C’era una volta un posto. Era un posto di campagna con tanti alberi. Ce ne erano di tutti i tipi: pini svettanti che regalavano centinaia di piccoli, gustosi pinoli e che sui rami ospitavano buffi picchi o nidi di cinciallegre; alti e severi cipressi che sembravano bucare il cielo; contorti ulivi dalle foglie argentee e appuntite; gelsi colorati e profumati che attiravano golosi insetti; fichi robusti dalle larghe, ruvide foglie e dai dolcissimi frutti. C’era anche un abete. Era un abete giovane, ma robusto, dai rami pieni e dalla forma perfetta. Chiunque lo guardava lo immaginava tutto addobbato per Natale, con tante palline colorate, luci intermittenti e sotto mille doni che avrebbero fatto sgranare gli occhi e provocato gioiose risate nei bambini. Invece era lì, un po’ solo nel suo splendido abito verde scuro. Molto elegante, per la verità, ma molto solo. Era un abete romantico, un abete femmina che sognava cose strane per un albero. La vita lo aveva costretto a indurire le sue foglie per difendersi dal freddo e dai dolori. A volte fantasticava di andarsene, di girare un po’ per il mondo. Quel posto gli stava un po’ stretto. In fondo non era nemmeno il suo clima: era una zona arida, niente pioggia, niente neve, niente gnomi graziosi che costruissero la loro casa tra le sue radici. Ma un albero non può tirare fuori le radici e andare a spasso! Così l’abete si limitava a sognare. E sognava, e si guardava intorno.
Era già da un po’ che il suo sguardo si fermava su una quercia. Era una quercia grande e forte che dominava la piccola valle e si stagliava possente contro il cielo, al di sopra degli altri alberi. Una quercia maschio. Ne aveva viste di tutti i colori nella sua lunga vita: aveva tenuto testa al vento che cercava di piegarla, alle tempeste, ai fulmini che cercavano di colpirla, all’invadenza di ogni sorta di animali, grandi e piccoli. Stava lì, fiera e indomita. Splendida nello sfolgorio dei suoi folti e forti rami. Era l’albero più bello di quel posto. E forse lo sapeva, ma non si dava arie. Se ne stava per i fatti suoi, girando lo sguardo ogni tanto, come per controllare che tutto andasse bene. Era un capo e ne aveva tutto il fascino potente e rassicurante. Era inevitabile che il tenero abete se ne innamorasse. Ma cosa poteva fare? E’ brutto non potersi muovere. E sognare dopo un po’ non basta più a riempire la vita. Oltretutto l’abete aveva notato che la quercia gli lanciava qualche occhiata. Erano occhiate un po’ diverse dalle altre, da quelle che lanciava tutto intorno. O almeno così sembrava all’abete.
Il suo tenero, verde cuore cominciò a battere in modo diverso, spuntarono sui suoi rami verdi delicati nuovi aghi che resero la sua chioma ancora più bella. E la quercia lo notò, ma non voleva darlo a vedere perché era consapevole della propria impotenza.
Che fare? Passa un giorno, passa l’altro, il grande albero sentiva che anche per lui qualcosa stava cambiando. Tentò disperatamente di allungare un ramo. Non gli importava di rovinare il suo aspetto perfetto e possente. Sentiva il desiderio irresistibile di accarezzare quei teneri aghi verde chiaro, di aspirare il profumo così particolare dell’abete. Era amore. Un amore impossibile e incredibile. Si era sentito raccontare qualcosa sugli alberi innamorati, lo raccontava il vento nelle lunghe notti d’inverno. Ma i suoi racconti narravano storie di piante simili: due olmi, due tigli, nessuno aveva mai sentito di una storia d’amore tra due alberi di specie diverse. Era proprio un amore impossibile. Eppure c’era una forza sottile, ma irresistibile che portava l’abete e la quercia a cercarsi, a guardarsi, a pensarsi, a sognarsi. Non funzionò neanche il tentativo di allungare le radici.
Il tempo passava. All’estate ardente successe un autunno tiepido e piovoso e un rigido inverno. Gli aghi dell’abete tornarono duri e scuri; la quercia, pur sempre possente, aveva un aspetto un po’ dimesso. Eppure continuarono ad amarsi. In fondo non era l’aspetto che contava. Loro “sentivano” qualcosa di diverso che li legava, che li accomunava, che li univa. Forse non riuscivano neanche a spiegarselo, sapevano che era così e basta.
Tornò la primavera, tornarono i fiori a sbocciare, gli uccelli a cantare, gli insetti a ronzare. Gli alberi sembrarono risvegliarsi dal sonno invernale e indossarono i loro abiti migliori. L’abete si ricoprì di tenere gemme verde chiaro come l’anno prima e la quercia tirò a lucido la sua splendida chioma. E i loro cuori continuarono a palpitare e a struggersi.
Una bella mattina di aprile, con il cielo terso e un tiepido sole, su un ramo dell’abete comparve un nuovo inquilino. Era un ragno, un grosso ragno dall’aria seria e laboriosa. Era Tullio, il ragno notturno. Aveva strane abitudini: di giorno si riposava e la sera, al calar del sole, puntuale come un orologio svizzero, usciva a tessere la sua tela. Era un campione, molto rispettato nella famiglia dei ragni. Aveva fatto dei lavori notevoli che già assumevano contorni leggendari, soprattutto per i ragni molto giovani che restavano incantati a guardare le sue opere o a sentirne le descrizioni. All’alba le tele di Tullio sembravano preziosi merletti ornati da diamanti luccicanti.
