Mi chiamo Faven, “luce”. Sono venuta al mondo a Keren, in Eritrea, due anni prima dello scoppio della guerra di indipendenza, nella quale mio padre Kasai ha perso la vita.
Ho pochi ricordi di lui, nei sogni mi appare più come un compagno di giochi che come un vero padre. Mi rimane il suo sorriso e le poche tracce che riconosco sul mio volto. Un’immagine ingiallita lo ritrae con mia madre nel giorno delle nozze: due ragazzini felici, ignari di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Io ero già con loro, ma ho vissuto davvero quei momenti attraverso i racconti di Sofia, la mia mamma bambina.
A Kasai ed a Sofia – lui primogenito di una numerosa famiglia di Asmara, lei figlia di un colonnello dell’esercito italiano – era bastato un solo sguardo per decidere che avrebbero vissuto la loro vita insieme. Né si sarebbero fatti intimorire dai genitori di lei che minacciavano di diseredarla. E reagendo con fermezza, avevano troncato ogni legame per coronare il proprio sogno in un villaggio nel distretto di Keren. Un sogno che purtroppo sarebbe durato poco.
La notizia della scomparsa di mio padre arrivò improvvisa, facendo piombare mia madre dapprima in uno stato di torpore, poi in una profonda depressione. Ma grazie alla sua forza interiore ritrovò presto il suo equilibrio e, in me, la sua ragione di vita. L’idea di riconciliarsi con la sua famiglia non l’aveva neanche sfiorata e per proteggermi dagli orrori di una guerra che diventava ogni giorno più cruenta, aveva quindi deciso di rifugiarsi in Italia.
A meno di trent’anni in due, iniziavamo una nuova vita a Torino, una città sconosciuta per entrambe, dove Sofia avrebbe trovato un impiego come insegnante elementare. Vivevamo in simbiosi, lei era tutto il mio mondo e, malgrado la solitudine, sono stati anni sereni.
Con l’inizio della scuola sono però arrivati anche i problemi. Per la prima volta avvertivo un senso di disagio. Il colore della pelle, i miei tratti somatici, i capelli crespi tradivano la mia diversità, e l’assenza di mio padre si faceva ogni giorno più dolorosa, lasciandomi ai margini di un mondo dal quale mi sentivo esclusa. Gli episodi di intolleranza erano però meno frequenti di oggi, sono riuscita ad integrarmi e, malgrado le premesse avessero fatto presagire il contrario, la mia vita si è rivelata più prodiga di quella di mia madre.
Ero felice, eppure un sordo dolore per il destino della mia terra di origine e il sommesso desiderio di ritrovare le mie radici continuavano ad assillarmi. Alla soglia dei cinquant’anni ho deciso quindi di unirmi ad un gruppo di persone impegnate in un progetto per costruire scuole e pozzi nella zona rurale dell’Eritrea. E finalmente ho potuto vedere il mio paese con i miei occhi… un’esperienza unica e toccante, solchi indelebili sulla pelle e nel cuore… emozioni che porto incise in tutte le cellule del corpo e della mente, che si rinnovano al solo pensiero di quei luoghi persi nel nulla, di quelle immense distese arse dal sole, di quei campi in cui si vedevano solo donne, bambini e minuscoli asinelli. La maggior parte degli uomini, partita per una guerra fratricida, non ne era più tornata e si viveva nel terrore che qualche ordigno inesploso potesse ancora mietere vittime tra quei germogli a stento cresciuti nella polvere.
Ero incantata dal discreto fascino degli eritrei: dai loro occhi scuri e profondi, dal loro sorriso timido e disarmante, da quel misto di riservatezza e cordialità con cui riuscivano a penetrarti l’anima, dall’eleganza innata che – pur nei loro abiti consunti – li rendeva regali, dalla dignità con cui lottavano per risollevarsi da una guerra che li aveva annichiliti. E scorgere bimbi dagli sguardi adulti e le mani callose correre tra le macerie riusciva a commuovermi fino alle lacrime… come, quando nei pressi della scuola di Emni-Tselim siamo stati circondati da una miriade di bambini spuntati dal nulla pronti ad avvolgerci nel loro abbraccio, felici che qualcuno avesse a cuore la loro crescita e il futuro del loro paese massacrato.
Ragazzi che non possedevano altro che un maglione liso ed un quaderno su cui scrivere, ma che intuivano di essere gli unici a poter creare le premesse per la rinascita e che solo la scuola avrebbe potuto aiutarli in questa impegnativa missione. Ragazzi che, finite le lezioni, indossavano nuovi indumenti sdruciti per iniziare il turno di lavoro… senza un lamento.
