per te…
Con il passare degli anni anch’io e mio fratello Antonio, il piccolo, andammo via; ma sapevi già anche questo e con rassegnazione ti sei abituato ai lunghi periodi di lontananza, e ai viaggi, anche se la grande città non era adatta a te, alle permanenze in quel nord che a te proprio non piaceva. Ma anche lì eri riuscito, nonostante tutto, a farti voler bene da chiunque, persino dallo scorbutico farmacista, che con te era affettuoso e ti mandava a casa dei regali. Tutti ti conoscevano: avevi una parola buona per ognuno e un dolcino per i compagni di tuo nipote che ti adoravano e quando tu e Filomena partivate, cominciavano a informarsi su quando sareste ritornati
Quando raggiungevi il limite diventavi grigio in viso come il cielo di Milano.
Dicevi che quell’aria non ti faceva bene e tua moglie finalmente decideva che potevate tornare a casa, nella tua modesta e amata casa.
Chiudi gli occhi, adesso, dormi Pasquale, dormi papà, puoi essere soddisfatto.
FILOMENA
In ginocchio, Filomena, compivi uno dei tuoi doveri di figlia: lavare i panni. Eri assorta in tanti pensieri agitati. Valutavi la proposta dell’ex fidanzato di tua sorella, morta da poco tempo: lui ti aveva chiesto di sposarlo; si era affezionato alla vostra famiglia e soprattutto a te. Avevi risposto che ne saresti stata felice, ma che avresti obbedito alla decisione dei tuoi genitori. Ti rivolgi a tua sorella, Greca, che stava poco lontana, interrompendo il silenzio:
“Sai che Pasquale mi ha chiesto di sposarlo?”
“Cosa hai risposto?”
“Che ne sarei felice! Se anche voi siete d’accordo.”
Greca annuì con un gesto del capo.
Eri più preoccupata del parere di tua sorella maggiore, Rosina, che quando aveva saputo di Pasquale si era arrabbiata:
“Sei troppo piccola per lui”.
In quel periodo abitavi da lei per volontà di tua madre, per aiutarla in casa e con i figli e tua sorella si sentiva responsabile.
I pensieri non diminuivano l’impegno che mettevi nel tuo compito: i vostri panni dovevano essere più bianchi di quelli delle altre; li bagnavi, vi passavi il sapone fatto in casa, li sfregavi bene sulla pietra ruvida e piatta e infine li sciacquavi.
Eri una ragazzina sveglia, la mosca per il naso non te la facevi passare: di corporatura minuta, una zazzera di capelli neri e così ricci da essere crespi, occhi castani vivi, eri sempre di corsa; spesso ti toglievi le scarpe per andare più veloce e guai a chi cercava di importi in qualche modo la sua volontà! Obbedivi con cieca fiducia solo ai tuoi genitori e ai fratelli, che veneravi. Avresti tanto voluto andare a scuola, ma la mamma aveva deciso che ci andassero i maschi e tua sorella Franceschina la penultima e tu avevi dovuto rassegnarti. Poter leggere rimase per te un sogno come per tanti altri. Nel dopoguerra la scuola era riservata a pochi eletti, bisognava lavorare e a ciascuno era affidato un compito se si voleva mangiare.
Ma questa volta non avresti chinato la testa, avresti sposato quell’uomo così gentile e buono al quale volevi bene. Questo era ciò che pensavi realmente.
L’acqua era fredda e le mani si arrossavano fino a diventare bluastre, facevano male. Ma tu non ci facevi caso! In fretta, uno dopo l’altro, i panni erano lavati, pronti per essere stesi sulle spighe di grano ad asciugare al sole. Solo a quel punto ti fermavi per il meritato riposo.
Era ancora buio quando avevate lasciato casa con le ceste in testa.
Eleganti e leggere sembravate volteggiare, eppure le ceste erano pesanti. L’aria fresca del mattino vi aveva fatte quasi rabbrividire, ma a testa alta avevate proseguito il cammino.
Solitario in quel momento del giorno, il sentiero che percorrevate era costeggiato da una rigogliosa vegetazione. Spiccavano tra i rovi di more già mature, pronte per essere raccolte, cespugli di margherite gialle, i nzinzulari, ed il profumo delle zagare vi accompagnava fino al fiume.
Arrivate per prime, avevate potuto scegliere una posizione vantaggiosa per poter lavare i panni al riparo dalla sporcizia delle altre donne che sarebbero sopraggiunte tra poco.