Quell’anno aveva scelto il giovane abete. Era stata una scelta d’istinto, voleva un albero un po’ diverso dal solito. Ma appena arrivato Tullio capì che c’era qualcosa di strano. Seppure tentasse di non farsi sentire, il giovane abete piangeva e sospirava sommessamente. All’inizio il ragno fece finta di niente, ma col passare dei giorni iniziò a preoccuparsi. Così si fece coraggio e un giorno si azzardò a chiedere cosa mai avesse da piangere un abete così bello. L’albero, frenando i singhiozzi, gli raccontò tutta la storia, la storia del suo impossibile amore per la grande quercia. Tullio ascoltò attentamente, poi, dopo un attimo di riflessione, disse: – Ma io posso fare qualcosa! – e, contravvenendo per una volta alle sue abitudini, iniziò a lavorare di prima mattina. Certo, era un’impresa di dimensioni enormi per un ragno come lui. Vero era che aveva compiuto gesta esaltanti, percorso distanze inusitate per un ragno, ma questa volta era proprio un azzardo. Però ormai aveva dato la sua parola e doveva farcela. Ce la mise tutta, lavorò giorno e notte. Ci furono momenti di paura, di vero e proprio panico, come quella volta che un colpo di vento malandrino quasi lo mandò a gambe all’aria, oppure quando un insetto si impigliò nel filo rischiando di spezzarlo. La maggiore difficoltà era raggiungere la quercia, poi il più era fatto, bastava fare avanti e indietro per un po’ e rinforzare la tela. Col fiato sospeso l’abete e la quercia seguivano le peripezie del generoso ragno ed ogni centimetro guadagnato sembrava già un traguardo. Passarono i giorni e il povero Tullio era quasi stremato, ma proprio quando pensava che non ce l’avrebbe mai fatta, sentì sotto le zampe la rassicurante foglia di quercia. Si sentì come un naufrago che avesse trovato un relitto a cui aggrapparsi. Era sfinito, ma felice. Sentiva di aver fatto qualcosa di grande, ma non solo per sé stesso, soprattutto per i due alberi che si sentivano finalmente uniti. Quale felicità per le due piante! Il loro sogno era ormai una realtà e tutto grazie ad un minuscolo animaletto coraggioso e intrepido.
Tullio si prese un po’ di meritato riposo tra la frescura dei rami della quercia, cullato dalla brezza di primavera. Poi riprese il suo cammino, avanti e indietro per quella sottile strada che lui stesso aveva costruito. La rinforzò, la rese praticamente inattaccabile. Era forte come una gomena, salda come un cavo d’acciaio ed era una strada d’amore. Su quel magico, argenteo filo l’abete e la quercia poterono scambiarsi finalmente sentimenti, sensazioni, emozioni, fremiti e polline. Nessuno avrebbe mai potuto credere a ciò che sarebbe avvenuto. Eppure era una realtà e l’incredibile doveva ancora accadere.
Trascorsero diverse stagioni. Ad ogni primavera Tullio tornava e rimetteva in sesto la lucente corda d’amore tra i due alberi, provata dalle intemperie, ma sempre salda. Dopo diverse primavere, un chiaro mattino di maggio, perfettamente a metà strada tra l’abete e la quercia, si vide spuntare una novità curiosa. Era poco più di un germoglio, una tenera, neonata pianticina mai vista prima. Gli alberi del posto la osservarono stupiti. Non avevano mai visto nulla di simile, neanche gli alberi più vecchi. Il primo a rendersi conto di cosa fosse, e non a caso, fu l’abete. Guardando quel tenero virgulto sentì il suo cuore battere più forte: era suo figlio, figlio suo e della quercia. Un figlio curioso, unico, incredibile, ma inequivocabilmente loro figlio. Sui suoi rametti appena formati spuntavano, perfettamente alternati, un ago di abete e una fogliolina di quercia. Anche la grande quercia si rese conto di quello strano miracolo della natura e sorrise orgogliosa e compiaciuta. Era una sensazione piuttosto strana sapere di aver generato un qualcosa di unico e, probabilmente, irripetibile. I due alberi erano molto orgogliosi e felici e inteneriti davanti a quel loro neonato così particolare. Ma il più eccitato era Tullio che, per una volta, aveva smesso il suo piglio serio e si era abbandonato a vistose manifestazioni di gioia, saltellando sui rami dell’abete e della quercia e compiendo equilibrismi da funambolo su quel filo d’argento.
Il piccolo Quab, come lo chiamarono subito i genitori, crebbe. Era molto originale, aveva un’aria birichina e simpatica e cambiò la vita di quel posto. Ben presto si sparse la voce che lì c’era un fenomeno botanico, una specie unica nel suo genere e la gente corse a vedere, studiare, fotografare, documentarsi. In poco tempo il posto diventò famoso e protetto. Ora non ci poteva andare chiunque, le piante ricevevano molte più cure e, soprattutto, il piccolo Quab era trattato come un principe. Ma più che del prestigio e della notorietà era felice perché si sentiva molto amato, perché sapeva che i suoi genitori, così diversi eppure simili nel cuore, lo avevano desiderato e cercato come mai nessuno al mondo. Era il frutto di un amore impossibile apparentemente, ma era anche la prova che per l’amore niente è impossibile.
E Tullio il ragno? Ora vive felice e contento tra i rami di Quab, molto orgoglioso e fiero di essere il ragno più famoso della zona. E forse anche un po’ di più, visto che le sue gesta si sono sentite raccontare molto più a nord.