“Io solo ho visto le sue vere fattezze e ne ho fatto un ritratto dove lei splende nella luminosità dell’incarnato, nella lucentezza dei capelli, nella sua originale, vergine fisionomia.
Con la pazienza di un restauratore ho ridato splendore alla meravigliosa opera nascosta sotto l’insignificante crosta dove finalmente lei, liberata dagli orpelli, rifulge di vera bellezza.”
Quel ritratto lo ha guardato a lungo con la curiosità avida di una bambina. E’ andata a posizionarsi nuda davanti allo specchio, confrontando la sua immagine con quella del mio dipinto, ma poi delusa ha detto: questa non sono io.
– Non sono io. – Ripete ostinata, scuotendo la testa.
– Sei tu, solo che non riesci a vederti. – Le porgo uno scialle che trema di freddo, perché questa soffitta è così calda d’estate quanto gelida d’inverno, ma la luce è divina. Una luce che non inganna.
– Sei tu. E sei bellissima. – Le sussurro abbracciandola.
– Sei pazzo. Non c’è altra spiegazione – Afferma respingendomi ridendo.
– I pazzi vedono in profondità. Se lo fossi sarebbe solo un’ulteriore conferma alla mia verità. –
Le confido con dolcezza. Non voglio spaventarla, ma che lei si veda così come la vedo io.
– Se lo dici tu. Ma chi è pazzo mai ammetterebbe di esserlo. – Nel suo tono canzonatorio percepisco, però, il disagio. L’incertezza sta facendosi strada in lei. Si avvolge nello scialle mentre esplora con gli occhi la stanza: una parete interamente dipinta con colonne, riquadri ed architravi di una sofisticata scenografia trompe l’oeil, Il muro opposto, invece, è nascosto da un rigido tendaggio spioventi dalla parte più alta del soffitto. Il letto è senza coltri e l’unica finestra, sospesa verso il cielo, riverbera della luce ocra e rossa del tramonto. Dopo quello scambio di battute sulla pazzia lei mostra un certo disagio. Si siede sulla sponda del letto ispezionando, per la prima volta da quando è entrata, la stanza nella sua interezza. Resa inquieta da quei discorsi strani inizia pentirsi di essersi fidata dell’affascinante artista. Ma nel bistrot, dove s’erano dati appuntamento dopo che lei aveva risposto al suo’annuncio on line dove richiedeva una modella con i suoi requisiti, e con la garanzia di un compenso doppio per un’unica seduta, (era in bolletta e almeno un paio di mesi di affitto arretrato) lui sembrava essere di casa. Estroverso e cordiale, palesava confidenza sia col personale che con gli avventori, e poi il suo studio era limitrofo a quella stessa via. Così s’era d’istinto fidata, sedotta dalla sua galanteria quando lui aveva comprato dal venditore di rose tutti i mazzetti per offrirli a lei.
– Dov’è la porta? Non la vedo. – Mi chiede incerta dopo aver perlustrato con gli occhi la stanza in lungo e in largo. Le sorrido ignorando la domanda.
– La luce a quest’ora è perfetta per le tinte drammatiche. – A questa mia affermazione il suo smarrimento si fa palese.
– Possiamo continuare domani? Si è fatto tardi e a casa mi aspettano. – Una richiesta che ha il tono di una preghiera.
– Abbiamo contrattato una sola seduta. – Controbatto, certo dell’inoppugnabilità del mio rifiuto
– Ma non ti chiederò un compenso aggiuntivo. Qui dentro si gela e sta facendo buio. Inoltre abito piuttosto lontano. – Mi guarda tentando di sedurmi con un sorriso. Il sorriso è il suo punto di forza.
– Mi spiace ma dobbiamo finire ora che c’è questa meravigliosa luce. Lo sai che la luce, a differenza del buio, non ha mai lo stesso colore? Mai! Ogni sua particella contiene infinite sfumature di cui non ci si accorge. Di cui non si prende nota. Un errore madornale del quale ci si rende conto quando poi capita poi di cercare con gli occhi quello che si è cancellato dallo sguardo. E, per quanti sforzi si facciano, non si riesce più ad individuarlo, pure avendolo sotto gli occhi risulta invisibile. Siamo vittime della cieca distrazione. Della blasfema superficialità. – Concludo guardandola da dietro il cavalletto. Di questo mio discorso lei non ha ascoltato una parola, lo deduco dal suo sguardo vacuo.