La guerra era finita solo da qualche anno e la vita era ancora molto dura. Le perdite erano state numerose e le fonti di sostentamento scarseggiavano. Ognuno aveva un ruolo fondamentale per la sopravvivenza dell’intera comunità: ai ragazzi spettava la raccolta dell’acqua e la cura del bestiame; le bambine aiutavano i fratelli e si dedicavano alla crescita dei più piccoli; a coltivare i campi erano soprattutto donne, nel tipico zurià bianco, con un velo sulla testa. Splendida, una di loro spiccava in mezzo a un nutrito gruppo di compaesani vicino a un pozzo, mentre con una grazia estrema distribuiva l’acqua riempiendo con una pompa grosse taniche gialle. Era in attesa di un bimbo, ne portava un altro sulle spalle avvolto in un kanga e, malgrado le sue condizioni, svolgeva il suo lavoro gravoso con il sorriso sulle labbra… senza un lamento.
Solo proseguendo il viaggio avrei compreso che i luoghi già visti, che pure apparivano aspri, erano in realtà privilegiati rispetto ad altri ben più remoti e inospitali. Scorgere bambini che raccoglievano l’acqua sui bordi di pozzi senza alcuna protezione lasciava basiti. Dietro ogni angolo un nuovo pericolo, che solo qualche giorno prima mi avrebbe causato un’ansia inquietante, rendeva sempre più indissolubile il legame che si andava creando tra me stessa e il mio paese di origine.
Avremmo visitato altre scuole costruite con il nostro sostegno in luoghi difficilmente accessibili: Guaquat, un mondo surreale dall’atmosfera rarefatta, un piccolo borgo arroccato su un’altura rocciosa, raggiungibile solo attraverso una strada accidentata che sale come una spirale verso la cima, dove svetta una chiesa visibile da ogni angolazione… Poche case di fango, disabitate in apparenza, poi una moltitudine di donne vestite di bianco apparse d’incanto da dietro una roccia ci danno il benvenuto intonando un sublime canto di ringraziamento e porgendoci rami d’alloro e granturco tostato… un rituale magico, il cui pensiero mi fa ancora sentire i brividi sulla pelle, ci accompagna per tutta la permanenza in quel paesaggio onirico.
Sono stregata dalla straordinaria bellezza degli abitanti di Guaquat, dal loro portamento, dall’intensità dei loro sguardi, da quella strana luce che vi si scorge… destinata purtroppo a spegnersi per una rara malattia endemica.
Il direttore della scuola ci invita a casa sua, una dimora umile ma accogliente, con un piccolo patio adornato di foglie. Seduti su cuscini multicolori, condividiamo lo zighinì – tutti da un unico piatto – mentre conversiamo amabilmente in un misto di idiomi.
I miei compagni di viaggio sono visibilmente disorientati da usanze locali che a me, forse per via del DNA, risultano del tutto naturali. Ma il bello deve ancora venire; è con la cerimonia del caffè che si raggiunge l’apice dell’imbarazzo…
Gabriela – che per la somiglianza potrebbe essermi figlia – procede da ore nella laboriosa preparazione mentre in inglese mi racconta qualcosa della sua terra.
Finalmente il caffè è pronto. Introduce quindi un ciuffo di peli ispidi – crine di cavallo, come avrei poi scoperto – nel becco della jebena e versa un po’ della fumante bevanda in una prima tazza, offrendomela con gentilezza. Come rifiutare? Accetto di buon grado e, per onorare le tradizioni, tra le facce disgustate di chi mi sta intorno, ne bevo altre due tazze…
Al momento dei saluti, Gabriela mi chiede l’indirizzo e il numero di telefono. Mi chiedo se avrà mai modo di utilizzarli, visto che non esistono telefoni né uffici postali. Poi ci scambiamo un ultimo sguardo ed un abbraccio. È ormai notte, la strada è deserta, c’è solo una manciata di stelle a farci compagnia e la solita chiesa a proteggerci dall’alto. All’andata mi sono chiesta come si possa resistere in un luogo così remoto, al ritorno ne sento già la mancanza.
Il viaggio sta per terminare; mi aspetta solo l’ultima tappa. È ancora notte quando partiamo alla volta di Keren, un crogiolo di razze e religioni che vivono in piena armonia tra una piccola moschea ed una cappella ricavata nel tronco di un baobab. Proseguiamo in mezzo alla savana, mentre il paesaggio africano si mostra a noi in tutta la sua bellezza, alternando una natura aspra e selvaggia a scene di vita rurale consumate nel letto dell’Anseba, dove la vegetazione diventa più rigogliosa e di un verde intenso.
Finalmente giungiamo a Wasentet, un luogo incantato che mi fa dimenticare all’istante la via accidentata percorsa per raggiungerlo: un villaggio di poche case di pietra che ricordano i trulli, protetto da un anfiteatro di montagne che ne celano l’esistenza. Un autentico angolo di paradiso.
C’è un silenzio irreale, è sabato ed il villaggio è quasi deserto. La nuova scuola dai colori pastello ha da poco sostituito un meraviglioso faggio dalle ampie fronde, che ha offerto riparo, durante le lezioni, a bambini ed insegnanti di intere generazioni.
E lì, all’ombra di quell’albero, capisco di essere arrivata a casa.