La marchesa Dell’Isola del Gallo impiegò quarantotto ore di dolorosissimo travaglio per dare alla luce il suo secondogenito, un fantolino bianco e rugoso, dagli occhi color dell’acqua.
Due giorni d’indicibili sofferenze che l’estenuarono nel corpo e la prostrarono nello spirito, prima di riuscire ad espellere quell’esserino glabro, privo di colore e d’inclinazione alla vita, che emise solo un vagito, breve e secco, dopo che la levatrice riuscì ad estirparlo dall’utero al quale si era ferocemente abbarbicato come un’erba di montagna che, se viene sradicata, trascina con sé anche il pietrisco nella cui fessura dimora.
La marchesa, che in quel lungo ed estenuante travaglio aveva rischiato di perdere la vita e la ragione, del suo erede maschio non volle più saperne.
Lo bandì inderogabilmente dalla sua camera.
E dalla sua memoria.
Invano il marchese cercò di farle accettare quell’esserino diafano e silenzioso, che mai piangeva e se ne stava rintanato nel suo angolo di culla, con gli occhi aperti e i pugni serrati.
Ogni volta che si arrischiava a sorpassare la soglia della sua camera con il neonato in braccio lei iniziava a blaterare frasi sconnesse e maledizioni, e lanciargli contro ogni sorta di oggetto.
Stessa sorte, poi, riservò a lui, vietandogli per il resto dei suoi giorni l’accesso al talamo nuziale, terrorizzata dalla eventualità di dover rivivere, con una nuova gravidanza, il martirio privato delle doglie.
Al neonato venne imposto il nome di Maurilio Cesare, marchesino Dell’Isola del Gallo.
Lo svezzamento si rivelò lungo e difficile perché il bambino, anche dopo l’avvenuta dentizione, si ostinava a nutrirsi solo ed esclusivamente del latte che succhiava, con instancabile voracità, dal seno della nutrice.
Alle sue esigenze alimentari provvedevano più balie, che si alternavano nell’allattamento.
Il piccolo si aggrappava alle mammelle e cominciava il suo famelico pasto silenzioso, che le sfiniva, prosciugandole.
E quando spuntarono i primi denti iniziò a mordere i capezzoli, succhiando con le vitamine del latte anche quelle del sangue.
Le mercenarie dell’allattamento malvolentieri si attaccavano al petto quella piccola sanguisuga, ma sopportavano in silenzio la sua bocca da squalo, facendo attenzione a non lamentarsene perché il marchese pagava bene.
Mai nessuna di loro, però, elargì all’infante il gesto spontaneo di una carezza.
In età scolastica, quando Maurilio Cesare venne affidato alle cure della governante che già accudiva la sorella primogenita, Isabella, era un bambino stentato e taciturno, con le stimmate future dell’emarginato.
Isabella, maggiore di quattro anni, aveva occhi e capelli color del miele, un firmamento di efelidi sparse su una carnagione d’albicocca, ossa larghe e solide, ed un promettente carattere da futura marchesa.
Maurilio Cesare conservava le sembianze immature di uno sparuto elfo albino, dalla pelle trasparente e lo scheletro minuto. E straordinari occhi del colore dell’acqua.
Arcangela, così si chiamava la governante, era un donnone emancipato, con le mani di falegname e l’anima di colomba.
Quando le venne affidata quella creatura trasparente e silenziosa, dallo sguardo ermetico, la sua intelligenza intuitiva penetrò in quella solitudine esistenziale predisponendola all’empatia, ben decisa ad ignorare l’aura scura che dalla nascita lo accompagnava, mentre il suo cuore sensibile si preparava a rimediare ad una mostruosa ingiustizia affettiva.
Riconobbe nello sguardo enigmatico di Maurilio Cesare i sintomi dell’anemia e della solitudine.
Il marchesino soffriva di carenza di proteine e di vitamine, dal momento che si nutriva esclusivamente di latte, rifiutando ogni altro alimento.
Ed era affetto da una cronica mancanza d’amore.
Nulla a cui non si potesse, seppur tardivamente, rimediare.
Partendo da questa certezza, Arcangela, cercò di spronare i due fratelli ad approfondire la loro reciprocità da cui, poi, sarebbe scaturito il naturale affetto dei consanguinei.
E lei, con convincimento, si calò nel ruolo di madre putativa, distribuendo equamente il suo amore tra i due bambini, ma riservandone il sopravanzo per Maurilio Cesare.
Con infaticabile dedizione si applicava alla sperimentazione alimentare per inventare, per lui, manicaretti al sapore di latte con celati all’interno estratti di carne e di verdure, atti a stimolare il suo sviluppo fisico, ristabilire un colorito epidermico più sano ed alimentare una sua più ottimistica predisposizione nei confronti del mondo.
Ma, da quando Maurilio Cesare aveva fatto il suo ingresso nella cucina di Arcangela, acquistando tempra e colore, Isabella aveva smarrito, invece, la sua indole indomita, il suo delizioso cipiglio di futura marchesa, mostrandosi languida e timorosa, perennemente attaccata alle gonne della governante, e sempre bisognosa della sua mano.
Questo comportamento anomalo non aveva troppo preoccupato Arcangela, imputandolo all’egoismo naturale insito nella bambina abituata da sempre ad avere tutto per sé.
Era sicura che quella sua improvvisa timidezza null’altro fosse che un espediente egocentrico per attirare la sua attenzione, riprendersi la scena e ritornare unica protagonista.
Era soddisfatta, invece, di quelle sue zuppe proteiche, al sapore di latte e di amore, che avevano colorito di tenue rosa l’incarnato del suo protetto, e reso più nitido il colore di fondale marino dei suoi occhi.
Di notte lo faceva dormire nel suo letto, avvolgendolo nel calore protettivo del suo grande corpo, per rimuovere il ricordo del freddo della nascita.
E del ripudio materno.
Non era riuscita però a scalfire la sua ostinazione al silenzio.
Ma a questo, Arcangela, era sicura di poter pervenire col tempo, con la pazienza e con l’amore.
Anche il marchese si era congratulato con lei per i sorprendenti risultati ottenuti.
Posso far di meglio, pensava Arcangela, concentrandosi sul miglioramento vitaminico delle sue zuppe al latte e mostrando, deliberatamente, di non avvedersi dei silenzi ostili d’Isabella.
Che non si attaccava più alle sue gonne, umiliata di sentirsi alla stessa stregua del pesante mazzo di chiavi che la governante portava appeso alla cintura, mentre di fretta, e di buon mattino, percorreva il mercato alla ricerca delle primizie con cui confezionare quei disgustosi intrugli al sapore di latte, e che per corroborare le teorie di Arcangela basate sull’empatia, era costretta a condividere con quel fratello che lei sentiva estraneo ed indecifrabile, e per il quale non riusciva a provare nessun affetto.
Da quando lui era arrivato tutto intorno a lei sapeva di latte.
L’odore sovrano di Maurilio Cesare aveva contaminato ogni cosa.
Non era ancora giorno quando Isabella, spettinata e a piedi nudi, entrò nella cucina silenziosa, frugò brevemente alla ricerca dell’affilato coltellino col quale Arcangela sbucciava le sue primizie, e si acquattò, aspettando l’arrivo del fratello, nell’angolo più recondito, battendo i denti per il freddo ma ben decisa a porre termine a quella che le era sembrata, fin dall’inizio, una storia assurda.
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