Chi è cieco è anche sordo. Mai, però, muto. La voce è l’ultima risorsa per mediare, per convincere.
E in fine per supplicare.
– Per favore, posso rivestirmi? Ho freddo. – M’implora timida, stringendosi nello scialle.
– Ancora qualche minuto, ho quasi finito. – In realtà il ritratto l’ho già terminato e sto solo cincischiando sulla tela godendomi il suo mal dissimulato smarrimento. Sta lottando per non cedere al pianto, per trattenere quella lacrima fuggitiva che riflette le sfumature rosse ed ocra del tramonto.
– Ferma così! – Le intimo, sedotto dal riverbero fiammeggiante di quella lacrima. Il particolare inedito che farà di questo ritratto il mio capolavoro.
– Non muoverti, per dio! – Il mio ordine la inchioda al suo posto, ma inutilmente, che dopo quella prima lacrima ne scorrono altre. Un rivolo incandescente che le incendia il volto cancellandone i tratti, come in una fotografia arsa dalle fiamme.
– Hai rovinato tutto! – Ho perso il controllo e rotto gli argini. Aspramente inveisco contro la donna seduta sul letto e quella dipinta sulla tela, che deturpo con violente pennellate di rosso ed di ocra.
A questa mia reazione feroce, ed inaspettata, accecata dalla paura si precipita a cercare una via di fuga. Davanti a questa ingenuità scoppio a ridere. E’ sempre interessante, però, osservare i processi mentali, azioni e reazioni, in una situazione di terrore. La paura può generare situazioni perfino esilaranti. A mio avviso le meno scontate e le più drammatiche.
Eccola infatti prendere in considerazione, come alternativa via di fuga, la finestra, in realtà quasi un lucernario posto così in alto da risultare irraggiungibile senza un supporto adeguato. Dovrebbe avere le ali o una scala adeguata o il tempo per costruirne una. Supposto che sia nelle sue capacità e supposto che io gliene dia il modo.
Scarta quell’idea per l’ipotesi più fattibile di una porta, un pertugio, fosse anche una gattaiola, nascosta dietro il tendaggio spiovente dal soffitto. Ricerca infruttuosa, e a quanto pare sconvolgente. Ha le mani sulla bocca per silenziare l’urlo che forse potrebbe scatenare la mia ira.
Confesso che sono rimasto ammirato da questo suo, gesto di autocontrollo. Mi ha commosso.
Per questo le darò una chance. O almeno l’illusione.
– Se trovi la porta ti lascio andare. – Le propongo serio.
Lei mi guarda stupita, come se non capisse.
Reitero l’offerta sillabando le parole: se trovi l’uscita ti lascio andare.
Sento il dovere morale di compensare quel suo gesto, ingenuo ma commovente, offrendole una via d’uscita.
– Hai cinque minuti di tempo per trovare l’uscita. – Le porgo un orologino da polso sincronizzato col mio.
– Cinque minuti: né un secondo più né uno meno. E’ un tempo equo per esplorare una parete di queste dimensioni –
Mi premuro di farle notare che entrambi gli orologi sono perfettamente accordati sulla stessa ora.
Giusto che sappia, per una questione di fiducia, che sono uno corretto.
Con garbo le indico la parete da perlustrare. –
Ma lei, invece, piagnucola. Frasi sconnesse.
– Ti sto già aiutando stupida, ma se continui a frignare ti penalizzo coi minuti. Al mio via. Ok? –
Trova il coraggio per chiedere cosa le accadrà se non trova l’uscita.
– Non è mai buona regola, quando ci si appresta ad un’impresa, soffermarsi sul dopo. Ci si concentra solo sulle possibilità dell’immediato, o altrimenti si è già perso. –
Una frase ad effetto, questa, che sempre raggiunge lo scopo. Anche stavolta.
Ubbidiente si è pone davanti alla parete perlustrandola con gli occhi. Dalle mie parti questo si chiama barare, ma generosamente le lascio questo piccolo vantaggio, che non so quanto nitidamente riesca a vedere con gli occhi appannati dalle lacrime.