“Siete già qui, come al solito, ma a che ora vi svegliate?” chiese una delle donne che non trovava posto per lavare ed era inviperita
“Cercati il tuo posto e lavora senza parlare, se vuoi sbrigarti” rispondeva Greca a quelle inutili domande.
Una volta asciutto, riponevate il bucato ben raccolto nelle ceste, e queste sopra la testa, e vi avviavate verso casa stanche, ma soddisfatte, con il profumo del grano e del sole addosso. Il tuo cuore da ragazza era inondato di giallo il colore del futuro che ti aspettavi con Pasquale. La vostra giornata era appena iniziata. Quello era solo il primo compito; a casa vi aspettavano le mille altre faccende che le donne dovevano sbrigare. La vostra giornata era lunga e faticosa quanto quella degli uomini.
E poi finalmente il riposo.
Non sapevi ancora che alla fine tua sorella Rosina ti avrebbe rimandata a casa tua finalmente dalla tua mamma, e lo avresti sposato, Pasquale.
Quale grande gioia, nella vita della giovane coppia, sarebbe stata la nascita del primo figlio; ma quale dolore per la sua perdita pochi mesi dopo! Una bronchite, la cura sbagliata e se ne tornò da dove era venuto, fra gli angeli… Ci sarebbero voluti anni per riprendersi da quella sventura…
Sognavi, Filomena, il tuo Pasquale.
..Poi ci sarebbe stata un’altra attesa, una gravidanza normale: il bambino sarebbe cresciuto bene, forse fin troppo bene. Eri così minuscola che al parto quasi ti avevano sventrata con il forcipe , tanto che avresti poi dovuto andare a Roma a farti fare una ricostruzione. Ci vollero mesi, ma Pasquale non ti lasciò mai sola; ti diede il suo sangue quando ne avesti bisogno, ti rassicurò costantemente e infine tornaste a casa, con la certezza che non ci sarebbero stati altri bambini.
Ecco come nacque l’amore smisurato per Mario, unico figlio. Lo avresti accudito con affetto, i suoi pochi abitini sarebbero stati sempre lindi, sarebbe sembrato un principino, diverso dagli altri bambini con cui era solito giocare. Educato, bello, occhi azzurri, pelle bianca, biondo …
Ti rigiravi nel letto, Filomena, sospirando.
… Quando nacqui io, sette anni dopo, inaspettato miracolo, tu asseristi:
– “Che brutta, ma è nera, questa non è mia figlia, l’hanno scambiata!”, ma quel giorno ero stata l’unica nata e quindi ti rassegnasti. Eravate tornati alla clinica di Roma era lì che dovevo nascere, ci rimaneste per due mesi, perché io mi feci attendere più del dovuto e dovettero intervenire con un altro parto cesareo.
Mio padre ti fu molto vicino; arrivava col suo passo felpato e ti faceva trasalire Filomena, te lo ritrovavi dietro le spalle e immancabilmente esclamavi: – Mi hai spaventata! – e lui con un sorriso ti abbracciava. Pasquale stava ore dietro ai vetri della camera dove era custodita la sua bambina e cercava di farsi notare dalle infermiere che accudivano i bambini del reparto neonatale, sperando che impietosite lo facessero entrare prima . Finalmente arrivava il momento in cui poteva prenderla in braccio, con quanta tenerezza la stringeva e le sussurrava parole tenere:
– Quanto sei bella piccola, vedrai che presto torneremo a casa e conoscerai il tuo fratellino!- Amava la sua donna e quella bambina piccola che, con il suo pianto disperato, gli faceva tanta tenerezza.
Non riuscivi proprio a dormire bene, Filomena.
…Finalmente, a casa ricominciò la vita di sempre e dopo sei anni un altro miracolo: aspettavi un altro bambino! Eri contenta, ma ti vergognavi un po’: eri troppo avanti negli anni secondo la mentalità di quel periodo.
Antonio venne al mondo nell’ospedale di Crotone. Per farlo nascere ti fecero ancora un taglio cesareo. Nacque violaceo, non riusciva a respirare, gli diedero l’ossigeno, che però sembrava non funzionare, il piccolo respirava a fatica. La zia Rosina intuì quello che non andava: dalla bomboletta non usciva nulla! Cominciò a urlare, fece accorrere tutti e medici e infermieri che riuscirono a salvarlo.
“Filomena svegliati, è ora di alzarsi!”
La senti come se provenisse da un altro mondo quella voce, la voce di tua mamma.
“Chissà, se il sogno ti avesse svelato il futuro, lo avresti voluto ancora il tuo Pasquale?”.