– Al mio via. Ok? –
Ripeto paziente, accendendomi un sigaretta. Lei tira su col naso e fa un cenno d’assenso.
La osservo da terga: è visibile il tremito delle spalle. Immagino lo sguardo febbrile, il battito furioso del cuore e il respiro affannato di animale in trappola,
– Via! –
Al mio comando lei parte ad ispezionare il centro della parete, laddove più facilmente arriva, scorrendo con i polpastrelli i centimetri di muro coperti dalle architetture trompe l’oeil. Percorre il tracciato di una colonna, indugia sulla sommità di un’architrave, torna indietro attratta dall’inganno di una balaustra. Se potesse la scalerebbe quella parete, mani e piedi aggrappati a quel nulla che si chiama illusione. Finte balaustre e soglie inesistenti, spazi e profondità fittizie, ingannevoli superfici dilatate o compresse secondo l’esigenza della menzogna. Se le fosse possibile, penetrerebbe, col suo corpo vivo in quel muro per scavare lei stessa la porta. La sua via d’uscita. La sua salvezza.
In una situazione di terrore i processi mentali regrediscono ad uno livello elementare. Esclusivamente corporeo. Di difesa più che di attacco. Si cerca la tana dove nascondersi. Il cespuglio dietro cui mimetizzarsi. Quel tentativo di rendersi invisibili reso nullo dall’odore del sudore e della paura. Secrezioni che un predatore esperto come me facilmente capta.
Lo scialle, malamente legato sui fianchi scivola a terra. Ma lei non se ne cura: è un animale nudo che lotta per la vita. In punta di piedi, con le braccia protese ad ispezionare le parti più alte. Una posizione scomoda. In quello sforzo le braccia e le gambe devono dolerle. Controlla l’orologio. Incalzata dal tempo, quella parete, seppur limitata, le deve sembrare infinita.
Anche gli occhi devono farle male nello sforzo di mettere a fuoco, nell’intrico delle linee, una zona franca. Un’incastonatura. O un piccolo solco intonso. Si sofferma su un punto, lo valuta e passa oltre. Non tiene conto della parte bassa della parete, i suoi sforzi sono tutti incentrati sulle zone medio-alte. Controlla di nuovo l’orologio. Deve fare in fretta che le manca ancora una buona porzione di muro da esplorare, ed è certa che non le verranno concessi minuti supplementari.
Se solo ricordasse un qualche particolare che la riconducesse, anche in modo approssimativo, a ricollocare la posizione della porta quando ha fatto il suo ingresso nella stanza. Ma niente! Pur vero che quando si entra per la prima volta in una stanza si fa caso gli arredi non certo alla porta. E la prima cosa che ha visto è stato lo scenografico tendaggio spiovente dal soffitto. Solo dopo ha notato la parete dipinta dove la porta è scomparsa.
Ma se anche lei trovasse l’uscita, davvero lui la lascerebbe andare?
E’ stanca, e la ragione l’ha in buona parte smarrita in quel labirinto dipinto sul muro.
– Tempo scaduto. – Decreto inflessibile.
Lei neppure controlla l’orologio, sa di aver perso.
Puerilmente sfoga la sua disperazione con pugni e calci al muro. E’ così che il suo piede inavvertitamente aziona una minuscola leva sporgente tra il pavimento e il muro, e la porta miracolosamente si spalanca su un pianerottolo buio, dove lei si precipita. E’ ancora sulla soglia quando lui l’afferra e la trascina di nuovo dentro.
– Ti prego lasciami andare, starò zitta, te lo giuro. Farò tutto quello che vuoi, ma non farmi del male. –
Nuda ai miei piedi, il viso sporco, i capelli arruffati e le ginocchia sbucciate, m’implora accorata.
– Ti ho offerto una possibilità che non hai saputo sfruttare. Non è colpa mia se il rebus lo hai risolto casualmente e a tempo scaduto. Chi perde paga e non chiede sconti. Con te sono stato fin troppo buono, ti ho fornito indizi che tu, ovviamente, non hai saputo cogliere. Come la maggior parte degli sprovveduti hai visto solo ciò che si delineava all’altezza dei tuoi occhi e raggiungibile dall’estensione delle tue braccia, senza prendere in considerazione gli stati estremi. Hai limitato il tuo campo esplorativo alla banale supposizione dell’esistenza di una maniglia dissimulata tra gli elementi raffigurati. Scontato, non credi? La leva non poteva esser ubicata troppo in alto, poiché me ne servo anch’io per aprire la porta, e mi sarei stupidamente complicato la vita. Ma neppure ad altezza intermedia, troppo facile da intercettare scorrendo con le dita la parete. In basso, invece, è perfetta. Appena sporgente per non inciamparvi, semplice d’azionare con una leggera pressione del piede. –
Scuoto la testa, dispiaciuto.
Lei è raggomitolata su stessa in un angolo del pavimento. Piange.
Sono sicuro che non ha sentito una sola parola della mia spiegazione.
Quelli come lei sono senza speranza.
Quelli come lei, unicamente governati dell’emotività, sono nella scala gerarchica dell’umanità destinati ad assolvere alla funzione di schiavi o di vittime. Senza altra alternativa e possibilità di riscatto. Inadatti a competere, e di conseguenza incapaci ad affermarsi, sono le cavie perfette per attuare la sperimentazione nei processi evolutivi.
Eppure, per un momento mi sono illuso che lei, nel macrocosmo degli inetti, costituisse l’eccezione quando, scoprendo dietro il panneggio la catasta di tele tutte raffiguranti la medesima donna, è riuscita ad imporsi un ammirevole autocontrollo, impedendosi di gridare.
Sinceramente ho sperato che lei ce la facesse. Fino all’ultimo ho tifato affinché scampasse alla sorte toccata a tutte le altre. Ma la soluzione è giunta casuale e fuori tempo massimo. Non mi resta che passare alla parte conclusiva, la meno divertente ma anche, per fortuna, la più veloce: il tranello psicologico delle due porte.
– Non piangere. Non tutto è perduto. Ti offro una seconda chance, e fai attenzione a non fallire che non ce ne sarà una terza. La leva che aziona la porta ne apre in realtà due: una conduce all’esterno, l’altra, invece, sigilla all’interno. Entrambi i luoghi sono assolutamente identici a quello che hai visto quando la porta si è aperta. Secondo la direzione in cui la sposti, destra o sinistra, si aprirà l’una o l’altra. Un minuto per decidere. –
Le sollevo il viso.
Mi fissa con occhi vacui, poi inizia a gridare.
Mi s’avventa contro come un’ossessa, sferrando calci e tempestandomi il petto di pugni.
Facilmente la immobilizzo e la trascino davanti alla leva.
– Destra o sinistra!- Intimo perentorio. Ma lei non risponde.
– Destra o sinistra! – Ripeto strattonandola con una certa brutalità. Ancora silenzio.
– Destra o sinistra! – E’ la terza volta che lo ripeto. Sto perdendo la pazienza così le sferro un pugno in piena faccia. Perde un dente e sanguina dal naso. Si lamenta, ma non risponde.
– Destra o sinistra! – Se lei è ostinata io lo sarò ancora di più. La getto a terra e le sferro un calcio nel ventre. Faccio attenzione a calibrare la mia forza, non voglio ucciderla.Voglio solo che mi risponda.
– Destra o sinistra! – Lei è a terra, raggomitolata su stessa, respira a fatica, ancora s’ostina, però, nel suo silenzio.
– Destra o sinistra! – L’afferro per i capelli e la volto verso la parete. La leva è a livello dei suoi occhi.
– Destra o sinistra! – Sono ormai completamente fuori di me quando le assesto una pedata tra le scapole, con tale violenza che rimbalzo all’indietro e cado a terra.
– Destra o sinistra! – M’avvento su di lei, sferrando calci alla cieca, e questa volta neppure tento di calibrare la violenza.
– Destra o sinistra! – Ripeto sfinito dalla mia stessa veemenza. Mi lascio cadere a terra, accanto a lei.
Le scosto i capelli e quello che resta del suo volto tumefatto è l’enigma di un sorriso.
Un inedito per me.